A chi giova la forza militare europea?
di Fabrizio Poggi
Il confronto commercial-politico tra le due sponde dell'Atlantico rischia di generare mostri; o, quantomeno, di avviare una ulteriore spirale di militarismo, a beneficio dei vari settori militar-industriali di qua e di là dall'oceano.
Le contraddizioni tra i membri europei della NATO, scrive Ilja Polonskij su topcor.ru, sono troppo acute per poter considerare l'Alleanza militarmente efficiente. Ecco dunque che nove paesi europei, con Francia, Germania e Gran Bretagna in testa, seguite da Estonia, Belgio, Olanda, Danimarca, Spagna e Portogallo, decidono l'istituzione di forze europee di pronto intervento: un esercito comune europeo distinto dalla NATO. In pratica, un segnale a Washington a non forzare troppo la mano con i “partner” di qua dall'Atlantico, in vista del vertice NATO di Bruxelles del 11 luglio. Certo, c'è chi si dispera per il fatto “che un Paese come l’Italia, che ha un’industria degli armamenti molto sviluppata ed avanzata e che avrebbe tutto da guadagnare dal far parte del patto, per ora sta alla finestra”; ma questa è un'altra storia.
Ora, notano gli osservatori, già l'esperienza NATO ha dimostrato la dubbia efficienza di forti raggruppamenti di pronto intervento: ne sono esempi il “NATO Rapid Deployable Corps” (NRDC) o il “Immediate Response Force”, passando per il fantomatico “Eurocorps” degli anni '90, al di fuori del sistema NATO. Dunque, le discussioni sulle nuove forze di rapido schieramento paiono rivestire più un carattere politico, al pari della “Forza operativa multinazionale NATO”: esse sono necessarie non tanto per la guerra, quanto per lo scontro politico-commerciale UE-USA. La stessa NATO, in quanto struttura, era stata creata sì quale blocco militare, ma anche come strumento di controllo politico yankee sull'Europa, un controllo che Washington non sembra ora più in grado di mantenere.
In questo quadro, come non sorridere di quanti, annebbiati da “schifoso” (per mutuarne i termini) anticomunismo, che li fa fluidamente atterrare dall'URSS alla Russia odierna, intenderebbero “battere Putin e i sovranisti,” nemici “delle società occidentali”, intenti a “dividere l'Europa”, facendo affidamento sull'esercito europeo per esorcizzare le “memorie recenti di imperialismo sovietico”, e assicurano che l'Europa “di Merkel e Macron” deve “ripartire con quello che serve veramente, come la difesa comune”. Ora, guarda caso, anche per Mosca sarebbe vantaggiosa l'istituzione di un tale fantomatico esercito che, dice ancora Polonskij, “accelererebbe l'ulteriore disgregazione della NATO e il distacco dell'Unione europea dalla collaborazione politico-militare con gli USA”. Ma, urlano i “Merkron” di casa nostra, “quello che serve nel mondo di oggi” non sono altro che “difesa e politica estera comuni” e se “Merkel e Macron articolano una visione coerente di un’idea di Europa”, allora “potrebbero battere … Putin al suo stesso gioco. Ci conviene sperare che ci riescano se vogliamo evitare una nuova guerra tra europei nei prossimi decenni”: tipo quella, domandiamo noi, che potrebbe scatenarsi tra Parigi, Berlino e Londra per assicurarsi l'egemonia politica, affaristica e militare sul neo blocco di guerra?
