A Bruxelles si "cerca la pace" preparando la guerra

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A Bruxelles si "cerca la pace" preparando la guerra



di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico

 

Continuano i preparativi per il “cessate il fuoco”. L'Ucraina sta deliberatamente prendendo di mira le “strutture energetiche” russe; in risposta, Mosca colpisce le infrastrutture militari e le imprese del complesso militare-industriale ucraino. Giovedì sera, reparti ucraini, penetrati in territorio russo, hanno compiuto un attentato contro la stazione di distribuzione del gas “Sudža”, che portava il gas in Europa. Le forze russe hanno risposto colpendo industrie militari di Odessa. Secondo i media ucraini, la città ha subito il più massiccio attacco di droni degli ultimi tre anni.

È così che si “mettono a punto” i dettagli del “cessate il fuoco”: alla maniera orwelliana o, per meglio dire, attualizzandone le espressioni, secondo il “metodo europeista”. In ogni caso, questa è al momento la situazione. L'Ucraina ha ignorato la richiesta russa di fermare la mobilitazione e l'Occidente quella di sospendere, almeno ufficialmente, le forniture di armi a Kiev, in cambio di un cessate il fuoco di 30 giorni. Senza l'adempimento di queste due richieste, ha dichiarato a “Sebastopoli 1” il corrispondente di guerra Roman Sapon'kov, qualsiasi cessate il fuoco è semplicemente inutile. Ma anche se si arrivasse a un congelamento del conflitto, ci sono molte «altre questioni: sarà molto difficile mandare di colpo a casa i circa 700.000 militari a contratto. C'è inoltre la questione della rotazione: senza di essa, i soldati, nelle trincee, entreranno semplicemente in uno stato di inabilità e lo stesso avverrà per gli ucraini. Senza queste tre condizioni, non ha senso parlare di cessate il fuoco o di cessazione delle ostilità», afferma Sapon'kov.

C'è di più. Nello specifico dei militari russi, il colonnello a riposo Konstantin Sivkov afferma che se «i negoziati si concludono con un'Ucraina che rimane nazista e armata fino ai denti, i soldati di prima linea verranno qui, in Russia. E coloro che hanno condotto tali negoziati verranno fatti fuori e, probabilmente, il governo spazzato via. Perché questo sarà percepito dai soldati e da tutta la parte attiva della popolazione russa come un tradimento, uno scippo della vittoria. Avremmo potuto sconfiggerli, ma loro ci hanno rubato la vittoria: è così che verrà percepito. Se tutto dovesse concludersi in questo modo, afferma Sivkov, ci si domanderebbe chi abbia rubato la vittoria e i «soldati in prima linea si interrogherebbero, ad esempio, su come molti dei nomi russi della classifica di “Forbes” abbiano drasticamente accresciuto i propri patrimoni nel corso del conflitto». Dunque, afferma Sivkov, i negoziati dovrebbero essere condotti solo da una posizione di forza, che garantisca la vittoria del nostro paese. Il governo potrebbe non sopravvivere a una nuova “Minsk-3”.

E, come accade sempre più spesso alle latitudini “europeiste”, sono spesso i militari a ragionare con un minimo di sale in zucca. La ripresa delle forniture di armi e di intelligence all'Ucraina è un errore degli Stati Uniti, ha dichiarato in un'intervista il generale tedesco a riposo Harald Kuyat: «non ha molto senso e non corrisponde nemmeno a un cessate il fuoco, che invece dovrebbe sostanzialmente congelare lo status quo e portare poi a un esito negoziale positivo». Tra l'altro, Kuyat ha ricordato anche un elemento ovvio, taciuto da quanti insistono sull'invio di 120.000 o 140.000 soldati a “monitorare” la zona smilitarizzata in caso di cessate il fuoco: oltre al fatto che «tutte le considerazioni fatte, soprattutto in Francia e Gran Bretagna, si dileguano, perché non c'è la possibilità di dispiegare un numero così elevato di truppe», ciò che è decisivo è che spetta a entrambe le parti in conflitto approvare quali siano i paesi che forniscono i contingenti di pace; in caso contrario, una di esse può colpire le truppe straniere senza subire conseguenze. Su questo, più di una volta Mosca è stata molto esplicita, affermando che tali truppe verrebbero considerate “terroristiche”. D'altronde, ha detto ancora il generale tedesco, gli «europei non hanno mai avuto una strategia di pace. Né la UE né alcuno dei maggiori paesi ha preso l'iniziativa di metter fine alla guerra in modo pacifico».

