Biden e la variabile "Kamala"

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Biden e la variabile "Kamala"

Inizia la presidenza Biden, annunciata come era di speranza, quasi fosse un messia. Ridondanza che discende dall’aver identificato Trump come il male assoluto.

Tale narrazione mainstream ha stentato a far presa, tanto che il “puzzone” ha preso settanta milioni di voti. Elettori che si vorrebbe consegnati al radicalismo estremo, con una criminalizzazione di massa pericolosa, ma che discende necessariamente dal punto di cui sopra.

Smentita dalle elezioni, tale narrazione ha ripreso forza dopo l’assalto a Capitol Hill, consolidandosi come ormai irreversibile e inappellabile.

 

Golpe falliti e riusciti

Tante le domande sull’assalto, che non può definirsi colpo di Stato, dato che, se è vera la narrazione, si sarebbe trattato di un’azione organizzata da gruppi di estrema destra, tracimando grazie alla rabbia popolare. I colpi di Stato, quelli veri, hanno ben altra pianificazione.

Per portare a segno un golpe ci vogliono esercito e intelligence, come ben sanno gli apparati di sicurezza Usa, che per rovesciare Maduro, solo per fare un esempio, cercarono e ottennero l’appoggio del Capo dei servizi segreti venezuelani (quelli che i media mainstream fino a quel momento avevano definito “famigerati“…).

Nell’assalto a Capitol Hill non c’è stata affatto collusione con tali apparati, come da inchieste ufficiali, i quali hanno invece brillato per la loro incapacità di capire e prevenire nonostante i tanti ed evidenti segnali.

È accaduto anche per gli attentati dell’11 settembre 2001, data in questi giorni associata da tanti analisti al 6 gennaio, giorno dell’assalto.

L’Operation Occupy the Capitol Hill ha posto fine ai sogni residui di Trump, costretto a concedere, pur non riconoscendola, la vittoria al suo avversario, come gli era chiesto da tempo dai suoi antagonisti.

Così la performance capitolina ha oggettivamente fatto il gioco dei nemici di Trump: la presidenza Biden ha visto spianata la sua strada, vedendo forzosamente sopite le contestazioni sul voto e su altro; e i neocon, distrutto l’uomo che aveva loro tolto il controllo del partito, hanno ripreso in mano le redini dei repubblicani, come nel post 11 settembre.

Tanto che Trump medita di fondare un suo partito, con desiderio forse velleitario, dato che il suo posto è “in carcere”, come ha dichiarato l’ex capo dell’Fbi James Comey in un appello in cui pure chiedeva a Biden di perdonarlo (perdono subordinato, evidentemente, all’accettazione di un ritorno all’anonimato).

I militari e lo sciamano

Ma il futuro di Trump può attendere, oggi è il giorno dell’inizio della nuova presidenza, che nasce sotto un funesto segno, come da immagini di una Washington militarizzata, con i soldati acquartierati dentro Capitol Hill.

Uno schieramento di forze inutile, dato che non sono previste manifestazioni di massa e che per singole azioni terroriste, se pur rischio reale, sarebbero state più che sufficienti misure meno appariscenti.

Evidentemente si vuol dare un segnale di forza, nel segno di un’America che sa difendere la sua democrazia. In realtà appare sì un segnale di forza, ma che stride con l’idea di democrazia, difficilmente conciliabile con i militari su piazza, a meno di pericoli reali che non ci sono (repetita iuvant: il rischio attentati si contrasta con altro e con interventi meno appariscenti).

Sembra così avverarsi, sotto altre forme, la profezia di Biden, il quale dichiarò che, se necessario, l’esercito avrebbe scortato Trump fuori dalla Casa Bianca…

Messaggio nefasto, quello dei militari sulle strade di Washington, che però ben si addice all’immagine dello strano sciamano insediato sullo scranno imperiale di Capitol Hill, che in qualche modo li ha evocati.

La sconfitta del tribuno della plebe

Tanto si potrebbe scrivere su questi anni trumpiani, nei quali si è rinnovata all’interno dell’Impero la contesa tra patrizi e plebei dell’antica Roma. Il tribuno della plebe è stato sconfitto e, oggi come allora, ha vinto Silla.

Ci limitiamo a indulgere sull’età del successore. Il fatto che sia stato eletto un quasi ottantenne evoca suggestioni, in particolare quanto avvenuto in Urss, quando, all’appressarsi del crollo, furono poste alla guida del Paese figure deboli, frutto di compromessi interni.

Impossibilitato a vincere con Bloomberg, lo sclerotizzato establishment (su tale sclerosi torneremo) ha accettato un compromesso con l’ala più progressista del partito, che da Sanders arriva a Obama.

Compromesso fragile, dato che tale ambito nutre per Sanders, e i suoi alleati, un’avversione analoga a quella che nutre per Trump (vedi Time). Da qui i tanti rischi di percorso per il nuovo presidente.

Non solo per la sua agenda, che nel tentativo di limitare la portata delle guerre infinite – secondo altre prospettive rispetto a quelle trumpiane – troverà contrasto durissimo. Ma anche per la tenuta stessa della presidenza, insidiata dalla “variabile” Kamala (la Vice).

Così, dopo un periodo iniziale idilliaco indispensabile per segnare il netto distacco dall’era trumpiana, per Biden si prospettano burrasche, evocate dal combinato disposto neocon-liberal.

Il tribuno della plebe lo sa perfettamente. Da qui, nel suo discorso d’addio, la richiesta ai suoi sostenitori, per nulla formale, di “pregare” per Biden.

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