AUTONOMIA DIFFERENZIATA: NUOVA LEGGE PER UN PERCORSO CON RADICI LONTANE

AUTONOMIA DIFFERENZIATA: NUOVA LEGGE PER UN PERCORSO CON RADICI LONTANE

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di Emiliano Gentili e Federico Giusti

Questo articolo esplora il percorso fatto finora verso l’autonomia regionale. Si parte da una breve nota introduttiva sulla storia del pensiero federalista per poi esplorare brevemente legislazione autonomista degli anni ’90-’00-’10 e, infine, approdare alla famigerata L. 86/2024 con cui il Governo Meloni ha deciso di portare avanti il discorso (in piena continuità con quanto fatto dagli esecutivi precedenti, ci teniamo a sottolinearlo). All’interno trova posto anche un approfondimento sul settore sanitario.

Il federalismo italiano prima della Lega Nord

Il federalismo è un pensiero politico nato nel corso del XIX secolo. Sviluppatosi sostanzialmente nella sinistra politica dell’epoca come corrente di ispirazione socialista o liberale, si proponeva di arrivare alla pace mondiale perpetua tramite la distribuzione federalistica dei poteri. Quest’ultima, infatti, nelle intenzioni avrebbe potuto garantire allo stesso tempo un accorpamento amministrativo e un decentramento del potere politico, prevedendo da un lato entità statali più grandi, travalicanti gli attuali confini nazionali, ma per l’appunto congegnando, dall’altro, uno Stato federale. Non per caso i due principi cardine erano: la Costituzione nazionale come istituzione suprema dello Stato federale; l’idea che la democraticità della società civile sia possibile innanzitutto con la prossimità istituzionale (decentramento territoriale e/o amministrativo, concessione di autonomia di poteri), anziché con lo sviluppo di un assetto istituzionale adeguato (democrazia diretta o rappresentativa, sistema elettorale, divisione dei poteri…).

Già sul finire del secolo scorso in Italia il vecchio federalismo di sinistra aveva perso slancio, smarrendosi nel vano tentativo di orientare l’Ue in senso democratico: quest’ultima era stata accolta come un super-Stato federale bell’e pronto, una nuova e storica occasione da non perdere, ma i rapporti di forza erano troppo sfavorevoli e i federalisti non riuscirono a esercitare una grande influenza. Del resto la stessa idea della “Ue delle Regioni” si basava proprio sul disegno strategico di indebolire gli stati nazionali per rafforzare invece i poteri economici e finanziari che a questi sono trasversali. Alla fine, perciò, l’idea federalista di alcuni decenni fa è stata funzionale alla modifica degli assetti di potere, del titolo V della Costituzione, alla progressiva erosione dei diritti sociali, alla riforma maggioritaria del sistema elettorale e all’elezione diretta dei Sindaci, così come era funzionale non ad una idea di democrazia ma, piuttosto, di governabilità, nell’ottica di rafforzare il potere esecutivo a mero discapito del controllo popolare (anche se “annacquato”).

Gradualmente ha preso corpo una visione del federalismo nuova e profondamente meschina, sostenuta da nuovi attori politici e mutuata soprattutto dal ceto imprenditoriale del Settentrione. Stavolta l’obiettivo non era di tipo umanistico: si voleva semplicemente ottenere una maggiore autonomia sul piano delle politiche economiche e delle relazioni commerciali con i capitali esteri[1]. Dall’inizio del nuovo Millennio, perciò, è iniziata la devoluzione alle Regioni di responsabilità amministrative che prima erano in capo allo Stato centrale, con ciò favorendo lo sviluppo di livelli di spesa sociale e infrastrutturale maggiormente differenziati fra Regione e Regione[2]. Questo ha consentito a sua volta di sgravare tanti imprenditori, perlopiù titolari di piccole e medie imprese, da una serie di costi e rigidità di contesto che avrebbero minato la loro competitività sul mercato ancor più di quanto già non stessero facendo le ridotte dimensioni aziendali.

Prendiamo come esempio la Regione Logistica Milanese[3], un’area geografica comprendente le province di Milano, Lodi, Piacenza, Pavia, Novara, Varese, Lecco, Como e Bergamo, interessata da una fitta rete di collegamenti logistici intermodali per il trasporto merci che consentono agevoli scambi con l’estero e la possibilità di ridurre i tempi di circolazione delle merci. Ebbene, difficilmente avrebbe potuto svilupparsi così tanto senza la creazione di questi differenti livelli di spesa. Ciò ha permesso (e permette) di attrarre consistenti investimenti, che fanno di questa regione logistica uno snodo importantissimo per la logistica e il trasporto merci europeo e uno dei soggetti economici più importanti dell’intero sistema economico italiano. Ora, se gli imprenditori avessero dovuto investire risorse proprie per ottenere risultati paragonabili in termini di potenziamento logistico nell’area di loro interesse, ci sarebbero potuti riuscire lo stesso? Ne dubitiamo: probabilmente sarebbero mancati i capitali.

E dunque, dietro le richieste di nuove autonomie regionali si anniderebbero, in realtà, dei malcelati interessi imprenditoriali. I dislivelli economici fra zone differenti d’Italia – ad esempio la sanità del Meridione nel confronto con quella del Nord-Ovest – sarebbero perciò, almeno in buona parte, una conseguenza diretta delle difficoltà del nostrano ceto imprenditoriale a risultare competitivo sui mercati esteri.

Eppure non è sempre stato così. Malgrado non vi sia forse pieno accordo fra gli storici, in passato i motivi dell’istituzione delle regioni autonome erano prevalentemente politici: le forti spinte indipendentiste in Sicilia e Sardegna che la classe dirigente italiana voleva frenare; la tutela delle minoranze tedesca e francese in Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta; l’importanza politica del Friuli- Venezia Giulia, regione di confine con l’allora campo socialista (e forse, sì, anche per questo particolarmente bisognosa di un risanamento economico). Eppure, dai primi anni ’90 queste motivazioni politiche hanno iniziato gradualmente a perdere di significato di fronte a un processo di autonomizzazione generale di tutte le Regioni, dapprima silenzioso e poi sempre più vibrante, basato su motivazioni di ordine economico… al punto che oggi ci troviamo di fronte a un paradosso: secondo il Regional Authority Index (riconosciuto dall’Ocse) del 2018, in una scala che va da 1 a 30 e dove 30 e? il punteggio di massima autonomia, le Regioni italiane a statuto ordinario totalizzavano 18 e quelle a statuto speciale solamente 19 punti. Una differenza molto piccola, se si pensa che i la?nder tedeschi arrivavano a 27 e i cantoni svizzeri a 26,5, mentre la centralista Francia vedeva l’attribuzione di soli 10 punti alle proprie amministrazioni regionali.

L’autonomia regionale prima del Governo attuale

  1. Fondamenti della legislazione precedente

            La legislazione sull’autonomia regionale ruota attorno alla Riforma del Titolo V della Costituzione italiana, ordita dal centro-sinistra nel 2001. Questa revisionò alcuni articoli costituzionali, concedendo a ogni Regione ordinaria: la possibilità di intraprendere l’iniziativa per l’avvio del processo di “autonomizzazione” (art. 116); la potestà legislativa esclusiva su un elenco di materie fondamentali, prima di competenza dello Stato centrale, fra le quali «tutela e sicurezza del lavoro», «ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi» e «previdenza complementare e integrativa» (art. 117); l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa per tutti gli enti locali, che oggigiorno «Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, (...) dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio» (art. 119).

