Appunti illegali sulla guerra in Ucraina - o il momento del sabotaggio

Appunti illegali sulla guerra in Ucraina - o il momento del sabotaggio

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L’INVASIONE

 

Lo scorso dicembre, passando dalla Puglia, ho fatto una visita a Waddah Al Fayed, il direttore della fotografia del film “L’Urlo” di cui sono regista. Siriano, in Italia da 5 anni, prezioso sodale sul confine tra Tunisia e Libia, dove il film è stato girato, Waddah ha studiato cinema a San Pietroburgo ed era rientrato giusto in tempo in Siria per viversi la guerra dalle sue prime battute.

Anti Green Pass, alle prese con una società italiana sempre più autoritaria e discriminante, mi pose in quei giorni dello scorso dicembre una domanda solenne: “Come credi che andranno le cose?”. 

Gli risposi: “Mah, la propaganda in questi ultimi 2 anni è stata asfissiante, ha usato un linguaggio militaresco del tutto fuori luogo, ma al tempo stesso congeniale ai tempi che ci stiamo vivendo. Sì, credo che stiamo andando verso una guerra di grande portata, una di quelle che possono cambiare la faccia del mondo, che possono riscrivere gli equilibri tra Stati e macro-aree geografiche. E come sai, tutto inizierà dall’Ucraina”.

In questi giorni ho ricevuto una foto di Waddah dall’Amazzonia, con una baracca di legno alle sue spalle, folta vegetazione e un sorriso smagliante.

E’ partito a metà febbraio. Appena in tempo.

Nei due mesi successivi gli analisti ci spiegavano che l’invasione dell’Ucraina non ci sarebbe stata, proprio perché tutta la propaganda occidentale al contrario lo sosteneva.

Io mi sono tenuto la sensazione per me. Tutt’al più l’ho condivisa con qualche altro amico stretto.

Quando la Russia ha invaso l’Ucraina ero pronto ed ho pensato: “ora guardiamo avanti!”.

Non giustifico questa invasione. Sono contrario alla guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali, per una questione logica più che morale.

Pertanto condanno questa guerra, come ho condannato i bombardamenti su Belgrado, l’invasione di Afghanistan e Iraq e l’aggressione a Libia e Siria. Tutte campagne militari combattute e pianificate dagli Stati Uniti a migliaia di chilometri dai propri confini.

Tuttavia distinguo chi ha provocato da chi si sta difendendo, seppure, ma è ancora da provare, con un eccesso nella legittima difesa.

Se una boccetta farlocca nelle mani di Colin Powell giustificò un milione di morti in Iraq, la Russia ha un buon margine a disposizione prima di raggiungere un simile orrore.

Il Segretario della Difesa statunitense Lloyd James Austin in un “twitt” dello scorso 2 marzo affermava: “Oggi ho parlato con la mia controparte ucraina, @oleksiireznikov, per offrire il nostro continuo sostegno agli sforzi coraggiosi dell'Ucraina per respingere l'invasione non provocata e illegale della Russia”.

Non provocata e illegale.

Chiaro no? 

La NATO ha bisogno per prima cosa di cercare di sottrarre alla Russia ogni motivo ragionevole che la possa mettere nel campo della ragione e non del torto. Quindi è una coda di paglia? Lo scopriremo. Sui laboratori di armi chimiche finanziati dagli Stati Uniti in territorio ucraino ne sapremo presto di più.

Tuttavia Manlio Dinucci in un articolo della scorsa settimana dal titolo “Ucraina, era tutto scritto nel piano della Rand Corp” cita un apporto del 2019 della corporazione americana: “fornire aiuti letali all’Ucraina sfrutterebbe il maggiore punto di vulnerabilità esterna della Russia, ma qualsiasi aumento delle armi e della consulenza militare fornite dagli Usa all’Ucraina dovrebbe essere attentamente calibrato per aumentare i costi per la Russia senza provocare un conflitto molto più ampio in cui la Russia, a causa della vicinanza, avrebbe vantaggi significativi”.

In questi appunti illegali non è possibile omettere che questo articolo ha segnato la fine della collaborazione tra Manlio Dinucci e il giornale “il Manifesto”, come lui stesso ha riferito. Un’era sta cambiando. Dispiace quando una rubrica di un importante giornalista viene chiusa, ma forse che quest’era finalmente cambi non è poi così un male.

