Alessandro Volpi: lo stadio del finanzcapitalismo tredici anni dopo Luciano Gallino

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Alessandro Volpi: lo stadio del finanzcapitalismo tredici anni dopo Luciano Gallino

 

di Antonio Semproni*

Se si potessero immaginare dei sequel per i libri di saggistica, allora “I padroni del mondo” di Alessandro Volpi (Laterza, 2024) si porrebbe come degno sviluppo delle tesi sostenute da Luciano Gallino in “Finanzcapitalismo” (Einaudi, 2021, la cui prima edizione risale al 2011).

In quest’ultima opera Gallino, che scriveva con la mente rivolta alla crisi dei mutui subprime del 2007, mostrava come il valore nominale degli strumenti finanziari oltrepassasse ingiustificatamente e di gran lunga il valore del PIL reale: a tal proposito, lo studioso ha coniato il termine finanzcapitalismo per sottolineare la creazione di denaro da denaro, che rimpiazza quella di denaro da merce, tipica del capitalismo classico. Egli rifletteva inoltre sulla smaterializzazione del denaro (all’epoca in cui scrive – secondo le fonti da lui citate – il denaro stampato costituiva circa il 3% della massa monetaria circolante) e dunque sulla facoltà delle banche commerciali di creare moneta elettronica con un clic, cioè iscrivendo contabilmente una somma su un conto (e dunque rimettendola nella disponibilità del suo intestatario): l’ipertrofia della massa monetaria, espressa dal valore degli strumenti finanziari, era stata favorita proprio da questa circostanza, unitamente all'utilizzo del denaro preso a credito per fini diversi da quelli produttivi.

Il finanzcapitalismo si alimenta proprio dell’indiscriminata proliferazione di strumenti che non perseguono tali finalità.

Quelli più classici sono i titoli di debito: si tratta di debiti cartolarizzati, cioè ceduti dalle banche a società dette SIV – acronimo di Special Investment Vehicle –, che si occupano di trasformarli in titoli, per poi cederli a investitori, istituzionali e non. Nell'epoca che propiziò la crisi del 2007 proprio i mutui subprime, assieme ad altri più sicuri, erano stati ceduti dalle banche a simili società, spesso di emanazione delle stesse cedenti. Il rimborso rateale dei mutui forniva il flusso di cassa necessario affinché le SIV potessero emettere le c.d. CDO (Collateral Debt Obligations), ovverosia obbligazioni aventi per collaterale (cioè per garanzia) un debito; allora i mutui ipotecari erano tra i principali collaterali delle CDO: queste ultime erano divise in tranche a seconda della solidità dei mutui ipotecari sottostanti e dunque, in sostanza, del grado di solvibilità dei mutuatari. I titoli di debito non sono di per sé speculativi: è evidente che la concessione di mutui per l’acquisto di prime case può fare da volano allo sviluppo dell’industria edile, ma la vendita di obbligazioni garantite da mutui ipotecari di dubbia, incerta o improbabile solvibilità costituisce un azzardo, che ha rivelato tutta la sua fragilità quando i mutuatari si sono rivelati insolventi e la bolla dei prezzi delle case si è sgonfiata, con la conseguenza che gli immobili messi a garanzia si sono deprezzati e non sono bastati a soddisfare i creditori.

Sono invece puramente speculativi i derivati, che consistono in scommesse sull’andamento dei prezzi delle materie prime o dei prodotti agricoli (i c.d. sottostanti), ma anche dei tassi d’interesse di altri strumenti finanziari: quanto più gli investitori scommettono sull’inflazione, tanto più si alzano i prezzi del sottostante: un effetto domino si propaga dal mondo della finanza a quello dell'economia reale. Tra gli strumenti speculativi rientrano pure quelli di assicurazione dal rischio che un debitore non onori il pagamento dovuto: sono i c.d. Credit Default Swap, con cui un ente assicura l’ente creditore dal rischio di insolvenza dell’ente debitore contro il pagamento periodico di una somma; un incremento nella domanda di questi titoli comporterà il rialzo dei tassi delle obbligazioni emesse dall’ente (spesso, uno Stato) creditore.

Gallino mostra come ad avvantaggiarsi dell'emissione e del commercio di questi titoli siano non solo le banche e le società di loro emanazione, ma anche investitori istituzionali, come fondi comuni di investimento e fondi pensione.

Le banche traggono profitto dalla cartolarizzazione perché questa tecnica consente loro di espungere i  crediti in essere dal bilancio e iscrivervi così crediti di nuova creazione: in tal modo vengono di fatto aggirate le normative prudenziali che impongono loro di tenere un capitale di sorveglianza, calcolato in una frazione (variabile in base alle regolamentazioni applicabili) dei crediti a bilancio. L'interesse delle banche nelle operazioni di cartolarizzazione è evidente se si tiene a mente che le SIV sono società di emanazione bancaria o comunque partecipate dalle banche stesse.

