Agricoltura russa: tra deficit di carburanti e idee di nazionalizzazione
di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico
Mentre il quotidiano turco Sabah annota i particolari del trasferimento di frumento russo in Africa, a Mosca si lancia l'allarme per la penuria di carburanti nel settore agricolo, che potrebbe ripercuotersi drammaticamente sul mercato alimentare interno. In base a quanto riporta Sabah, quaranta vascelli da 25 tonnellate ciascuno di capacità, dovrebbero trasferire il grano dai porti di Tuapse e Novorossijsk verso la Turchia, dove sarà lavorato e la farina spedita quindi in Burkina Faso, Zimbabwe, Mali, Somalia, Eritrea e Repubblica Centrafricana. In programma, invii successivi anche in Chad, Gibuti, Yemen, Etiopia.
Ma intanto il Ministro dell'agricoltura russo, Dmitrij Patrušev parla senza mezzi termini di «approssimarsi di una catastrofe». Se fino a un paio di settimane fa, la questione era su come poter disporre di carburante diesel a prezzi scontati per il settore agricolo, dato il forte rialzo dei prezzi, afferma Patrušev, ora il problema è come trovarlo, «anche a un prezzo qualunque sia»: ovviamente, non eccessivo.
Alla riunione delle commissioni per il controllo e le questioni agrarie, il Ministro ha proposto di fermare completamente l'esportazione di prodotti petroliferi finché la situazione non si sia stabilizzata; al momento, c'è necessità di mezzo milione di tonnellate di carburante per completare tutti i lavori agricoli annuali in diverse regioni e il dipartimento è costretto a “manovrare” con le raffinerie, regione per regione, alla ricerca di carburante per le aziende agricole. Si deve «risolvere questo problema», ha detto; altrimenti «fermiamo i raccolti e anche la seminagione invernale. Sarà una catastrofe».
In effetti, nota il portale Regnum, tre settimane fa una tonnellata di diesel nella regione di Saratov costava circa 55.000 rubi, ora è salita a oltre 72.000. Secondo il quotidiano Kommersant, già a fine agosto, in alcune regioni del circondario della Siberia – ma non, ad esempio, nel Krasnojarskij kraj e in Khakasija - varie stazioni di rifornimento lamentavano carenza di benzina e le riserve erano valutate in 5-7 giorni.
Le ragioni di tale situazione appaiono diverse. A parere dell'economista Igor Juškov, insieme a «l'aumento di prezzo del carburante in borsa e al rincaro di benzina e diesel al dettaglio, si è in presenza anche di un certo deficit», in particolare nelle regioni meridionali. La carenza di carburante e il suo aumento di prezzo nel periodo agosto-settembre non è una novità, afferma Juškov; ma quest'anno la situazione non è del tutto abituale ed è il risultato di una coincidenza di diversi fattori: «I prezzi di petrolio e derivati, sui mercati esteri sono aumentati, mentre il rublo si è indebolito. Ne risulta che questi fattori rendono molto più redditizio esportare petrolio e prodotti petroliferi, invece che rifornire il mercato interno».
Il che, a sua volta, non è che il risultato naturale dei rapporti capitalistici di produzione, sarebbe la semplice constatazione.
Un ulteriore ruolo non indifferente pare lo abbia giocato anche quello che gli economisti chiamano lo “smorzamento”, che consiste in ciò: se i prezzi della benzina sono alti all'estero, lo Stato incoraggia le compagnie petrolifere a non aumentare i prezzi all'interno. Così, le entrate delle imprese, cioè le “perdite” per il non aumento dei prezzi, vengono compensate con fondi di bilancio. Se i prezzi interni della benzina sono più alti dei prezzi alle esportazioni, sono i petrolieri a trasferire denaro al bilancio.
O, almeno, così dovrebbe essere.
Secondo l'edizione russa di Forbes, il sistema di “smorzamento” agisce in Russia dal 2019. Ma ora tali trasferimenti alle compagnie petrolifere sono stati dimezzati, e quindi quelle hanno gradualmente cominciato a esportare di più, osserva Juškov. Il risultato è che c’è meno carburante sul mercato interno, mentre cresce la domanda. E cresce soprattutto per il diesel, con cui si alimentano i mezzi militari impegnati in Ucraina.