La lettera pubblica del giornalista: “L’8 marzo, dopo averlo per breve tempo pubblicato online, il Manifesto ha fatto sparire nottetempo questo articolo anche dall’edizione cartacea, poiché mi ero rifiutato di uniformarmi alla direttiva del Ministero della Verità e avevo chiesto di aprire un dibattito sulla crisi ucraina. Termina così la mia lunga collaborazione con questo giornale, su cui per oltre dieci anni ho pubblicato la rubrica L’Arte della guerra”

Forse i Russi hanno letto il rapporto della Rand Corp, che non sarà certo sfuggito ai propri servizi. E se questo rapporto ha ragione, l’unico concreto vantaggio della Russia era la vicinanza all’Ucraina, che però era anche il maggior motivo di preoccupazione per i Russi.

C’era un solo modo quindi per condurre il gioco: anticipare.

Anche se questo si chiama in termini tecnici “guerra preventiva”.

Io che non prendo soldi dai russi, al contrario degli analisti del nostro “mainstream” che sono direttamente o indirettamente al soldo della NATO, mi permetto un ragionamento.

Guerra preventiva era tutto ciò che di sbagliato ci fosse nella politica estera di George W. Bush, che sulla base di questa dottrina attaccò Afghanistan e Iraq e se avesse potuto l’avrebbe estesa a Siria e Iran.

Guerra preventiva è tutto ciò che la logica anti-imperialista ha condannato in questi ultimi 20 anni di storia. Giustamente.

Tantomeno possiamo esimerci dal farlo ora.

Però.

Calcolate la distanza tra Afghanistan e USA, Iraq e USA e poi tra Ucraina e Russia. Migliaia di chilometri a fronte di una distanza a chilometro zero.

Le paranoie giocano brutti scherzi, ma a migliaia di chilometri di distanza sono pretesti. Con il nemico al confine, la guerra preventiva diventa fatalmente un’opzione militare come un’altra. Nella logica militare questo è.

Soprattutto alla luce di nuovi rapporti che sostengono l’esistenza di un piano dell’esercito ucraino per un’invasione del Donbass che si sarebbe verificata comunque nel mese di marzo.

Perché Putin avrebbe dovuto attendere di inseguire in un conflitto ormai certo e inevitabile? Cecenia e Siria avranno pur insegnato qualcosa. Se non altro, hanno insegnato a Putin una cosa, vera o falsa: le guerre si possono vincere.

Perché non avrebbe dovuto invadere l’Ucraina? 

 

L’IMPERO DELLA MENZOGNA - o la società opulenta sotto effetto

 

Nella prefazione politica del 1966 al suo “Eros e civiltà”, Herbert Marcuse scriveva: “La società opulenta ha dimostrato ormai di essere una società in guerra; se i suoi componenti non se ne sono accorti, le sue vittime sì”.

Si potrebbe prendere questa frase a modello e declinarla infinite altre volte, funziona sempre. Noi, cittadini della società opulenta (che poi così opulenta non è più), siamo sempre gli ultimi ad accorgerci delle cose.

E’ un’arma di guerra. Perché per fare le guerre hai bisogno del consenso. Per ottenere il consenso a fare una cosa ingiusta hai bisogno di una bugia.

Lo certificano i rapporti pubblicati da Wikileaks il 25 luglio 2010 chiamati “Afghan war logs”, documento segreto della CIA. Vi erano già le linee guida con cui contrastare ogni possibile obiezione in Europa circa la sanguinaria occupazione NATO dell’Afghanistan. A dirla tutta, allora, non ci fu nemmeno bisogno di implementare questi suggerimenti, l’opinione pubblica europea non si è mai veramente preoccupata delle sorti degli Afghani in questi ultimi 20 anni.
Ad ogni modo, così si leggeva in questo documento: 

 <<Lo scarso rilievo della missione in Afghanistan ha permesso ai leader di Francia e Germania di ignorare l’opposizione della gente e di continuare ad aumentare costantemente il numero delle loro truppe nella missione Isaf>>.

Nel discorso tenuto da Vladimir Putin alla viglia dell’invasione, il presidente russo ha definito l’Occidente “l’impero della Menzogna”.

Chi più di me lo può confermare,  dopo quasi 4 anni in contatto diretto con Libici e migranti-schiavi in Libia che raccontano tutto il contrario di quel che si racconta in Europa. Sin dai primi mesi delle mie pubblicazioni sono stato avvicinato da schiere di intellettuali e attivisti di caratura nazionale ed oltre che mi spiegavano che certe cose è meglio non dirle, affiancando il loro ragionamento con minacce o lusinghe a seconda del momento.

Guarda caso, l’unica TV pubblica che ha realizzato un servizio sul mio lavoro in questi anni è stata Russia Today. Nessuno in Europa ha voluto sentire o pubblicare il lavoro di un proprio concittadino che metteva a disposizione informazioni che nemmeno gli esperti posseggono. Non parliamo della congiura del silenzio contro il film “L’Urlo”.

Che poi, se dovessi spiegare. Il senso più profondo dell’urlo, è proprio quello di sentirmi di fronte alla visione di un intero continente ormai pronto culturalmente alla guerra. Perché se, non solo lasci che la schiavitù e la tortura siano praticate su larga scala in Tripolitania, ma se riesci addirittura a raccontarle come la fuga verso il sogno Europa e non come il raggiro di trafficanti e milizie, come invece è stato ampiamente raccontato nel film, allora ciò che vedi è il crollo imminente della società a cui appartieni, perché l’intera coscienza di un continente è stata dirottata su una narrazione fiabesca. E non certo per fini di intrattenimento.

Per questo “L’Urlo” non deve essere visto dai più. Ne va della Narrazione. Se crolla la Narrazione, crolla il consenso. Se crolla il consenso non si fanno più guerre. Se non si fanno più guerre, la supremazia statunitense in Europa finisce.

E per tenere la mente dei cittadini occidentali in altre faccende affaccendata, si usa una droga. Una droga, sì. Non c’è nemmeno bisogno di somministrarla. Già esiste nei corpi di ogni essere umano, va solo stimolata. Si chiama endorfina. Si stimola attraverso gli abbracci e il contatto fisico, ma anche attraverso la somministrazione di storie a lieto fine, profumate e colorate, in cui c’è sempre un giovane bello o una giovane bella che fa un’azione buona e abbraccia un disperato salvandolo da morte certa, che sia un migrante in mare o un ucraino che ha appena passato la frontiera. Quando questa droga raggiunge il cervello, il cervello si spegne, è appagato. E non si chiede più chi ha messo quella persona su un gommone sgonfio rischiando morte certa o chi ha provocato la guerra in Ucraina dopo anni di provocazioni, crimini e propaganda.

La coscienza europea è così regredita allo stato infantile. Basta un sorriso colorato e tutti i problemi scompaiono. Per noi. Per noi (quasi ex-) cittadini della società opulenta, non certo per tutti gli altri cittadini del pianeta.

Allora forse la potremmo anche chiamare “l’età della menzogna”. 

Dobbiamo uscire da questo infantilismo. Dobbiamo uscire da questa condizione di subalternità emotiva. Dobbiamo uscire dalla dipendenza da endorfina e cominciare a guardare il mondo per quello che è e raccontarlo di conseguenza, chiamando le cose con il loro nome. 

Decolonizzare le coscienze, di fatto, come premessa per la decolonizzazione della società in vista della fine della NATO come esperienza storica.

 

 

SBANDAMENTO A EST - o gli ebrei che sostengono i nazisti

 

Venti anni fa più o meno pubblicai un libro sulle mie esperienze nella ex-Jugoslavia. Tra le altre, nel libro stava un’intervista ad un giovane studente anarchico serbo che era stato sulle barricate per chiedere a Miloševi? di lasciare il potere. Nei mesi precedenti, un altro movimento studentesco, uscito dal nulla, aveva monopolizzato la protesta e aveva portato in piazza centinaia di migliaia di persone per diversi giorni, lasciando tutti esterrefatti. Gli chiesi un parere su questo movimento.

Tra le altre cose disse: “La loro è una visione capitalista, non hanno niente a che vedere con la sinistra, sono neoliberali”.

Questo ragazzo, in pochi mesi, aveva capito ciò che la maggior parte degli elettori di sinistra in Europa non ha ancora capito 20 anni più tardi.

Il movimento finanziato dal “sistema economico mondiale” di cui parla questo ragazzo si chiamava Otpor.

Questa esperienza fece da battistrada a una miriade di altri tentativi di depistare le rivendicazioni in mezzo mondo per incanalarle sui binari neoliberisti, da lì e negli anni successivi. Lo sappiamo, sono state le cosiddette “rivoluzioni colorate”.

Seguite il pugno e non potete sbagliare. Pugno che è servito (e serve ancora) come specchietto per le allodole delle anime belle e ingenue di chi vota a sinistra con il cervello sfondato di endorfina.

Tra i soggetti del sistema economico mondiale che finanziano queste operazioni di ingegneria politica, la più importante è la Open Society Foundation del magnate e squalo della finanza George Soros.

In Europa da diversi anni ormai la quasi totalità della “pseudo-inteligencija” di sinistra è finanziata da questa fondazione, direttamente o indirettamente. Un’intera generazione di registi, scrittori, giornalisti si è costruita una carriera grazie ai suoi soldi e alle sue porte aperte (nel senso che si aprivano al passaggio dei suoi assistiti).

Quando Trump fu scalzato da Biden alla fine del 2020 questo era il rischio più grande: l'egemonia del pensiero unico. Trump infatti era uno strampalato lupo solitario nei confronti della macchina da guerra dei Democratici. 

E così Biden salutava tutti, con la sua società “estesa ed inclusiva”, aggettivi che suonano sinistri in questo momento e che si potrebbero tradurre con “egemone e conquistatrice”. Biden intendeva includere o conquistare l’Ucraina? Sfumature da perditempo. 

Il più "esteso ed inclusivo" psico-regime della storia dell’umanità aveva ufficialmente inizio in quei giorni.

Per altro quello stesso regime che proprio in quelle settimane inaugurò la pratica della censura mirata, disattivando i profili del presidente uscente Donald Trump. Qualcuno disse in quei giorni: “se lo fanno a un presidente USA, lo possono fare a chiunque”.

Ed è ciò che infatti i giannizzeri strombazzanti dell’impero, le piattaforme “social”, hanno fatto. Le trombe vanno indirizzate tutte insieme nella stessa direzione. Altrimenti perdono il loro effetto.

Nell’Europa dell’est il processo di conversione al capitalismo è stato più aggressivo e storicamente rapido, di conseguenza più violento.

Quella mutazione antropologica di cui parla Pasolini all’inizio degli anni ’70, prodotta da quella società dei consumi che ci rende disumani in un’omologazione senza scampo, nell’Europa dell’est si è prodotta in pochi decenni.

Erano gli anni ’80 e Radio Free Europe e Solidarnosc piantavano i semi di quella gramigna che poi è fiorita in Ucraina, sempre con i soldi di George Soros.

I sentimenti anti-russi sono stati coltivati in laboratorio e poi dispersi a reti unificate per 30 anni nei Paesi dell’Europa dell’est. 

In queste settimane ho scambiato commenti sui social con cittadini di Polonia, Lettonia e Ucraina, persone che a vario titolo avevo conosciuto a partire dal 2008 ed erano rimasti tra i miei contatti FB. 

Dopo poche battute il dialogo è finito.

Sono stato investito da un ricatto morale inaccettabile ben riassunto da un discorso tenuto ai primi di marzo da Dalia Grybauskaitè, presidente della Lituania dal 2009 al 2019:

"Le sanzioni non fermeranno Putin, qualunque esse siano. Solo una guerra può fermare una guerra già iniziata. Non c'è bisogno di fingere e cercare di alleggerire la propria coscienza in Ucraina fornendo solo armi e anche un po' in ritardo. Gli ucraini stanno combattendo per noi, i loro figli ci stanno proteggendo dalla follia di Putin. Ripetere il mantra che la NATO non può aiutare l'Ucraina suona già patetico e mostra la codardia dell'Occidente. L'Occidente ancora non capisce che in Ucraina è in corso una guerra europea. O si partecipa alla lotta contro l'aggressore o si diventa complici di crimini di guerra. Oggi l'Ucraina sta combattendo per la sopravvivenza della sua nazione e del mondo europeo. Gloria all'Ucraina. Gloria ai suoi eroi”.

Concetto per altro simile a quello sostenuto dal premier ucraino Volodymyr Zelenskyy in collegamento con la manifestazione di piazza Santa Croce a Firenze, vetta orwelliana mai raggiunta prima dove “la guerra è pace”, lo scorso sabato 12 marzo: “Questa non è una guerra contro l’ucraina ma contro l’Europa, contro i valori che ci uniscono. Sono certo che cercherete di fermare la guerra come stanno facendo gli ucraini”, dopo aver invocato la “no-fly zone” sopra l’Ucraina, invocando la terza guerra mondiale, quando i tre punti richiesti dal presidente Putin per la fine delle ostilità sono niente meno che ragionevoli, e ai quali lo stesso Zelenskyy a parole non si è detto contrario.

