AUTONOMIA DIFFERENZIATA: NUOVO DISPOSITIVO D’ATTACCO CONTRO IL LAVORO DIPENDENTE
di E. Gentili e F. Giusti
La legge sull’autonomia differenziata (L. 86/2024) stabilisce la possibilità di regionalizzare integralmente la competenza legislativa su alcune materie fino ad oggi di “competenza concorrente”[1] fra Stato e Regioni, oppure “trasversale”[2]. La regionalizzazione integrale di una materia presuppone un sistema di individuazione e rilevazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (Lep) che ogni Regione italiana sarà tenuta a garantire. L’autonomia è concessa per l’impegno a soddisfare questi livelli essenziali, che poi scopriremo essere facilmente aggirabili o raggiungibili riducendoli ai minimi termini, ma in maniera di gran lunga inferiore alle reali necessità.
Se i Lep vengono individuati a livello nazionale, il monitoraggio del loro soddisfacimento e dell’impatto delle politiche regionali deputate a realizzarli è invece di competenza regionale.
La determinazione del fabbisogno economico regionale da finanziare con fondi statali è quindi connessa al rilevamento del livello di soddisfacimento dei Lep. Tuttavia, dal momento che né il sistema di monitoraggio, né tantomeno quello per la determinazione del fabbisogno economico sembrano funzionare, i finanziamenti (cd. “trasferimenti”) dallo Stato alle Regioni vengono determinati dagli ammanchi di bilancio regionale, accettando implicitamente, così, la disuguaglianza esistente fra i territori. Difatti, «Alla individuazione dei Lep dovrebbe seguire la determinazione dei costi standard (di efficienza) delle attività che concretizzano i Lep stessi, per poi arrivare infine al fabbisogno standard complessivo necessario sia a quantificare il finanziamento necessario a garantire i Lep (…), sia a calcolare i meccanismi perequativi»[3] per i territori economicamente meno sviluppati.
“Tutela e sicurezza del lavoro”
Una delle materie regionalizzate è “tutela e sicurezza del lavoro”, inquadrata originariamente come materia concorrente fra Stato e Regioni[4]. Da anni, a partire dallo smantellamento delle Province, la gestione di questo importante tema viene sostanzialmente delegata ai servizi regionali per l’impiego. I risultati però non sembrano entusiasmanti, almeno a prima vista: lavoro nero, precarietà e aumento delle malattie professionali sono lì a testimoniarlo, come del resto anche il fallimento di quello che un tempo veniva chiamato il collocamento pubblico dei disoccupati. Gli stessi Centri per l’Impiego hanno sempre meno potere e ormai le aziende o ricorrono alle agenzie interinali (con tutte le agevolazioni del caso per entrambe, sia in termini di esenzioni e sgravi fiscali che di sovvenzioni pubbliche) oppure optano per appalti e subappalti nei quali la forza lavoro è sottopagata. Nella Pubblica Amministrazione, questo determina una considerevole riduzione di spesa e, di conseguenza, salari da fame.
Se dieci anni or sono, dunque, il Jobs act dettava linee guida e Lep ai Centri per l’Impiego[5], che erano deputati ad attuarli, col senno di poi possiamo, e senza timori di smentita, che si è trattato di un autentico fallimento, perché oggi questo macchinoso impianto organizzativo riesce a indirizzare verso dei corsi di formazione o un lavoro soltanto una esigua minoranza dei disoccupati.
I risultati dei Centri per l’Impiego
Tutti i disegni per potenziare queste strutture si sono incagliati come una barca senza guida spinta dalla corrente verso gli scogli. Prima mancava il personale ma poi, quando gli organici sono stati rimpinguati, mancavano i processi di formazione in grado di garantire reali sbocchi occupazionali… La verità è che stabilire i Livelli Essenziali delle Prestazioni si è dimostrato del tutto inefficace[6]:
- i Lep sul lavoro non sono stati raggiunti, se non in minima parte. Pur trattandosi di “livelli minimi di prestazioni” da assicurare a tutta la popolazione residente come parte del diritto alla cittadinanza, rimangono largamente inapplicati. Secondo dati Anpal del 2022, nel Mezzogiorno vengono “attivate” solamente il 69,06% delle azioni che garantirebbero il completo rispetto dei Lep, mentre Centro e Nord viaggiano intorno al 76%[7];
- se si lasciano perdere i Lep, per concentrarsi su dati come il tasso di assunzione di lavoratori a tempo indeterminato o con elevate competenze, oppure il tasso di assunzioni presso aziende che stanno facendo crescere il proprio personale (saldo occupazionale annuo positivo), la situazione di spaccatura del Paese è ancora più accentuata. Lo si evince chiaramente dall’immagine[8] di seguito:
Fig. 1: Indicatore sintetico di dinamicita? ed inclusivita? della domanda di lavoro per bacino di competenza dei Centri per l’Impiego. Questo indicatore comprende i seguenti dati: capacità delle imprese del territorio di esprimere un fabbisogno di manodopera costante nel tempo; presenza di imprese con saldi occupazionali positivi a carattere permanente; incidenza delle assunzioni a tempo indeterminato; quota di assunzioni di giovani; quota di assunzioni di donne; quota di assunzioni di dipendenti con elevate competenze.