I fondi di investimento traggono invece linfa dall'ingente mole di credito che, anche grazie alle cartolarizzazioni, le banche riescono a concedere loro: queste masse monetarie sono impiegate tanto nella speculazione (credit default swap e derivati) quanto nell'acquisto di partecipazioni strategiche in società quotate; si tenga a mente che i fondi di investimento, già all'epoca della crisi del 2007, erano azionisti di molte banche di peso e che, nei tredici anni circa intercorsi tra le ricerche di Gallino e quelle di Volpi, hanno irrobustito le proprie partecipazioni societarie, così da poter contrarre debiti senza incappare in conseguenze sgradite.

Volpi concentra i suoi studi sugli attori principali del finanzcapitalismo odierno, cioè sui fondi comuni di investimento: essi sono i padroni del mondo cui è intitolato il suo saggio. Questi soggetti detengono congerie sterminate di titoli e devono primariamente assicurarne il rendimento, onde remunerare tanto gli investitori, che hanno affidato loro i propri risparmi, quanto gli azionisti. Tre sono i fondi principi del mercato azionario e degli strumenti finanziari: Vanguard, BlackRock e State Street, ciascuno dei quali possiede una partecipazione negli altri due.

Vanguard e BlackRock hanno fatto la loro fortuna dapprima come fondi passivi: anziché far gestire i risparmi raccolti da personale specializzato, si limitavano a replicare fedelmente l’andamento di indici di borsa, azionari o obbligazionari, così da ottenere il loro stesso risultato giornaliero: tale strategia è praticabile semplicemente acquistando quote di titoli dell’indice di riferimento in misura pari l'una all'altra e in proporzione alle risorse raccolte presso gli investitori al dettaglio. State Street, viceversa, si è affermata nel settore della previdenza e assistenza sociale complementare. Dopo la crisi dei mutui subprime, i tre fondi hanno maturato una potenza di fuoco sostituendosi agli attori finanziari che ne erano stati travolti: in molti casi, in particolare se si trattava di banche, hanno persino provveduto ad acquisirli. Si sono invece tenuti alla larga dai mutui ipotecari o comunque da titoli strutturati su di essi e vantano partecipazioni, oltre che nelle grandi banche commerciali, anche nelle agenzie di rating. Questa duplice partecipazione conferisce loro un enorme potere ricattatorio sugli Stati: le agenzie di rating, controllate dai fondi monstre, sembrano astenersi dal declassare il rating dei titoli pubblici di Stati dalla supposta dubbia solvibilità soltanto perché molte banche, partecipate dagli stessi fondi, detengono tali titoli; al contempo, i fondi hanno acquistato grandi quantità di credit default swap sul fallimento di questi Stati e sono pronti a rivenderli, lucrando una cospicua plusvalenza, in caso di declassamento dei titoli del loro debito.

I fondi trovano terreno fertile alla propria espansione nelle politiche austeritarie di smantellamento dello Stato sociale e, in particolare, nelle privatizzazioni, che riguardano tanto le società strategiche, come quelle che gestiscono le reti di comunicazione (TIM) o di trasporto e stoccaggio delle materie prime (Snam) oppure le infrastrutture autostradali (Autostrade), quanto le società cui sono stati affidati i servizi pubblici locali, come quelle che si occupano della distribuzione dell’energia o del gas oppure della gestione dei servizi idrici.

L’ingresso di questi fondi nelle società pubbliche risponde a una logica puramente finanziaria, cioè di massimizzazione del rendimento, come comprovato dalla circostanza che essi sono “del tutto distanti dagli ambiti di azione delle società medesime”, dunque non hanno alcun know-how o segmento di mercato da apportare a giovamento del socio pubblico; tra l’altro, questi fondi investono poco o nulla nell’apparato infrastrutturale delle loro partecipate, essendo soliti distribuire tutti i guadagni agli azionisti e, anzi, persino ricorrere all’indebitamento onde ripartire dividendi. Ci si è decisamente discostati da quelle società miste realizzate negli anni ottanta e novanta con l’ingresso di soci industriali desiderosi di allargare il bacino di mercato.

Proprio alla logica di profitto dei fondi deve imputarsi, ora che è terminato il regime del mercato tutelato dell’energia, il rincaro delle tariffe pagate dagli italiani per luce e gas; inoltre, la tanto sbandierata competizione tra gli operatori di questo mercato è fittizia, come reso evidente dal fatto che essi sono partecipati dai medesimi fondi.

I fondi hanno potuto spadroneggiare anche grazie all’abbattimento del carico fiscale, che fa da pendant alle privatizzazioni nel quadro di una liberalizzazione delle attività economiche, e alle politiche monetarie di rialzo dei tassi.

Quanto al primo profilo, si riscontra una tendenza, comune agli Stati occidentali, a ridurre sempre più le aliquote sui redditi da capitale (derivanti dalla titolarità di partecipazioni societarie e, più genericamente, di strumenti finanziari), in una sorta di corsa al ribasso tale da fare concorrenza ai paradisi fiscali. Quel che Volpi si chiede è perché questo genere di redditi, che rappresenta un’entrata tanto sicura quanto diffusa in seguito alla finanziarizzazione dell’economia e alle risorse liquide messe a disposizione dei mercati da parte delle banche centrali (v. il Quantitative Easing), venga tassato ben più lievemente dei redditi da lavoro dipendente.