Ma ciò che è storicamente sorprendente è la simpatia della comunità ebrea dell’Europa dell’est per i nazisti. Conosciamo già il rapporto tra governo ucraino e formazioni naziste, ma una recente conversazione avuta in rete in questi giorni con un cittadino polacco ebreo mi ha aperto la mente sulla gravità della situazione.

Così a me si rivolgeva: “Esci dal tuo piccolo mondo prima di chiamare Nazisti gli altri. Parte della mia famiglia è morta durante l’olocausto. Mangiati una schifosa pizza siciliana ed esci da internet, semi-cavernicolo”.

Al netto del trasporto tipico di certi mezzi di comunicazione, la mia risposta è stata: “Sei solo invidioso. E avresti dovuto imparare qualcosa da ciò che è capitato alla tua famiglia. Tra l'altro Salvini dice le stesse cose che dici tu sull'Ucraina. Alla fine ora possiamo riconoscere chi sta da quale parte”. Non vi pare?

In questo genere di conversazioni che comunque ho cercato mi sono permesso di controbattere che non avevo nessuna intenzione di appoggiare l’invio di armi alle formazioni naziste ucraine rischiando di far saltare per aria un intero continente e chissà magari persino l’intero pianeta. E che se avessero avuto qualche problema con Putin, questi cittadini dell’est se lo sarebbero dovuti andare a risolvere da soli. 

Invece mi vogliono spiegare che la NATO sia un’Alleanza militare anti-imperialista. Il che mi sembra francamente un po’ troppo.

A questo punto le conversazioni solitamente si interrompono per via del blocco che ricevo.

E’ chiaro che le loro aspettative deluse di ora nascono da 30 anni di propaganda che ora reclama ciò che gli era stato promesso: la vendetta sulla Russia. Ma questa è una promessa che non gli ho fatto io, come nessun altro cittadino europeo sano di mente. La russofobia non mi appartiene, geneticamente. Qualcuno ha rimestato nel torbido e ha seminato zizzania nel più classico degli schemi del “divide et impera”. Di conseguenza non sono anti-russo. Sono anti-NATO, perché è da lì che la zizzania proviene.

Non solo, al di là delle mie opinioni anti-NATO, è sconcertante l’attitudine ad accusare me di non essere abbastanza “occidentale”. In sostanza europei orientali e baltici che accusano un europeo occidentale mediterraneo di non essere abbastanza occidentale. Che suona già ridicolo così.

Del resto, ai telespettatori italiani, è bastato sentire la vice-premier ucraina Iryna Vereshchuk lo scorso 14 marzo nella trasmissione “Otto e mezzo” per fare un’esperienza antropologicamente interessante. Si sono ritrovati di fonte una donna in divisa militare e taglio di capelli alla sovietica, con un piglio militaresco da KGB che insisteva nel voler convincere noi cittadini italiani a dichiarare guerra alla Russia. Da cortocircuito.

Ma incattiviti non sono solo gli Ucraini e i cittadini dell’est. Anche la nostra “pseudo-inteligencija” in Europa occidentale è una minaccia alla pace, tutta volta a suscitare l’anti-putinismo in Russia anziché far deporre le armi all’Alleanza atlantica e ai suoi guerrafondai.

Ad esempio, mi sono imbattuto in questo “Manifesto dei Socialisti contro la guerra” russi, sbandierato dalla rivista Jacobin, intellettuali occidentali già in trincea con l’elmetto in testa. Gli argomenti sostenuti nel manifesto sono ridicoli: 1) non c’era nessuna minaccia alla Russia (va beh, se ne siete certi voi); 2) la guerra produrrà miseria e disoccupazione (immagino la stessa che in Russia si produsse negli anni ’90 all’indomani dell’apertura al capitalismo); 3) questa guerra renderà la Russia una prigione senza libertà di stampa (che poi non è molto diverso da ciò che sta succedendo da quest’altra parte del confine).

 

 

DE-NAZIFICAZIONE: UNA BATTAGLIA IMPOSSIBILE DA VINCERE MILITARMENTE - o la teoria del mondo multipolare

 

Uno degli aspetti più controversi e dal mio punto di vista deboli del discorso di Putin alla viglia del conflitto è racchiuso nel passaggio in cui viene evocata la “de-nazificazione” dell’Ucraina. Pensare che un’operazione militare, con lo strascico di violenze, possa cambiare nello spirito un paese incattivito è poco meno che un azzardo. Non basterà rimuovere i vertici politici e militari (attraverso eliminazione fisica, arresto o espulsione dall’Ucraina). Infatti qualche ucraino disponibile dovrà farsi pur trovare per portare avanti quel che resterà del paese. Per altro, per portare a termine questa azione militare, migliaia di persone, tra cui moltissimi civili, perderanno la vita. E questo è sempre un crimine.

In altre parole, se la “nazificazione” dell’Ucraina è stata un processo storico sostenuto se non pianificato dagli esperti di comunicazione occidentale che hanno sparso per 30 anni, come dicevamo, il seme della zizzania e della russofobia, solo una forza d’urto pari e contraria sul piano della decontaminazione culturale può farne saltare le premesse.

La violenza chiama violenza e laddove la russofobia poteva essere contrastata con mezzi pacifici, quello era il terreno di conflitto dove la battaglia andava combattuta e sul quale la Russia, suo malgrado, finora ha perso.

Mi viene in soccorso in questo ragionamento un recente scritto del filosofo russo Alexandr Dugin pubblicato sui suoi canali: 

“La Russia sta ora combattendo in Ucraina e nel Donbass con il nazismo ucraino. Ma è abbastanza ovvio che questo nazismo non si è sviluppato lì da solo. È stato piantato, armato, nutrito e messo su di noi dai liberali. Allo stesso modo, sono stati i liberali a creare l'islamismo radicale per usarlo per i loro scopi geopolitici. Sì, né il nazismo ucraino né il terrorismo islamico coincidono con il liberalismo. Ma senza il pieno sostegno dei liberali occidentali, nessuno dei due sarebbe possibile. E non intendo alcuni singoli liberali, una sorta di rinnegati, ma l'intero Occidente liberale nel suo complesso. Il liberalismo ha la piena responsabilità dei crimini dei suoi figli adottivi, i nazisti ucraini. (…) Sarà molto difficile per noi portare la de-nazificazione dell'Ucraina alla sua logica conclusione. È necessario sradicare la causa, e poi l'effetto scomparirà da solo. Se, invece, si combatte solo con le conseguenze, allora al mostro cresceranno sempre più nuove teste. Saremo esausti di tagliarle una per una. Dobbiamo colpire il quartier generale”.

Come dire che vincere una guerra militare a Putin comunque non basterà, se non sarà vinta la battaglia culturale contro il (neo-)liberismo, come definito da Alexandr Dugin.

Ma per meglio definire il nemico culturale della Russia, in un altro intervento lo stesso filosofo aveva scritto: 

“Questa non è una guerra con l’Ucraina. È un confronto con il globalismo come fenomeno planetario integrale. È un confronto a tutti i livelli – geopolitico e ideologico. La Russia rifiuta tutto nel globalismo – unipolarismo, atlantismo, da un lato, e liberalismo, anti-tradizione, tecnocrazia, Grande Reset in una parola, dall’altro. È chiaro che tutti i leader europei fanno parte dell’élite liberale atlantista. E noi siamo in guerra esattamente con questo. Da qui la loro legittima reazione”. 

E quale sarà il fine e l’obiettivo di questa guerra, culturale ancor prima che militare?

“La Russia sta creando un campo di resistenza globale. La sua vittoria sarebbe una vittoria per tutte le forze alternative, sia di destra che di sinistra, e per tutti i popoli. Stiamo, come sempre, iniziando i processi più difficili e pericolosi.

Ma quando vinciamo, tutti ne approfittano. È così che deve essere. Stiamo creando i presupposti per una vera multipolarità. E quelli che sono pronti ad ucciderci ora saranno i primi ad approfittare della nostra impresa domani”. 

Penso sia importante, da cittadino europeo, conoscere a fondo il pensiero russo in questo momento. Anche perché il filosofo russo, in un altro passaggio, dimostra di conoscere molto bene l’Occidente.