Un'altra ulteriore causa, a detta di vari osservatori, risiede nella logistica, e in particolare nella rete ferroviaria, che in alcune regioni non è in grado di sopportare l'elevato carico della domanda crescente, anche perché se prima la rete infrastrutturale era orientata al trasporto verso ovest, verso l'Europa, ora le direzioni stanno mutando verso est e sud. Soprattutto in quest'ultima direzione, in presenza di un settore agricolo molto sviluppato, la situazione è complicata da un complesso di ragioni: la debole rete ferroviaria locale, in estate deve sopportare anche un discreto traffico turistico, anche se non decisivo per la questione del trasporto di carburanti.
Secondo il presidente dell'Unione indipendente dei carburanti, Pavel Baženov, solo il 50% dei carburanti prodotti alimenta il consumo interno, mentre il resto va all'esportazione. Non risulta una qualche sottoproduzione di diesel, dice; al contrario, se ne produce il doppio del consumo: quindi non c'è deficit e l'ammanco è proprio nei prodotti destinati al mercato interno.
Come detto, la soluzione caldeggiata (ma, pare, al momento solo come idea) dal Ministro Patrušev è abbastanza radicale: fermare l'export di prodotti petroliferi fino a che la situazione non si sarà stabilizzata. Ma, sostiene Baženov, una sospensione completa o, peggio, un divieto di esportazione costituirebbe un passo troppo brusco; quello che il governo potrebbe fare, dice, sarebbe imporre il divieto di vendita all'estero alle aziende non produttrici di carburanti: vale a dire, a chi acquista carburanti in borsa per poi esportali. Che, in teoria, è una misura già all'esame del governo: Interfax scrive che il Ministero dell'energia ha presentato un progetto di decreto – ancora allo studio - sul divieto di esportazione "sottobanco" di prodotti petroliferi.
D'altro canto, scrive il settimanale Argumenty i Fakty, non sembra del tutto fattibile, soprattutto in tempi brevi, l'dea del passaggio dei macchinari agricoli all'alimentazione a metano, per sopperire alla carenza e al rincaro di carburanti diesel.
In effetti, nelle regioni meridionali, il deficit e l'aumento dei costi sono acuiti anche da un'estate particolarmente secca, che obbliga a lavorare il terreno più di una volta. Ma soprattutto, dice l'agronomo Aleksandr Korbut, la transizione al metano richiede tempo, mentre il problema è urgentissimo e significa anche grossi investimenti. Inoltre, è necessaria un'infrastruttura per lo stoccaggio e la distribuzione del gas e si devono convertire centinaia di migliaia di mezzi: un impegno di molti anni, mentre il momento della semina è già ora.
Sono al limite della sopportazione le aziende agricole della regione di Stavropol, ad esempio, che devono prepararsi alla semina invernale e completare i raccolti di barbabietole da zucchero, mais e girasole, ma non hanno di che riempire i serbatoi: in qualche caso, dicono, il carburante è stato pagato da tempo, ma le autocisterne sono ferme da qualche parte.
Gli alti prezzi del carburante, dice ancora Korbut, portano con sé prezzi di produzione e di trasporto (i secondi, sono cresciuti di 1/3 da inizio anno) maggiori, che si riflettono nei prezzi al dettaglio – il pane è aumentato del 10% - e in un forte rischio inflazionistico.
Insomma, la conclusione logica dei rapporti capitalistici, come nota l'economista Igor Abakumov, è che la congiuntura nel mercato dei carburanti ha reso più proficuo vendere all'estero che non sul mercato interno. Come direbbe qualsiasi gangster yankee: nessun intento malvagio, soltanto business; che però danneggia l'economia russa. Si dovrebbero ridurre alla ragione i produttori, afferma Abakumov, e sotto la minaccia della nazionalizzazione, costringerli a stabilire prezzi adeguati e riprendere le forniture. «C'è già un'esperienza simile, nel settore dei fertilizzanti minerali: si sono potuti stabilizzare i prezzi solo con la minaccia del divieto d'esportazione. Pertanto, è necessario o chiudere le esportazioni, oppure correggere la situazione con la minaccia della nazionalizzazione».
Soprattutto in tempi di confronto “caldo” con l'imperialismo euro-atlantico, sembra che qualche nazionalizzazione – che non significa affatto, come sogna certa “compagneria”, una scelta “sovietica”, ma una semplice necessità dello stesso capitale interno – potrebbero rivelarsi vincenti.