Blocco in cui, però, non sembra aver troppa fretta di entrare qualche paese di quelli, tra gli ex membri del Patto di Varsavia, che più gridano al “pericolo russo”. Sarà un caso, ma proprio la Polonia dimostra anche in questo caso di ambire a sostituire la Germania quale avamposto militare USA in Europa. Una volta inferiore alla Germania di quasi cinque volte, la sta oggi superando ed entro il 2025 quello polacco dovrebbe trasformarsi in uno dei più nutriti eserciti europei, passando dagli attuali 120.000 a 230.000 uomini. Tra il 2002 e il 2003, ricorda Aleksandr Zapolskis su iarex.ru, Varsavia aveva ottenuto gratis dalla Germania 128 Leopard 2A4 e nel 2014 ha completato l'acquisto di 105 Leopard 2A5. Ufficialmente, viene detto che nell'ultimo ventennio la Polonia si è completamente disfatta del vecchio armamento sovietico: su 11 battaglioni carri, solo due sono ancora armati con T-72. In realtà, quattro battaglioni di PT-91 “Twardy” altro non sono che modificazioni del T-72M1 e, in generale, il 56% degli oltre mille carri polacchi consiste di vecchi T-72M e il 22% di T-72M1 modificato in “Twardy”. Vero è che il passaggio alla completa modernizzazione richiede soldi, oggi appena sufficienti a svecchiare i primi Leopard 2A4, mentre ne occorrerebbero molti di più per completare almeno altri tre battaglioni, oltre gli attuali 11. Ma, intanto, il Swieto Wojska Polskiego può vantare quasi il triplo di battaglioni carri, rispetto ai “miseri” cinque della Bundeswehr: secondo alcune fonti, infatti, la Germania disporrebbe appena di 255 carri pesanti Leopard 2, di cui solo 95 operativi e altri 53 in fase di conversione allo standard 2A6M+. Inoltre, Varsavia, può ostentare di fronte a Washington di aver da tempo raggiunto il famigerato 2% del PIL, richiesto da Trump agli “alleati”, di volerlo portare al 2,1% entro il 2020 e al 2,5% entro il 2030, a fronte del 1,19% tedesco, anche se le cifre assolute non sono nemmeno lontanamente paragonabili: circa 39 miliardi di euro per Berlino, contro i meno di 9 miliardi di dollari polacchi.
Sembra in ogni caso che lo sforzo di Varsavia sia teso ad allontanare un certo qual malcelato timore che il prossimo summit Putin-Trump determini un miglioramento dei rapporti USA-Russia, a detrimento delle grida sul “pericolo di aggressione russa” continuamente lanciate dalla Polonia e dell'ambizione a venir considerata il principale alleato degli Stati Uniti in Europa. Tali timori hanno qualche antecedente nella freddezza mostrata da Washington alla proposta di Varsavia di costruire a proprie spese (si parla di oltre 2 miliardi di dollari) le infrastrutture per il dislocamento permanente di una divisione USA sul territorio polacco, dopo l'arrivo in Europa, a inizio maggio, di una brigata carri statunitense con destinazione Polonia, nell'ambito dell'operazione “Atlantic Resolve”.
In generale, scrive il politologo Andrej Kadomtsev su Mezhdunarodnaja Zhizn, sembra che, per ora, la UE tenti di esercitare una pressione “tattica” su Trump; l'elenco di merci su cui Bruxelles minaccia di elevare i dazi, in risposta a quelli USA, riguarda produzioni di quegli Stati che tradizionalmente votano per i repubblicani e si avvicinano le elezioni di medio termine anche per un terzo del Senato, in cui il partito di Trump ha appena 52 seggi su 100. In definitiva, la domanda di base è se l'attuale situazione “interatlantica” debba considerarsi uno dei ripetuti zigzag statunitensi o se invece sia l'inizio di una tendenza a lungo termine, espressione di problemi che hanno completamente trasformato l'occidente e il mondo, insieme alla presa d'atto USA di non avere più le risorse sufficienti a conservare il dominio globale nella sua forma attuale. Così che, se il New-York Times ritiene che il summit Trump-Putin, insieme alla riduzione della tensione tra Washington e Mosca, possa portare a un inasprimento delle contraddizioni tra alleati NATO, per il politologo di “Sciences Po”, Zaki Laïdi, si sarebbe in presenza di un bipolarismo economico USA-Cina e di uno politico USA-Russia.
La strada per guadagnare forza, sostiene Kadomtsev, l'Europa deve cercarla non nella creazione di una propria superpotenza, ma in format multilaterali dei rapporti internazionali senza gli Stati Uniti, liberandosi dal tentativo di Trump, da un lato, di indebolire la UE e, dall'altro, di insistere affinché questa prosegua nelle sanzioni antirusse: dunque, perché non andare verso un sistema di sicurezza unico europeo, che includa anche la Russia? Con buona pace delle “memorie recenti di imperialismo sovietico”.