Agamben contro i  Comunisti

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Agamben contro i  Comunisti


Agamben finalmente scrive un pezzo sul Comunismo. Gli adepti ringraziano: ora hanno un breviario e possono cantare messa. Non andranno in giro a dire che i comunisti hanno in testa solo l’idea che «elettrificazione + soviet» sono il paradiso o che il sol dell’avvenire è la traduzione per zucche proletarie del messianismo biblico o che Rivoluzione rimacina l’idea di progresso, la quale è intrisa di onto-teo-teleologia (se volgiamo dirlo in modo chic), adesso gli adepti possono diffondere il verbo ed evangelizzare nuovi continenti con il mot-de-passe Comunismo = Capitalismo (sic!). 


Ma cosa dice Agamben del Comunismo?

Dice (con il suo solito stile, e cioè che Aristotele ha detto delle cose importanti prima di lui, ma lui è andato più in fondo, che Heidegger ha detto delle cose prima di lui ma lui è il primo ad averle dette così e così, che Foucault ha detto che le prigioni eccetera, ma lui – Agamben – ha detto per primo che le prigioni eccetera), e dice, insomma, che era perfettamente noto, a chi sa leggere la storia, cosa fosse il capitalismo nella sua variante comunista, ma che era del tutto inatteso (e che dunque a rivelarcelo è lui stesso in persona personalmente) che il comunismo capitalista (mentre noi dormivamo) fosse diventato «il principio dominante nella fase attuale del capitalismo globalizzato» (notare la retorica para-filosofica, para-marxista, para-culo), e che questo nuovo regime, che si è inverato in Cina (che scoop!), sembra uscirne vittorioso.

E che per giunta questo regime cinese, unisce l’aspetto più disumano del capitalismo con quello più atroce del comunismo statalista, unisce cioè l’estrema alienazione (un tocco di Marcuse qui ci sta alla grande, vuoi vedere che qualche vecchio babbione fricchettone abbocchi!) con un controllo sociale senza precedenti  - e qui catturiamo i tecno-entusiasti degli anni novanta delusi che il free sia stato recuperato dal big data.

Insomma, il mondo fa schifo, sia a destra che a manca – viva l’anarchia.


Uno spreco di genio filosofico per dire cose che Agamben ripete da sempre, e che abbiamo già letto nelle rimasticazioni di Heidegger e Friends, e che dicono che il comunismo è roba vecchia, che il plusvalore è roba vecchia, che Russia a Usa stritolano in una morsa la libera e bella Europa, che il conflitto capitale-lavoro deve retrocede davanti al conflitto di genere, davanti al conflitto giovani sballati contro vecchi rincoglioniti, di musica rock contro musica classica, balera contro dancehall, bolgia dionisiaca contro grettezza matematica, sesso e sesso contro copula domestica, eccetera eccetera.  
Nel 1993, per esempio, sul numero 4 della rivista Luogo Comune, Agamben scrive che il «concetto di citizen è inadeguato e va sostituito con quello di denizen»; che in Europa bisogna svegliarsi e demolire lo Stato, perché è la roccaforte di lingua, religione e famiglia.

Non è facile, dice Agamben, indicare i modi in cui ciò potrà concretamente avvenire. Tuttavia, dice, bisogna assumere una certa extraterritorialità (o, meglio, a-territorialità) da generalizzare come modello per nuove relazioni internazionali. Invece di due stati nazionali separati da incerti e minacciosi confini (minacciosi confini) sarebbe possibile immaginare due comunità politiche deterritorializzate e in esodo l’una nell’altra. L’Europa diventerebbe uno spazio a-territoriale o extraterritoriale, in cui tutti i residenti sarebbero in posizione di esodo. Europeo significherebbe essere-in-esodo (ovviamente anche immobile).

Queste panzane Agamben le trascrive nel gergo Deleuziano, con la pretesa Heideggeriana di inventare un lessico filosofico seduta stante, legando lemma a lemma con trattino, con la certezza di far acquisire al verbo quell’aura di enunciazione ex cathedra tale da permettere ai discepoli di Venezia di citarlo come Sacra Scrittura - nei secoli dei secoli.

Questo spazio a-topico (e tutti i discepoli a coniugare: a-topico, disto-pico, trans-topico, post-topico, neo-topico, caco-topico, topismo, neo-ismo [tropismo?]) questo spazio, dice Agamben, non coinciderebbe con nessun territorio omogeneo né con la loro somma topografica («topografica», rigorosamente in corsivo, da esoterista della Nielsen) ma agirebbe su di essi, forandoli.

In questo nuovo spazio, dice, le città europee, entrando in una relazione di reciproca extraterritorialità, ritroverebbero la loro antica vocazione di città del mondo.

Non ci vuole uno scienziato politico (dotato del senno del poi) per capire che nel 1993, affetto da sonnambulismo filosofico, Agamben sta facendo la réclame del capitalismo finanziario e delle piazze finanziarie globali, ovvero di quelle entità offshore, che agisco al di là e al di sopra dei territori, in esodo continuo, anzi, come dice Agamben?, in esodo l’una nell’altra, città-banche che forano Stati già colabrodo, rubando ai poveri per dare ai ricchi, infischiandosene dei territori e di chi ci vive, infischiandosene di chi è legato alla terra e al mattone.

Solo in una terra in cui gli spazi degli Stati saranno stati traforati e topologicamente deformati e in cui il cittadino avrà saputo riconoscere il profugo che egli stesso è, scrive Agamben, è pensabile oggi la sopravvivenza politica degli uomini.

Questa non è una profezia, o un’utopia, questo è Agamben, che nella sua confusione abituale crede di fare l’interesse di noi poveri cristi, quando invece ci sta vendendo, catturandoci con le sue parolette alla moda (ma un tanto al chilo), con il suo gergo di stagione, con la sua ossessione per il nuovo, per l’avanguardia, per il prodotto di consumo.

Adesso che il multiculturalismo ammuffisce in cantina, vende polemologia GneGne. 

Polemologia da discount che permette a un piddino qualunque di dire che (cito) Fedez va in giro con la sua macchina che, essendo lui ricco, è una Lamborghini. Ha una Lamborghini, guadagnata onestamente e pagata regolarmente grazie al suo estro musicale. Quindi?

Quindi, grazie alla decostruzione di Agamben, non sappiamo più cosa rispondere, se non che la ragione del più forte è sempre la migliore, e siccome Fedez si fa forte col gruzzolo raccolto, dunque ha anche ragione. 

Ecco cosa abbiamo combinato quando abbiamo deciso di mettere in soffitta valore/plusvalore! Abbiamo lasciato le persone senza un criterio per giudicare, se non la legalità. Tutto ciò che è legale è giusto. E tutto ciò che è illegale è il demonio. Poi ci siamo dovuti sucare anni e anni di Report, Saviano, Stella & Rizzo.

Leo Essen

Leo Essen

Ha studiato all’università di Bologna con Gianfranco Bonola e Manlio Iofrida. È autore di Come si ruba una tesi di laurea (K Inc, 1997) e Quattro racconti al dottor Cacciatutto (Emir, 2000). È tra i fondatori delle riviste Il Gigio e Da Panico. Scrive su Contropiano e L’Antidiplomatico.

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