Circa le strette monetarie, queste ultime intervengono spesso e volentieri per raffreddare i prezzi dopo ondate di speculazione orchestrate dagli stessi fondi, in particolare a mezzo di operazioni sui derivati. Il rialzo dei tassi ad opera della Federal Reserve nella primavera del 2023 ha messo a tappeto molte banche americane di medio-piccole dimensioni (tra cui quelle legate alle criptovalute), i cui depositanti hanno ritirato i propri risparmi per investirli in attività finanziarie più allettanti: come da copione, nella compagine societaria di queste banche hanno fatto il loro ingresso i fondi.

Tanto l’abbattimento del carico fiscale sui redditi da capitale quanto il rialzo dei tassi impoveriscono gli Stati nazionali: il primo li priva di risorse, mentre il secondo rende i loro indebitamenti più onerosi; il combinato disposto di queste due misure di politica economica allarga ulteriormente le maglie alla penetrazione dei grandi fondi.

Volpi lamenta che il capitalismo finanziario si pone agli antipodi del mercato perché, mentre il funzionamento del secondo consente di attribuire un “valore di scambio” a beni e servizi e dunque di “garantire la remunerazione individuale e collettiva”, servendo l’interesse pubblico, nel primo la determinazione del valore dipende da “aspettative tradotte in realtà da meccanismi di gigantesca speculazione”: si tratta delle aspettative di aumento del prezzo di strumenti finanziari (e anche di beni, nella misura in cui siano i sottostanti di derivati), inverate dall'acquisto da parte dei fondi e dal conseguente apprezzamento, nonché dalle operazioni economiche in cui viene coinvolta la società cui questi strumenti si riferiscono. Si pensi a Tesla: la società di Musk ha superato i mille miliardi di dollari di capitalizzazione azionaria grazie all'acquisto dei suoi titoli da parte di Vanguard, che ha fatto da apripista ad altri investitori; il valore delle azioni Tesla, inoltre, si è impennato a seguito dell’annuncio di Hertz, partecipata non a caso da un grande fondo interessato ad acquistarle, di voler noleggiare auto elettriche. L'aumento dei prezzi di questi titoli dirotta i risparmi individuali verso gli stessi o, ancor meglio, verso i fondi che vi hanno investito.

Il mantenimento di questo congegno di crescita dei prezzi è fondato sul debito, come nell'epoca che precedette la crisi del 2008; tuttavia, il debito che fece detonare quest'ultima crisi era quello delle famiglie cui le banche, contando sulla crescita dei prezzi delle case, avevano concesso prestiti insostenibili a fronte del solo reddito familiare. Il debito su cui si fondano moltissime delle operazioni dei fondi è invece nella titolarità delle banche possedute dagli stessi fondi: c’è da dubitare seriamente della sua coercibilità.

È allora impossibile disinnescare l'arma della liquidità di cui dispongono questi fondi operando con politiche circoscritte al livello nazionale; le strategie per rintuzzarla devono essere concertate su un piano internazionale e perciò il nodo gordiano sta nell'arroccamento degli Stati Uniti: sono infatti le oligarchie statunitensi a trarre la fetta più grossa dei profitti generati dai fondi e dalle società da questi partecipate (in particolare, le big company dell'high tech e dello spazio digitale) e dunque ad avere interesse a smussare, se non a sabotare, qualsiasi intervento redistributivo. Così si spiega il ritiro degli USA dall’accordo relativo alla Global Minimum Tax concluso in sede OCSE: il dietrofront è stato uno dei primi atti della presidenza Trump.

Chissà però se le medesime oligarchie e le loro creazioni finanziarie non possano avvizzirsi entro uno scenario geopolitico multipolare come quello che si va profilando e se, in virtù di ridefiniti equilibri economici e, in particolare, di una svalutazione del dollaro conseguente a una sua dismissione negli scambi (la c.d. dedollarizzazione), non possa andare in frantumi quella civiltà-mondo configurata proprio da Gallino in “Finanzcapitalismo”, caratterizzata dalla mancanza di confini e dall’impossibilità di “soddisfare il suo fabbisogno commerciando con altre civiltà, oppure espropriandole”: una civiltà in cui la finanziarizzazione si pone come nuova frontiera dell’estrazione di valore. In ogni caso – avverte Volpi – si danno già tentativi di straripamento oltre l’argine cinese da parte dei potentati finanzcapitalisti a stelle e strisce, come dimostra la visita nell'ex impero celeste di Elon Musk ed esponenti di Jp Morgan e CIA a maggio 2023.


*Antonio Semproni: laureato in giurisprudenza, suoi scritti sono apparsi su «La Fionda» e «Sinistrainrete». Fa parte della redazione della rivista letteraria «L’Equivoco». Il suo ultimo libro è ‘Supermercato h24’ (Digressioni, 2024).

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