“Cosa significa per la Russia rompere con l’Occidente? È la salvezza. L’Occidente moderno, dove trionfano i Rothschild, Soros, Schwab, Bill Gates e Zuckerberg, è la cosa più disgustosa della storia del mondo. Non è più l’Occidente della cultura mediterranea greco-romana, né il Medioevo cristiano, e nemmeno il ventesimo secolo violento e contraddittorio. È un cimitero di rifiuti tossici della civiltà, è anti-civilizzazione. E quanto prima e più completamente la Russia se ne stacca, tanto prima ritorna alle sue radici. A cosa? Cristiano, greco-romano, mediterraneo… – Europeo… Cioè, alle radici comuni al vero Occidente. Queste radici – le loro! – l’Occidente moderno le ha tagliate fuori. E sono rimaste in Russia”.

Ora non ne farei una questione necessariamente di radici, sono convinto che per paradosso lo sradicamento potrebbe anche essere una libera scelta. Ma è indubbio il collasso culturale dell’Occidente, per altro ampiamente discusso negli ultimi decenni in Europa, causato dalla supremazia del capitale sulla politica.

Dugin però ci porge la mano:

“La rottura con l’Occidente non è una rottura con l’Europa. È una rottura con la morte, la degenerazione e il suicidio. È la chiave del recupero. E l’Europa stessa – i popoli europei – dovrebbero seguire il nostro esempio: rovesciare la giunta globalista antinazionale. E costruire una vera casa europea, un palazzo europeo, una cattedrale europea”.

In altre parole, diamoci da fare qui e ora anche in questo disgraziato Occidente. La battaglia è la stessa. Come ci ha ricordato la cittadina russa che in forma anonima abbiamo intervistato nei giorni scorsi Antonio Di Siena ed io: “Non aspettate che sia Putin a salvare il mondo. Datevi da fare!”. 

 

 

E certamente Antonio Di Siena non è stato a guardare e già si è reso promotore del “Comitato No alla Guerra”

La battaglia dunque, si diceva, è la stessa. Nel senso che se è di un mondo multipolare ciò di cui si sta parlando, e di ripristino della supremazia del politico sull’economico, non possiamo che starci.

E non ho bisogno di ribadire la condanna all’intervento militare russo in Ucraina, per sostenere al tempo stesso la necessità di resistere insieme a Dugin di fronte a tutto ciò che lui addita come nemico. Con le sole armi di cui dispongo: quelle del pensiero critico e non del pensiero unico. Perché, come dice Dugin, “se si combatte solo con le conseguenze, allora al mostro cresceranno sempre più nuove teste. Saremo esausti di tagliarle una per una. Dobbiamo colpire il quartier generale”. E colpire il quartier generale non significa colpirlo in senso militare, ma in senso di egemonia del pensiero. 

Non ci sarà nessuna vittoria militare russa in Ucraina che possa essere mantenuta a lungo termine, non solo quanto a controllo di territori, ma anche di controllo politico. Anzi, da qui in avanti aspettiamoci che Ucraini, Polacchi e Baltici saranno ancora più incattiviti.

Il “quartier generale” viene colpito, in tempo di guerra, soltanto con l’interruzione della catena produttiva. Il processo decisionale in tempo di guerra è comunque esautorato, ammesso che libere elezioni si tengano da qui in avanti. In altre parole, il quartier generale può essere colpito, scusate se disturbo la serenità di qualcuno, soltanto con una Rivoluzione.

La vera guerra che si sta combattendo non è quella militare tra la Russia e la Nato, la vera guerra si combatte all’interno delle società di entrambe le parti e nei processi sociali che si genereranno. Sarà un tiro alla fune per vedere se salterà prima Putin o salteranno prima Scholz e Draghi. 

L’alternativa è la terza guerra mondiale. Se questo è il destino possiamo starcene comodi a casa ad aspettare la fine del mondo e a goderci questi ultimi scampoli di semi normalità.

Ma se così non fosse, e siamo costretti a pensarla così, noi abbiamo un ruolo storico in questo momento, l’unico veramente in grado di fermare la guerra: far cadere il governo Draghi, uscire dalla NATO, uscire dall’UE. Un compito, non un’opinione.

Cominciando da azioni come quella dell'USB degli aeroportuali di Pisa che si sono rifiutati di caricare le armi destinate alla guerra in Ucraina.

Altre vittorie possibili non ci sono. La vittoria militare della Russia non è un’opzione. Anche quel margine di difesa preventiva non è militarmente sostenibile a lungo termine.

La Russia è stanca di combattere con le conseguenze, perché è comunque un tampone, una strategia a breve termine. 

Certo, quali mezzi e risorse abbiamo avuto dal 2011 in poi in Italia per controbattere l’ondata atlantica che ha stordito la sinistra europea fino a farle credere alla favola delle rivoluzioni arabe? Non avevamo quasi nessun mezzo. La Russia avrebbe dovuto preoccuparsi di questo spaventoso arretramento nel dibattito pubblico nelle società occidentali e Putin avrebbe dovuto capire che nel mirino, dopo Gheddafi, ci sarebbe stato lui prima o poi. Quel discorso così andava a finire se non interrotto sul piano del confronto politico.

Pare che a Dugin questo passaggio sia chiaro. Forse lo avrà capito anche Putin? 

L’opzione militare russa oggi questo significa: la sconfitta sul piano dell’egemonia culturale e la necessità di fermare i possibili missili puntati su Mosca con l’extrema ratio del conflitto bellico.

E’ quindi quello culturale il campo sul quale la Russia dovrà investire in futuro, se un futuro ci sarà. Ma anche noi, cittadini europei, non possiamo stare a guardare e subire questa avanzata del pensiero unico. Ci sarà un momento, se un futuro ci sarà, per far germogliare anche quei semi che abbiamo strenuamente difeso nel deserto di questo ultimo decennio, che ognuno ha attraversato come ha potuto.

 

 

ENRICHETTO

 

Ma infine c’è un’altra ragione per cui non sono solo contrario alla guerra, ma sono completamente riluttante alla lettura dominante in Italia sul conflitto in Ucraina che giustifica e sostiene l’invio di armi all’Ucraina e chissà presto l’invio di militari (per quanto la nostra aviazione stia già operando in concerto con gli altri Paesi NATO nei cieli circostanti il territorio ucraino).

Ed è la maledetta somiglianza con storie già viste, quando cittadini italiani, mediterranei, furono mandati a combattere la Russia per il revanscismo e il senso di onnipotenza degli imperi dell’Europa centrale.

Come molti cittadini dell’est, un po’ sconvenientemente abbiamo visto, amano rievocare i loro antenati in questo momento, anche io ho un nonno da ricordare, perché in questa vicenda la sua vicenda mi insegna ancora molto.

Lui era Enrichetto Severgnini, nato il 03-01-1911, così come da attestato del distretto militare di Brescia. Arrivato in territorio russo il 13 giugno 1942 con il “30° autogruppo pesante” e ripartito dalla Russia (ma in realtà dall’Ucraina, dopo centinaia di chilometri a piedi insieme alle centomila gavette di ghiaccio in ritirata dalle sponde del Don) l’11 aprile 1943.

Per la cronaca, il 9 settembre del 1943, all’indomani della dichiarazione di Badoglio, sarà catturato dai tedeschi con i quali rifiuterà di combattere e insieme ad altri 100mila soldati italiani verrà inviato nei campi di prigionia in Germania. Farà ritorno a casa solo nell’ottobre del 1945.

 

 

Per essere sopravvissuto a queste disgrazie ricevette la “Croce al Merito di Guerra”. Non so se ne sia mai stato orgoglioso e non glielo potetti mai chiedere personalmente perché gli strascichi della guerra lo portarono via ben prima che io nascessi.

 

 

Mio nonno fece parte dell’ARMIR, l’Armata italiana in Russia, corpo di spedizione che operò nel 1942-43 nella zona del Don, composta da oltre 220mila uomini di cui oltre un terzo non fecero più ritorno in patria.



Anche per questo credo che la mia famiglia abbia già dato. La lezione della storia noi l’abbiamo imparata. Se l’Ucraina nel 1945 fu un Paese libero non fu certo per gli Italiani che vi combatterono e che la attraversarono per andare a combattere in Russia, ma per i Russi che anche in Ucraina vi morirono. 

Gli imperialisti in Ucraina, allora come oggi, siamo noi.

 

PS: sarà superfluo dirlo, ma non corre nessun legame di parentela tra la mia famiglia e il giornalista Beppe Severgnini

Michelangelo Severgnini

Michelangelo Severgnini

Regista indipendente, esperto di Medioriente e Nord Africa, musicista. Ha vissuto per un decennio a Istanbul. Ora dalle sponde siciliane anima il progetto "Exodus" in contatto con centinaia di persone in Libia. Di prossima uscita il film "L'Urlo"

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