Perciò troviamo, ad esempio, che il tasso di assunzioni a tempo indeterminato è del 22,84% nel Nord, del 20,91% al Centro e solo del 15,56% nel Meridione; che la presenza di imprese con saldi occupazionali positivi a carattere permanente è, rispettivamente, del 42,73%, 40,46% e 36%; che le assunzioni di lavoratori con elevate competenze sono a 13,72%, 13,7% e 9,96%[9] (nonostante la diffusione in Italia delle aziende ad alta specializzazione del lavoro sia ancora “a macchia di leopardo” anche fra le Regioni settentrionali).
È importante constatare come la definizione e l’applicazione parziale dei Lep forniscano sì, in teoria, un’unica strategia di sviluppo valida per tutto il Paese, ma almeno per il momento lascino libere le realtà regionali di seguire traiettorie di sviluppo socio-economico precipue, assecondando tendenze e caratteristiche preesistenti dei mercati del lavoro locali. Per fare un esempio in tal senso, se i lavoratori dipendenti impiegati nei settori hi-tech erano, nel 2012, il 3,96% al Nord, il 3,65% al Centro (col traino dell’area romana) e l’1,9% al Sud, nel 2023 sono rispettivamente il 4,79%, 4,35% e 2,46%.
Obiettivi dei Governi
Scriviamo “dei Governi” al plurale perché è impossibile distinguere anche solo due orientamenti politici differenti, analizzando le politiche sul lavoro portate avanti negli ultimi decenni. Nel merito, gli obiettivi del Governo Meloni sono esplicitati nero su bianco nel Pnrr, votato da tutte le forze politiche (i partiti di centro-destra saltuariamente si sono astenuti[10], quando erano all’opposizione, salvo poi ricredersi una volta saliti sui dorati scranni).
Nella Missione 5, Componente 1, per l’appunto, è molto chiara la strategia di sviluppo nazionale:
- incrementare la capacità di tracciamento dei lavoratori tramite lo sviluppo e l’implementazione dei sistemi informatici per la registrazione delle competenze possedute (come il programma Siisl), nonché attraverso lo sviluppo dei Centri per l’Impiego (digitalizzazione, miglioramento del sistema di rilevamento e certificazione delle competenze, sviluppo del sistema di monitoraggio);
- inserire il privato, spesso tramite l’agenzia interinale, nelle suddette piattaforme, e ridurre la distanza fra imprese e Centri per l’Impiego;
- continuare a “risolvere” i problemi del mondo del lavoro con il sistema delle certificazioni da rilasciare alle aziende. Dopo le certificazioni della sicurezza aziendale e dell’ergonomicità del lavoro arriva quella per l’occupazione femminile e la parità di genere;
- spostare il focus dell’istruzione scolastica dal versante umanistico a quello tecnico-scientifico, più utile alle imprese, e nel campo della formazione lavorativa creare figure specializzate che il mercato del lavoro nostrano cerca (in parte) ma non trova.
Si ricordi, tuttavia, che il tentativo di orientare il mercato del lavoro verso ambiti più tecnologici e ad alta specializzazione può realizzarsi concretamente solo se il sistema imprenditoriale italiano riesce a riposizionarsi nei settori economici corrispondenti, che consentono un maggior guadagno sugli investimenti effettuati rispetto a settori più tradizionali. Anche la riforma delle scuole professionali e degli ITS Academy[11], sempre a firma dell’attuale Governo, a giudizio di chi scrive prefigura una forza-lavoro dotata di specializzazione tecnologica, sì, ma pur sempre di tipo operaio, ossia relativa a compiti elementari e tendenzialmente ripetitivi, per quanto eseguiti in rapporto con un’organizzazione aziendale più tecnologica.