I decreti attuativi della Riforma costituzionale tardarono diversi anni ad arrivare, segno forse di una certa difficoltà a orchestrare una revisione così profonda dell’assetto amministrativo dello Stato. Le disposizioni che, invece, questa Riforma la precedettero, furono puntuali e assolutamente fondamentali per preparare il terreno all’autonomismo regionale. Fra queste, le principali sono:

- L. 421/1992 (centro-sinistra), che decentrò le prime tasse alle Regioni (tassa automobilistica, contributi sanitari, Ici ed altre);

- leggi finanziarie per gli anni 1995 e 1996 (L. 725/1994, centro-destra; L. 662/1996, centro-sinistra) e L. 446/1997 (centro-sinistra), che fra le varie cose istituirono Irap e Irpef, con destinazione d’uso vincolata alla sanita? pubblica;

- L. 133/1999 e D. Lgs. 56/2000 (entrambe del centro-sinistra), che recarono importanti modifiche ai criteri per la ripartizione regionale dei finanziamenti, sostituirono alcuni sovvenzionamenti statali alle Regioni (cd. “trasferimenti”) con l’aumento delle aliquote di compartecipazione dell’addizionale IRPEF e dell’accisa sulla benzina e, infine, liberalizzarono l’utilizzo dei fondi concessi alle Regioni.

  1. Funzionamento del meccanismo legislativo

            Il problema principale di un funzionamento amministrativo “regionalista” è che le nuove competenze attribuite agli enti locali necessitano, sì, di essere finanziate, ma non tutte le Regioni possono vantare le stesse possibilità? economiche. Per questo motivo e? stato istituito un fondo perequativo nazionale[4] senza vincoli di destinazione d’uso avente come obiettivo quello di garantire la stessa qualità? ed efficienza nell’erogazione dei servizi di nuova competenza delle Regioni nonostante le differenze fra loro esistenti, ossia di compensare le eventuali minori entrate di una Regione rispetto alle stime. Si ricordi, però, che i beneficiari non sono solo gli Enti locali ma anche, nei limiti e nelle modalità? stabiliti dalla normativa, direttamente le attività? economiche private.

Oltre alle risorse del fondo, in caso di una capacita? fiscale e/o una capacita? di erogazione dei servizi inferiori ai limiti fissati per legge le Regioni hanno la possibilità di partecipare alle entrate erariali dello Stato. In che modo? Facciamo un esempio: per il finanziamento della sanita? e? prevista una quota di compartecipazione delle Regioni al gettito fiscale dell’Iva, che come sappiamo e? un’imposta nazionale. La quota di tale compartecipazione varia da Regione a Regione, è stabilita annualmente[5] ed è composta di due parti: una parte invariabile e un’altra che può essere “gonfiata” o, al contrario, “livellata” sulla base delle necessità della Regione specifica. Questa porzione del finanziamento si chiama “finanziamento perequativo” e serve a evitare la crescita degli squilibri socio-economici fra Regioni. Per cui, ad esempio: se il Lazio ha un ammanco di 50 milioni per finanziare la spesa sanitaria e lo Stato glieli concede al 50% in parte non variabile, sappiamo che la Regione riceverà sicuramente 25 milioni, ma che in base al fabbisogno regionale specifico il resto del finanziamento potrà essere più o meno grande degli altri 25 mancanti. Ora, se da un lato la percentuale di finanziamento perequativo è la stessa per tutte le Regioni e tende a crescere (siamo passati dal 5% del 2002 al 30,5% del 2019), dall’altro permane un problema sulle modalità con cui, effettuando il calcolo del fabbisogno regionale, la percentuale viene tradotta in quantità esatta. Il fabbisogno, infatti, è considerato come la media dei consumi finali della popolazione regionale (quelli sui quali lo Stato applica l’Iva), pur se sulla scorta di «parametri che tengono conto della popolazione, della capacita? fiscale, della dimensione geografica e del fabbisogno sanitario»[6] specifici. Incrociare i consumi con i dati storici significa parametrare il livello di benessere economico di quella Regione sulla base della sua propria storia, anziché sulla base dell’andamento medio dell’economia nazionale. O, per meglio dire, i criteri per l’accesso ai fondi statali sono declinati sulla base dell’andamento dell’economia regionale, anziché nazionale. L’obiettivo, dunque, non è la riduzione o il mancato accrescimento delle diseguaglianze interregionali, quanto piuttosto impedire che l’acquisizione delle nuove autonomie determini un nuovo buco di bilancio regionale, stabilizzando le economie locali tramite l’incremento del loro grado di indipendenza economica. Cerchiamo allora di capire precisamente come funziona il processo di finanziamento.

Se il D. Lgs. 56/2000 stabilisce che la compartecipazione all’Iva e? prevista «allo scopo di finanziare il Fondo perequativo per il finanziamento della sanita?», se questa «e? calcolata con DPCM utilizzando come indicatore di base imponibile la media dei consumi finali delle famiglie rilevati dall'ISTAT a livello regionale [corsivo nostro] negli ultimi tre anni disponibili» e, soltanto in ultimo, «a questa base viene applicata l'aliquota precedentemente stabilita»[7], allora e? chiaro che la variabile principale per determinare la quota di compartecipazione siano i consumi finali della Regione, ossia il gettito Iva che la Regione “produce”. Contrariamente a quanto sostenuto dai governi, dunque, la politica di finanziamento della sanita? non contrasta efficacemente l’azione dei “cicli economici”.

Strano – dira? qualcuno –, perché? se negli ultimi anni l’inflazione e? aumentata allora anche il gettito IVA complessivo potrebbe essere aumentato. Eppure «Gli aumenti [dei finanziamenti statali alla sanita?] registrati in questo periodo non sono stati sufficienti a tenere il passo con l’aumento del costo del denaro: se si valuta la spesa in termini reali, si registra un calo che l’ha riportata attorno ai valori del 2004»[8]. Gli attuali criteri federalistici per la distribuzione delle risorse finanziarie, dunque, servono semplicemente a consentire un “collasso controllato e graduale” dei sistemi sanitari regionali e soprattutto ridimensionare il SSN pubblico a solo vantaggio del privato. Peccato che nelle dichiarazioni dei fautori della autonomia determinazione non si trovi traccia delle varie criticità: arriviamo ad un livello di mistificazione tale che, mentre il “collasso” procede, per i governi e? possibile dichiarare di stare accrescendo i finanziamenti alla sanita? e ottenendo migliori risultati nell’erogazione del servizio.

III. Incremento o diminuzione del divario interregionale?

            La domanda posta dal titoletto qui sopra non è scontata. Anzitutto perché la dinamica del divario economico interregionale negli anni successivi all’approvazione dell’autonomia in Costituzione (2001) non è facilmente associabile agli effetti di questa politica specifica in quanto dipende da una molteplicità di fattori, come ad esempio le differenti traiettorie di sviluppo regionali o il contesto economico dei territori circostanti (anche esteri).

Ad esempio, volendo prendere il Pil delle regioni suddivise per Nord, Centro e Sud[9] si noterebbe che dopo il 2000 vi è stato un capovolgimento della situazione: dacché nel periodo 1995-2000 le tre macroaree crescevano in maniera abbastanza equilibrata (Nord +4,59%; Centro +4,7%; Sud +4,76%), la situazione di dieci anni più tardi (2000-2010) appariva profondamente diversa, in quanto nel Mezzogiorno semplicemente non sembrava essersi realizzata la crescita avvenuta nel resto del Paese (Nord +5,3%; Centro +5,26%; Sud +4,69%)[10]. Ciononostante, in assenza di analisi più specifiche non possiamo attribuire il dato agli effetti dell’autonomia[11]. Quel che possiamo fare è prendere uno di quei settori economici in cui gli effetti della regionalizzazione sono stati più evidenti: di nuovo la sanità, che nei bilanci regionali resta di gran lunga la voce di spesa più grande.

            Il Sistema Sanitario Nazionale era originariamente finanziato da un apposito fondo statale le cui risorse, al fine di arrivare a formulare una stima del fabbisogno annuale, venivano già allora ripartite fra le Regioni[12] in base a criteri demografici (numero ed età della popolazione regionale, per quanto pur sempre rapportati alla spesa sanitaria storica).

In seguito il finanziamento del SSN seguì le sorti comuni alle altre materie oggetto di autonomia. Prima di tutto venne parzialmente regionalizzato (col risultato di far nascere i famosi ticket), nel senso che se i livelli essenziali di assistenza (Lea) venivano ancora garantiti col vecchio fondo statale per la sanità, il resto doveva ormai essere finanziato con fondi regionali autonomi[13]. Verso il finire degli anni ’90, poi, anche il finanziamento della sanità diventò principalmente regionale (si pensi all’istituzione di Irap e Irpef). Per evitare l’approfondirsi dei disequilibri tra Regioni il legislatore optò per la nascita di un fondo perequativo, cui poi finì per sovrapporsi e sostituirsi il solito vecchio fondo statale per la sanità[14].

Giova a questo punto ricordare le storiche difficoltà delle amministrazioni regionali italiane a utilizzare i fondi per la sanità in maniera coerente e oculata: prima dell’autonomia era normale chiedere al Governo un’integrazione dei fondi concessi nella Finanziaria per l’anno successivo. Se, quindi, gli ammanchi di bilancio esistevano anche prima, è un fatto che le prime leggi autonomiste non abbiano risolto il problema, semmai aggravandolo. Ciò ha comportato per anni lo stallo del processo di autonomizzazione e, difatti, il primo decennio del nuovo millennio è stato il testimone delle limitazioni sulla fissazione degli importi delle tasse regionali, dei “piani di rientro” dai disavanzi di bilancio sanitario regionale[15] tramite cui lo Stato potesse assumere una quota di controllo maggiore, di un maggiore monitoraggio statale (con relative eventuali sanzioni) sull’attuazione dei Lea e dei “piani di rientro”, nonché in ultimo della possibilità, per la Regione, di accendere un mutuo trentennale con lo Stato per il risanamento regionale.

Dunque, la concessione di maggiore autonomia alle Regioni ha portato a compensare con l’erario statale gli squilibri che sarebbero nati a seguito della regionalizzazione del finanziamento sanitario e, in un secondo tempo, ha comportato l’aumento parallelo del grado di autonomia regionale e del grado di controllo statale (monitoraggio, amministrazione e sanzioni), il che ha fatto precipitare molte realtà del Mezzogiorno in una spirale di “risanamento” infinita, perché apparentemente irrealizzabile. Chiaramente, la diffusione della sanità privata, così come anche il potenziamento di quella integrativa e la contemporanea, progressiva dismissione della pubblica, hanno fatto il resto.

Nel 2010 una sentenza della Corte Costituzionale[16] ha tirato le somme, stabilendo che è lo Stato a dover risolvere la contraddizione fra le poche risorse economiche disponibili e l’egual diritto di tutti i cittadini alla salute (alias, i finanziamenti dello Stato sono necessari). Lo strumento legislativo individuato per normalizzare questo assetto sono gli Accordi Stato-Regioni.

Fatta questa premessa storica è il momento anche per noi di “tirare le somme”. Per capire se la devoluzione delle competenze alle Regioni sia un approccio amministrativo sostenibile e democratico in un Paese come l’Italia possiamo osservare: quanto è l’ammanco di bilancio nelle Regioni più povere, che incassano meno dalle tasse regionali; quante entrate produce, nella singola Regione, un aumento minimo delle tasse regionali. Secondo uno studio della Funzione Pubblica Cgil di pochi anni fa (2017) in Lombardia le entrate regionali coprivano il 40% del fabbisogno sanitario, nel Lazio il 37 e in Emilia-Romagna il 35, mentre in Puglia e Campania il 16% e in Calabria e Basilicata soltanto l’8. Inoltre «Un possibile aumento di 0,5 punti dell’addizionale Irpef produce un gettito di 630 milioni in Lombardia, solo di 135 in Campania, di 51 in Calabria e di 19 milioni in Basilicata»[17].

Purtroppo, stando così le cose si condanna il Mezzogiorno a un sottosviluppo sanitario obbligato, determinato dalla rincorsa per garantire i livelli minimi di assistenza e da uno sforzo perpetuo per il contenimento della spesa. La privatizzazione, poi, avvantaggia ulteriormente le Regioni del Nord, che attraggono più investimenti.

A nostro avviso il fatto che tuttora vengano erogati finanziamenti statali costituisce una forma di parziale tutela… che però è sempre più una coperta corta: fra il 2010 e il 2019 sono state promulgate oltre dieci leggi che stabilivano una riduzione degli stanziamenti per la sanità, al netto dell’inflazione[18]. La Legge di Stabilità per il 2015 si spinge addirittura a chiedere alle Regioni un contributo di 4 miliardi di € (!). È così, dunque, che «Nel decennio 2010-2019, il finanziamento pubblico del SSN è aumentato complessivamente di € 8,8 miliardi, crescendo in media dello 0,9% annuo, tasso inferiore a quello dell’inflazione media annua pari a 1,07%. In altre parole, l’incremento del FSN [Fondo Sanitario Nazionale] nell’ultimo decennio non è stato neppure sufficiente a mantenere il potere di acquisto»[19]. Durante gli anni successivi il trend non si è invertito, nonostante un lieve rialzo durante la pandemia di Covid: la spesa sanitaria in rapporto al PIL è stata del 6,27% nel 2023 e, in previsione, sarà del 6,2% per il 2026. Prima della pandemia (2019) eravamo al 6,4. Se confrontiamo la spesa sanitaria pro-capite italiana con quella della media UE viene fuori che siamo passati da un gap di 44$ nel 2010 a ben 873$ nel 2022[20].

Particolarmente dure sono le critiche dell’Anaao, l’associazione dei medici, che parlano di concorrenza selvaggia per acquisire le risorse necessarie, anche perché del resto sono ancora vigenti i tetti di spesa in materia di personale nella Pa. I servizi sanitari saranno contratti, dunque, e il ricorso a interinali e terzo settore diverrà obbligato.

L’autonomia regionale col Governo Meloni (L. 86/2024)

            La L. 86/2024 è la nuova disposizione attuativa della Riforma del Titolo V costituzionale, avente quindi come scopo la definizione di norme e criteri per la regolazione di quanto già approvato precedentemente in altre leggi e non, come ci si potrebbe aspettare, la predisposizione di un piano politico ex novo. Di conseguenza bisogna tenere presente che il Governo sta attuando una legge promulgata dal centro-sinistra.

Le principali questioni da affrontare sono tre: quali materie vengono regionalizzate e con quali modalità; la limitazione del potere statale nella rescissione degli accordi con le Regioni; il rischio di una consistente frammentazione normativa e burocratica.

In base all’Art. 117 della Costituzione, così come modificato dal Governo Amato, le Regioni hanno competenza legislativa generale, ossia possiedono degli ambiti in cui legiferano in sostituzione dello Stato. Nello specifico esistono delle materie di competenza esclusiva statale (la Difesa, ad esempio), altre di competenza concorrente (fra Stato e Regioni) e che sono quindi “regionalizzabili” e, infine, quelle di cosiddetta “competenza trasversale” (materie statali che non presentano «i caratteri di una materia di estensione certa, ma quelli di una funzione [corsivo nostro] esercitabile sui più diversi oggetti»[21]). Una delle novità di cui è portatrice la Legge che stiamo esaminando è la possibilità di regionalizzare le materie trasversali, o anche soltanto degli ambiti specifici di queste[22]. In sostanza si tratta della tutela della concorrenza economica, ambientale e, ovviamente, del processo legislativo e attuativo per la definizione e il rispetto dei Lep.

Riguardo le materie regionalizzabili sarà importante capire quali saranno, in concreto, i Livelli Essenziali da garantire[23]. Non si tratta realmente soltanto di ambiti di importanza sociale o ambientale, come dice il Governo: le materie concernenti funzioni produttive o logistiche, infatti, per quanto impattino sulla vita della comunità potrebbero in realtà essere tutelate dai Lep per interessi economici[24]. Stiamo parlando di: sostegno all'innovazione per i settori produttivi; grandi reti di trasporto e di navigazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia. Infine non convince del tutto la mancanza dei Lep per la previdenza complementare e integrativa[25], anche se però in caso contrario il rischio sarebbe stato quello di un flusso di soldi pubblici verso gli imprenditori del settore. Positivo, invece, l’inserimento di quelli per “tutela e sicurezza sul lavoro”, anche se bisognerà vedere se saranno maggiormente definiti sulla base del rispetto di parametri oggettivi di sicurezza oppure se verranno direttamente rapportati alle certificazioni per la sicurezza rilasciate alle aziende, nonché bisognerà capire se arriverà l’agognato aggiornamento delle malattie professionali, che con il lavoro sempre più tecnologico che ci troviamo ad affrontare è quantomai urgente.

Infine dobbiamo ricordare che, qualora i Lep non vengano rispettati, la nuova normativa[26] prevede la possibilità di revoca dell’autonomia sulle singole materie: staremo a vedere se diverremo un Paese a doppio binario, in cui le Regioni più ricche mantengano un maggior grado di autonomia rispetto a quelle in difficoltà. Non è detto, perché nella Legge è scritto che lo Stato può scegliere di aumentare le aliquote di compartecipazione delle Regioni a determinate imposte[27], ma dal momento che già oggi molte Regioni hanno deroghe per trattenere maggiori risorse, il margine residuo potrebbe non essere sufficiente. Speriamo quindi che questo meccanismo non sia solamente un nuovo modo per imporre privatizzazioni selvagge nei settori regionalizzati in difficoltà, nell’ottica del “risanamento” economico…

            A proposito della limitazione dei poteri del Parlamento nei confronti delle Regioni bisogna denunciare come la contrattazione Stato-Regione avvenga principalmente col Governo, in quanto le Camere potranno emettere solamente degli atti di indirizzo non vincolanti sugli schemi (bozze) di accordo, mentre dovranno poi approvarlo o respingerlo direttamente nella sua versione definitiva e non modificabile[28].

            Per concludere, i rischi di complicazione normativa e inefficienza burocratica (ma anche di rafforzamento della stessa burocrazia) sono relativi principalmente a due punti: la deroga di competenze agli Enti locali predispone naturalmente la proliferazione di norme ad hoc (in luogo di un’unica normativa nazionale) e la complicazione dei processi amministrativi gestionali in generale; l’aumento del carico di lavoro per gli Enti locali, già spesso e volentieri pesantemente sotto organico. Il Governo ha predisposto la semplificazione delle procedure per l’accesso, la gestione e l’utilizzo dei fondi concessi alle Regioni[29]. Sarà sufficiente? Un piano straordinario di assunzioni per Regioni e Comuni sarebbe quantomai necessario.

[1] Anche i precursori della secessione del Nord ben presto furono richiamati a ripiegare su posizioni funzionali al disegno imprenditoriale.

[2] Il divario tra la spesa sanitaria pro-capite del Nord-Ovest e quella del Mezzogiorno, ad esempio, è più che raddoppiato negli anni 2000-2018. Dati: M. Ciocci, F. Spagnolo, La spesa in sanità: i dati CPT per un’analisi in serie storica a livello territoriale, p. 13, Fig. 6. CPTInforma, n. 3/2020, per conto di Nucleo di Verifica e Controllo, Area 3, “Monitoraggio dell’attuazione della politica di coesione e Sistema dei Conti Pubblici Territoriali”.

[3] Si tratta di un’area geografica comprendente le province di Milano, Lodi, Piacenza, Pavia, Novara, Varese, Lecco, Como e Bergamo, interessata da una fitta rete di collegamenti logistici intermodali per il trasporto merci che consentono agevoli scambi con l’estero e la possibilità di ridurre i tempi di circolazione delle merci. Ciò consente di attrarre consistenti investimenti.

[4] L. Cost. 3/2001, art. 119, c. 3.