Tutt'altro: come scrive anche Andrej Sokolov su Stoletie, nell'Europa “democratica” si fa di tutto per gonfiare la psicosi di guerra. The Guardian, ad esempio, scrive che Parigi sta mettendo a punto una sorta di “vademecum di sopravvivenza” per le famiglie francesi. Stando a “Europe 1”, ai francesi si raccomanda anche di preparare un “kit di sopravvivenza”, composto da almeno sei litri d'acqua, una dozzina di scatolette di cibo, batterie e una torcia, oltre a forniture mediche di base, senza dimenticare, potremmo aggiungere, calze e biancheria intima di ricambio. Non si sa mai.

Ufficialmente, dalla cancelleria governativa si parla di «garantire la resilienza» - il nuovo lemma europeista che tutela da “regimi autoritari”, “autocrazie asiatiche”, zarismi e dittature d'ogni epoca - della popolazione «di fronte a tutti i tipi di crisi, siano esse naturali, tecnologiche, informatiche o di sicurezza». Ovviamente, il testo punta soprattutto sulla minaccia di guerra e, guarda caso, arriva dopo che Emmanuel Macron ha annunciato accelerazione e aumento di ordinativi di “Rafale”, per rafforzare le forze aeree e renderle «pronte, se vogliamo evitare la guerra»; anche qui, nulla di originale: “evitare la guerra” promettendo più cannoni e meno burro.

In effetti, nota Sokolov, negli ultimi tempi Macron non fa altro che parlare del pericolo di guerra, della necessità di affrontare la “minaccia russa” e della possibilità di un ritiro americano dal continente. Argomenti all'ordine del giorno di ogni “discorso di pace” che esca dai banchi di Bruxelles, delle “analisi” dei media che ostentano “pacifismo” rispolverando lo spirito con cui, nel ventennio lor caro, inneggiavano a «fede e sacrificio» che portano alla vittoria; quei media che vantano la propria “imparzialità” “anti-autoritaria” e che, in attesa di poter titolare di nuovo, come il 23 giugno del 1941, sul «doppio gioco del Cremlino subdolo alleato delle forze plutocratiche ed ebraiche mondiali», si limitano per ora a chiedersi «Perché a noi italiani piace così poco difenderci?», bacchettando così sulle mani tutti quei milioni di persone contrarie a finanziare l'industria di guerra e a essere mandate al macello per gli interessi dei monopoli euro-atlantici.

Dunque, ha detto Macron, ergendosi a guida delle “forze di pace” euro-atlantiche, la Francia e il «nostro continente devono continuare a difendersi, armarsi e prepararsi se vogliamo evitare la guerra. Nessuno può dire cosa accadrà nei prossimi mesi o anni. Voglio che siamo preparati. Voglio che siamo difesi».

Detto fatto: a Bruxelles i tagliagole UE mettono apertamente in cantiere la guerra entro i prossimi cinque anni e il nazigolpista-capo, ospite assiduo dei vertici “di pace europeisti, chiede altri miliardi di armi e vanta “l'esperienza ucraina” in fatto di guerra, riservandosi di magnificare, nei colloqui a porte chiuse, le “competenze” terroristiche degli ukro-nazisti di cui l'Europa può far tesoro.

Non sono da meno di Macron in Germania: il 18 marzo, il Bundestag ha approvato un emendamento alla Costituzione per l'aumento delle spese di guerra, eliminando le restrizioni fiscali a favore della Bundeswehr, con l'ormai nota abrogazione del cosiddetto “freno al debito” per le spese militari superiori al 1% del PIL. In questo modo, Olaf Scholz e Emmanuel Macron possono orgogliosamente vantarsi di essere «entrambi d'accordo che l'Ucraina possa contare su di noi, sull'Europa e che non la deluderemo» e che tutti «continueremo a sostenere l'esercito ucraino nella sua guerra di resistenza di fronte all'aggressione russa». A noi!

E che non siano soltanto parole, quelle del duo gallo-teutonico, lo dice la Tagesschau, secondo cui già oggi Kiev potrebbe ricevere altri tre miliardi di euro di aiuti. Se persino il Times definisce “amorale” e “pericolosa” l'idea di Keir Starmer sull'invio di soldati britannici in Ucraina, ironizzando sul fatto che negli ultimi tempi «i premier britannici hanno preso l'abitudine di pavoneggiarsi sulla scena internazionale, facendosi coinvolgere in piccole guerre senza averne i mezzi. Una guerra con la Russia sarebbe tutt'altro che piccola», ecco che in Norvegia si raggiunge un livello di ridicolezza criminale. Parla così di vero e proprio oscurantismo il politologo Pal Steigan, a proposito della connazionale Karen-Anna Eggen che, sul “Verdens Gang”, si dice convinta che l'Europa abbia «buone possibilità di sconfiggere la macchina militare russa guidata da Valerij Gerasimov... Abbiamo una popolazione molto più numerosa della Russia; un'economia molto più forte. Credo che possiamo farcela. Valuto molto positive le prospettive dell'Europa». Oscurantismo e ignoranza, risponde Steigan: «Mi chiedo se l'esperta Eggen abbia un'idea della situazione dell'industria europea! Questa esperta presuntuosa non sa che la Germania, locomotiva dell'economia europea, è al terzo anno di recessione?».

Sta di fatto che, se fino a poco tempo fa era opinione diffusa che l'unico ostacolo al cessate il fuoco fosse rappresentato da Vladimir Zelenskij, oggi è evidente che il principale impedimento alla diplomazia non è dato dalla junta di Kiev, ma da quella di Bruxelles. L'Unione europea, le cui autorità sono rappresentate dalla Commissione europea e da alcuni leader nazionali (in particolare il presidente francese Emmanuel Macron), osserva su “Vzgljad” il politologo Ghevorg Mirzajan, fanno di tutto per minare il processo negoziale; promettono «barili di euro e cesti di armi ai ragazzacci di Kiev e intendono inviare truppe in Ucraina con il pretesto di mantenere la pace, ben sapendo che questo potrebbe essere l'inizio di una grande guerra in Europa». A fronte dei vantaggi economici, sociali e politici che deriverebbero dalla fine del conflitto, nota Mirzajan, l'Europa è presa da tre paure, che ne determinano «il comportamento anticostruttivo, per certi versi persino folle, nel conflitto ucraino».

Agisce la paura della disintegrazione. La tendenza a «utilizzare tutte le risorse per infliggere una sconfitta strategica alla Russia ha costretto la UE a trasformarsi da comunità di paesi democratici, in una setta in cui tutti sono subordinati alla volontà del leader. E quando la Russia vincerà la guerra, si scoprirà che il leader ha sbagliato». E allora crollerà l'intera base “ideologica” della setta, tanto che la cosiddetta “integrazione europea”, grazie alla iena antropomorfa, signora Albrecht, si è trasformata «da un'idea di prosperità economica comune in uno strumento per organizzare una crociata contro gli infedeli». La seconda paura è quella di essere ignorati, lasciati ai margini del processo negoziale dalle trattative russo-americane: ecco perché UE e Gran Bretagna stanno facendo di tutto per cercare di farsi serbare un posto al tavolo negoziale. E lo fanno, ancora una volta, alla maniera orwelliana, «dimostrando la possibilità di far deragliare un accordo di pace alla cui conclusione non partecipano»: ad esempio, con la prospettiva franco-britannica sull'invio di contingenti “di pace” e rifiutando di interrompere le forniture di armi a Kiev. La pace attraverso la forza: secondo il motto liberal-fascista della signora von der Leyen.

Il terzo timore, è quello della responsabilità, che per qualcuno, possiamo aggiungere, diventa un vero e proprio terrore, di perdere, se non, purtroppo, la testa, quantomeno la poltrona: Bruxelles non vuole che la guerra si concluda con una vittoria russa perché sa che le élite europee dovranno pagare per gli errori e i crimini commessi durante questa guerra. Mirzajan intende dire che dovranno pagare non di fronte ai propri popoli – di questo, si intende, dovremmo essere noi a occuparci, quando l'organizzazione, che oggi manca, avrà gambe proprie e sarà in grado di mobilitare le forze necessarie - ma di fronte «alla popolazione russa. Per aver finanziato l'assassinio di russi. Per aver fornito al regime di Kiev armi per uccidere i russi. Per aver contribuito a organizzare il genocidio culturale dei russi. Per avere, di fatto, giustificato l'uccisione di civili a Belgorod, Kursk e altre città: ricorderemo a lungo» conclude Mirzajan, le parole del Commissario europeo per la politica estera Kaja Kallas, secondo cui «i russi pacifici non muoiono», pronunciate «con un sorriso nazista. E prima o poi gliele faremo pagare».

Insomma: nulla di nuovo: cambiano gli ordinamenti sociali e i regimi politici. Ma, se cent'anni fa le potenze interventiste dell'imperialismo di USA, Francia, Gran Bretagna, Italia, Giappone tentavano di aggredire e, come scriveva Lenin, cercavano di fare dell'Ucraina di Petljura e della Rada anti-sovietica «un punto di supporto contro la Repubblica sovietica», anche oggi da Bruxelles e dalle cancellerie europee si punta su Kiev per non perdere la fetta di torta dei profitti monopolistici mondiali.

«Fissa è la vostra sorte! Razza leggiadra e rea», griderebbe Carlo Gérard nel “Andrea Cheniér”.

 

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