Alberto Negri - Ecco perché ci piace l’ordine talebano

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Alberto Negri - Ecco perché ci piace l’ordine talebano

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Il ritorno dei talebani era prevedibile forse anche auspicato. Un altro bel colpo nella strategia del caos perseguita dagli Usa negli ultimi vent’anni grazie alle amministrazioni repubblicane ma anche a quelle democratiche, dove spicca con Obama il ritiro dall’Iraq che lasciò il Paese nelle braccia dell’Isis.

Il ritiro americano dall’Afghanistan è una vergogna ma anche una mossa calcolata. Il ritorno all’ordine talebano era prevedibile, forse persino auspicato. Fare gli stupiti è ipocrita.

Di mezzo come al solito ci vanno gli afghani che, come scriveva ieri sul manifesto Giuliano Battiston, sono stati scaricati dagli europei che premono per il rimpatrio dei profughi aggrappandosi ad accordi firmati dal governo di Kabul con un ricatto esplicito: dovete riprendervi i rifugiati altrimenti non vi diamo i soldi.

E poi ci facciamo chiamare Paesi «donatori». Insomma la stessa usuale solfa di Bruxelles che spera con i quattrini di fermare gli arrivi alle frontiere, una volta pagando Erdogan, un’altra i libici o i tunisini. I prossimi a libro paga magari saranno proprio i talebani e non ci sarebbe troppo da scandalizzarsi: da anni versiamo soldi ai criminali libici e ai loro complici.

L’Afghanistan è lontano e vogliamo dimenticare alla svelta Kabul, anche se sono passati vent’anni da quando gli Stati uniti hanno invaso l’Afghanistan con l’obiettivo di eliminare Al Qaeda dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e rovesciare il regime del Mullah Omar. Questa sembra essere l’unica preoccupazione dell’Unione europea: che l’Afghanistan stia sprofondando nel caos e in una nuova guerra civile, con il risorgere dei signori della guerra cooptati in questi anni nella «democrazia» afghana, appare secondario. Dopo avere proclamato, per anni, con gli americani che stare in Afghanistan era cosa giusta e doverosa per «proteggere» la democrazia e i diritti delle donne, adesso gli europei voltano la faccia dall’altra parte e rifiutano asilo a chi teme giustamente di essere ricacciato in un nuovo medioevo.

A stento sono stati salvati un po’ di afghani che lavoravano per le truppe occidentali, giusto per le pressioni sui media che hanno dato spazio alle suppliche di quelli che i talebani considerano «collaborazionisti». Tralasciando di scrivere che questo censimento dei collaborazionisti i talebani nelle provincie lo fanno da sempre e in maniera accurata, con in mano i dati anagrafici di una popolazione che hanno tenuto sotto torchio per anni. I talebani non hanno mai smesso di governare «a distanza» il Paese e tutti lo sapevano benissimo, altrimenti non sarebbero avanzati così velocemente.

L’ipocrisia è tale da nascondere un pensiero neppure troppo remoto, vista la situazione. Un ritorno all’«ordine talebano» potrebbe anche non dispiacere troppo ad americani ed europei.

Per questo ce ne siamo andati via alla chetichella ammainando velocemente la bandiera, come se qui non fossero morti dozzine di soldati italiani dando la caccia ai talebani nel Gulestan, la valle delle rose. Con il ritiro gli americani e la Nato hanno rifilato una pesante eredità all’Armata Rossa, ai cinesi e agli iraniani.

Un altro bel colpo nella strategia del caos perseguita dagli Stati uniti negli ultimi vent’anni grazie alle amministrazioni repubblicane ma anche a quelle democratiche, dove spicca con Obama il ritiro dall’Iraq che lasciò il Paese nelle braccia dell’Isis. Anche lì doveva un esercito nazionale come in Afghanistan a mantenere l’ordine: in tutti e due i casi le forze armate locali si sono sfaldate alla prima offensiva.

E ora l’Armata Rossa organizza manovre militari con Uzbekistan e Tagikistan: i russi dovrebbero tenere quelle frontiere che abbandonarono nell’89 quando si ritirarono dopo l’invasione del dicembre ’79 e una guerra persa contro i mujaheddin, sostenuti dagli Usa e dai loro alleati. Anche la Cina si sta muovendo per proteggere i confini dello Xinjiang musulmano e le concessioni minerarie afghane. L’obiettivo a quanto pare sembra sia stato raggiunto: i talebani hanno assicurato che non interferiranno nelle questioni interne cinesi tra gli uighuri e Pechino, allo stesso tempo la Cina ha definito gli insorti afghani “una forza militare e politica cruciale”. Così come stanno negoziando gli iraniani, che si trovano i talebani a stretto contatto nella provincia di Herat, storicamente legata alla Persia.

Tutti sono seduti al tavolo con i talebani, dagli americani agli altri, si tratta di preparare il terreno a loro riconoscimento internazionale. E vedrete che ci piacerà pure Muhammad Yaqoob, il figlio del Mullah Omar che lancia appelli - non si sa quanto affidabili e realistici - alla moderazione dei combattenti. Di democrazia, protezione dei diritti delle donne, sviluppo sociale ed economico di un Paese che l’Occidente diceva di volere cambiare già non parla più nessuno. Siamo tornati a casa, i profughi afghani li cacciamo indietro e abbiamo salvato una manciata di collaborazionisti: che volete di più? Il «ritorno all’ordine» tra un pò di tempo, anche nel caos, sarà completo.

Alberto Negri

Alberto Negri

Nasce a Milano nel 1956. E' giornalista professionista dal 1982. Laureato in Scienze Politiche, dal 1981 al 1983 è stato ricercatore all'Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq. Tra le sue principali opere: “Il Turbante e la Corona – Iran, trent’anni dopo” (Marco Tropea, 2009) e “l musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente” (Rosenberg & Sellier, marzo 2017) 

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