[5] D. Lgs. 56/2000, art. 5, cc. 2 e 4.

[6] Documentazione parlamentare della Camera dei Deputati, Focus del 14/02/2022.

[7] Ibidem.

[8] Luca Gerotto: L’evoluzione della spesa sanitaria, Osservatorio conti pubblici italiani, Università Cattolica del Sacro Cuore, 14/03/2020.

[9] Per quanto riguarda le tre macroaree la suddivisione è la seguente: Nord (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Piemonte, Toscana, Liguria, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta); Centro (Lazio, Abruzzo, Marche, Umbria); Sud (Campania, Puglia, Molise, Calabria, Basilicata, Sicilia, Sardegna). Si tenga infine presente che al netto dell’inflazione tutte le percentuali di crescita risulterebbero più basse e che la ricchezza territoriale non corrisponde a quella della popolazione pro-capite.

[10] Nostra elaborazione su dati Istat.

[11] Tra l’altro, eccettuati i provvedimenti che precedettero la Riforma del Titolo V, le prime disposizioni di rilievo tardarono quasi un decennio ad arrivare (L. 42/2009 e D. Lgs. 68/2011), rendendo il regionalismo una causa ancor più periferica dello squilibrio registrato nel periodo 2000-2010.

[12] L. 833/1978.

[13] D. Lgs. 502/1992, D. Lgs. 517/1993, D. Lgs. 229/1999.

[14] D.L. 347/2001.

[15] L. 311/2004.

[16] Sentenza Corte Cost. n. 149/2010.

[17] Antonio Marchini, La sanità in Italia dalle sue origini ad oggi, p. 45. https://www.fpcgil.it/wp-content/uploads/2021/06/LA-SANITA-IN-ITALIA-DALLE-SUE-ORIGINI-AD-OGGI.pdf

[18] Si tratta in sostanza di tutte le Leggi di Stabilità e le Finanziarie approvate in questo periodo, comprese le note di aggiornamento, e delle Intese Stato-Regioni.

[19] Nino Cartabellotta, Elena Cottafava, Roberto Luceri, Marco Mosti, Il definanziamento 2010-2019 del Servizio Sanitario Nazionale, Report Osservatorio GIMBE n. 7/2019.

[20] Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere, Rapporto sulla spesa sanitaria italiana, 8 Maggio 2024.

[21] Sentenza Corte Cost. n. 14/2004, punto 4.

[22] L. 86/2024, art. 2, c. 2.

[23] Per approfondire la legislazione sui Lea si vedano soprattutto le seguenti disposizioni: DPCM 29 novembre 2001, istituzione dei Lea; DPCM 12 gennaio 2017, aggiornamento dei Lea; D. M. 5 Maggio 2020, istituzione della Commissione per l’aggiornamento Lea (Clea), che realizzerà continui aggiornamenti triennali.

[24] Del resto i Lep impattano molto sulle politiche del lavoro, soprattutto su collocamento e assunzioni.

[25] La Commissione per la valutazione dei Lep (in sigla, “Clep”) ha individuato le ragioni di questa scelta nella difficoltà oggettiva di determinare dei Lep unici che siano funzionali per tutti e nel fatto che, sul tema specifico, le Regioni godrebbero già di sufficienti margini di manovra. Secondo l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, però, la mancanza dei Lep per alcune materie «potrebbe tuttavia implicare la rimozione di qualunque fattore di unitarietà in settori potenzialmente oggetto di regionalismo differenziato, se non si provvede in altro modo a garantire la tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica e ad assicurare il rispetto della normativa internazionale e sovranazionale» (in “Commissione parlamentare per le questioni regionali, Audizione dell’Ufficio parlamentare di bilancio nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulla determinazione e sull’attuazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, p. 34”).

[26] L. 86/2024, art. 7, c. 1.

[27] L. 86/2024, art. 8, c. 2.

[28] L. 86/2024, art. 2, cc. 4 e 8.

[29] L. 86/2024, art. 10, c. 1, lett. “a” e “b”.

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