L’intero impianto delle politiche del lavoro degli ultimi – almeno – dieci anni, dunque, si basa su una scommessa. Una scommessa fatta sulle spalle dei lavoratori, che perdono definitivamente il diritto alla grande tradizione scolastica umanistica italiana e che verranno schedati e irregimentati nell’obbligo al lavoro (o alla disoccupazione). Come avevamo scritto tempo fa, assieme a Stefano Macera, «nel variegato mondo dell'istruzione vaste sacche di arretratezza coesisteranno con autentiche punte di diamante, il cui aumento andrà di pari passo con l’estensione delle aree economico-produttive in grado di sostenere la concorrenza internazionale»[12], e nella misura in cui tale estensione potrà avvenire. Nel tentativo di facilitarla i Governi hanno messo e mettono tuttora in campo varie strategie, orientate a ridurre i costi degli investimenti – tramite esenzioni e sgravi fiscali per le imprese, sovvenzioni varie (anche Ue), bandi, deregolamentazione amministrativa per l’ottenimento facilitato di permessi e certificazioni, implementazione delle infrastrutture logistiche ed energetiche – e il costo del lavoro – appalti e subappalti, precariato, deregolamentazione normativa e deficit di monitoraggio sulle condotte aziendali, ecc..
In conclusione, noi crediamo che quanto avvenuto con le politiche attive del lavoro possa essere propedeutico per comprendere le concrete ricadute della autonomia differenziata. Complessivamente le Regioni non sono in grado di svolgere ruoli e funzioni statali e, quando se ne fanno carico, finiscono solo col favorire il privato e le privatizzazioni. Ora, con l’istituzione dei Lep anche per molte altre materie, il timore è che quanto avvenuto con le politiche attive del lavoro possa verificarsi anche in sanità, nell’istruzione, nei trasporti, nella gestione dei beni culturali e dell’ambiente. Considerando, poi, che sostanzialmente i Lep non passano per il Parlamento (vengono approvati con DPCM[13]), è possibile che il Governo ne approvi larga parte senza suscitarvi attorno il minimo dibattito; nel Parlamento, come sulla stampa e nella società civile in generale.
[1] L. Cost. 3/2001, art. 3.
[2] La “competenza trasversale”, sulla base della Sentenza della Corte Costituzionale n. 14/2004, punto 4, si considera propria di materie che non presentano «i caratteri di una materia di estensione certa, ma quelli di una funzione esercitabile sui più diversi oggetti».
[3] Luciano Cimbolini, Autonomia differenziata: materie, Lep, costi e fabbisogni per costruire il sistema, «Norme&Tributi+», inserto de «ilSole24Ore», 3 Luglio 2024.
[4] L. Cost. 3/2001, art. 3.
[5] In realtà trascorsero ben quattro lunghi anni prima che venissero definiti i Lep e i servizi da erogare in tutti i Centri per l’Impiego regionali.
[6] Lo dimostra, tra l’altro, il fallimento del progetto Gol (Garanzia Occupabilità dei Lavoratori), che in teoria ogni Regione avrebbe dovuto promuovere dentro il quadro del Pnrr.
[7] Nostra elaborazione su dati Anpal: Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro, Servizi per l’impiego. Rapporto di monitoraggio 2022, Roma, 2023, tab. 3.7, p. 43. Tali risultati sono anche il frutto dei cronici problemi di organico dei Cpi, visto che il numero di operatori è stato in costante contrazione per tutto il decennio 2010-2020.
[8] Fonte: Ufficio di Statistica di Sviluppo Lavoro Italia Spa (ex-Anpal Spa), La domanda di lavoro per bacino dei Centri per l’Impiego, p. 6.
[9] Nostra elaborazione su dati Ussl: Ufficio di Statistica di Sviluppo Lavoro Italia Spa (ex-Anpal Spa), Rapporto SISTAN 2023 - Domanda di Lavoro per CpI, https://public.tableau.com/app/profile/ufficio.di.statistica.sviluppo.lavoro.italia.spa/viz/RapportoSISTAN2023-DomandadiLavoroperCpI_17086755405150/home. In questi ultimi dati la suddivisione dell’Italia in macro-aree (Nord, Centro e Sud) ha comportato, rispetto alla tradizionale suddivisione, l’inserimento della Regione Toscana fra le Regioni del Nord, anziché del Centro, così come dell’Abruzzo, normalmente assegnato al Sud. È una scelta degli autori, compiuta nel tentativo di restituire un quadro più corretto e realistico della situazione.
[10] Votazione al Senato del 13 Ottobre 2020 (astensione di tutto il cdx); votazione al Parlamento Europeo del 10 Febbraio 2021 (astensione solo di FdI); votazione al Parlamento Europeo del 24 Marzo 2021 (astensione soltanto della Lega e di singoli membri di FdI e Forza Italia); votazione al Senato del 27 Aprile 2021 (astensione solo di FdI).
[11] DdL 924/2023, tuttora bloccato alla Camera.
[12] E. Gentili, F. Giusti e S. Macera, Attraversando il Pnrr (parte III), «Machina», 26 Giugno 2024.
[13] Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri.