Bundesbank: la Germania deve ridimensionare la propria relazione con la Cina
di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico
In un suo recentissimo rapporto, la Bundesbank sostiene che l’eccessiva dipendenza dal commercio con la Cina sta facendo vacillare il “modello di business del Paese”, già messo sotto stress dagli alti prezzi dell’energia e dalla penuria di manodopera adeguatamente qualificata. A destare particolare preoccupazione in seno all’apparato dirigenziale della Banca Centrale tedesca sono soprattutto le «crescenti tensioni geopolitiche e i rischi associati, che devono spingere le aziende e la classe politica a ripensare la struttura delle catene di approvvigionamento e l’ulteriore espansione degli investimenti diretti in Cina». La quale, con il 6% sul totale registrato nel 2022, si è classificata al terzo posto – alle spalle di Stati Uniti e Lussemburgo – nella graduatoria delle principali destinazioni degli investimenti diretti delle aziende tedesche. Una percentuale tutto sommato contenuta, ma pressoché doppia rispetto a quella registrata nel 2010, e di gran lunga più elevata in alcuni settori critici come quello automobilistico (30%). Allo stesso tempo, le importazioni dalla Cina soddisfano il fabbisogno nazionale tedesco di matrie prime, beni intermedi, beni strumentali e semilavorati nella misura del 29% e le aziende tedesche si affidano agli approvvigionamenti cinesi hanno generato il 25% tutte le vendite nel settore manifatturiero, mentre l’export verso l’ex Celeste Impero copre “appena” il 3% del valore aggiunto tedesco.
Pur essendosi affermata per ben sette anni consecutivi (dal 2015 al 2022) come principale partner commerciale della Germania, la Cina ha cominciato a ridurre sensibilmente il volume delle proprie importazioni dalla Bundesrepublik, prevalemente a causa della perdita della competitività internazionale dei prodotti industriali tedeschi dovuta alle implicazioni della recisione del legame energetico con la Russia. E per un Paese dotato di una economia così rigidamente imperniata sulla bilancia commerciale come la Germania, il contraccolpo non poteva che rivelarsi piuttosto pesante, come riconosciuto apertamente dal cancelliere Scholz che attribuisce la perdurante stagnazione alla «debolezza di alcuni dei nostri mercati di esportazione, in particolare la Cina» e confermato dalle relative stime di crescita formulate dal Fondo Monetario Internazionale per quest’anno (-0,3%).
«Gli ultimi anni – si legge all’interno del documento redatto dalla Bundesbank – hanno evidenziato il rischio che comporta per lo sviluppo economico la preservazione di una dipendenza consistente e unilaterale dalle materie prime provenienti dall’estero [...]. Occorre ridurre la dipendenza dalla Cina, soprattutto per i prodotti primari che sono molto difficili da sostituire [...]. Un’improvvisa separazione dalla Cina sarebbe probabilmente associata a interruzioni di vasta portata delle catene di approvvigionamento e della produzione in Germania, almeno nel breve termine».
Di fronte a tale prospettiva, il governo guidato da Olaf Scholz ha apportato sostanziali modifiche all’approccio mantenuto tradizionalmente dai precedenti esecutivi nei confronti della Cina, richiedendo alle imprese tedesche di ridurre la propria dipendenza dall’ex Celeste Impero. Risultato: il 40% delle aziende manifatturiere che fanno affidamento su importazioni critiche dalla Cina ha ridotto sensibilmente la propria esposizione e un altro 16% sta prendendo in considerazione di muoversi nella stessa direzione. Di contro, oltre il 40% delle aziende collocate nella medesima posizione non ha intrapreso alcuna iniziativa in proposito. Lo si evince da un sondaggio citato all’interno del documento prodotto dalla Bundesbank, in cui si raccomanda anche la definizione di nuovi accordi di libero scambio intesi a diversificare domanda e offerta in un’ottica di sganciamento graduale dalla Cina.
La peculiare relazione sino-tedesca si è strutturata nella sua forma attuale a coronamento di un lungo processo di avvicinamento avviato all’indomani del riposizionamento strategico varato da Pechino dopo la visita di Henry Kissinger del 1971. Da quel momento in poi, la Comunità Economica Europeo (Cee) si accreditò gradualmente come un “fattore di equilibrio tra le superpotenze”, la cui esigenza di materie prime trovava la sua naturale soddisfazione nell’instaurazione di un legamente strutturalmente collaborativo proprio con la Cina. Vale a dire un Paese che da solo controlla il 25-30% delle materie critiche al mondo, tra cui carbone, ferro, manganese, petrolio, uranio, bauxite, stagno, tungsteno, antimonio e terre rare.
Nel gennaio del 1975, il ministro degli Esteri cinese Chao Kuan-hua accolse a Pechino l’alto esponente della Csu Franz Josef Strauss spiegandogli che i due Paesi potevano benissimo intrecciare stretti legami di coperazione, pur mantenedo sistemi sociali profondamente diversi. Ad appena due anni di distanza, la Cee si era trasformata nel secondo partner commerciale cinese alle spalle del Giappone, e l’export tedesco valeva da solo il 50% circa del totale realizzato a livello comunitario.
La vera esplosione si verificò tuttavia a partire dalla fine degli anni ’70 per effetto del lungimirante investimento strategico effettuato dal presidente della Volkswagen Carl Hahn, che impegnatosi a sdoganare il celebre marchio tedesco sul mercato cinese sfidando la diffidenza di larghissima parte del mondo imprenditoriale occidentale. Attualmente, il 30% circa delle vendite globali della Volkswagen si realizza in Cina, che ha a sua volta preso a modello la casa automobilistica di Wolfsburg per mettere in piedi un’industria di settore dotata di una crescente competitività. La Volkswagen schiuse inoltre le porte dell’ex Celeste Impero a oltre 5.000 imprese tedesche – gran parte delle quali di medie dimensioni – che al giorno d’oggi operano in pianta stabile in territorio cinese.
Il rapporto bilaterale istituito da Berlino e Pechino ha visto per decenni l’industria tedesca rifornire la Cina di tecnologie, servizi e merci dall’elevato valore aggiunto necessarie a porre l’ex Celeste Impero nelle condizioni di scalare la gerarchia globale del valore aggiunto, e l’industria cinese esportare in Germania manufatti che richiedono processi produttivi ad alta intensità di manodopera. Il che ha consentito alla Repubblica Federale non solo di limitare la propria esposizione alla concorrenza cinese (devastante per Paesi quali gli Stati Uniti), ma anche di beneficiare della Cina senza subire spiacevoli contraccolpi. La relazione tra i due Paesi è andata consolidandosi su queste basi, ed ha registrato un notevole salto di qualità imputabile essenzialmente alla politica di graduale apertura del mercato locale e potenziamento della domanda interna portata avanti dalla Cina al termine della fase di “accumulazione primitiva” imperniata sulle esportazioni. Come ha osservato un attento osservatore della realtà tedesca: «il rapporto con l’estremo oriente si basa sulla potenza della macchina bancario-industriale: Volkswagen, Daimler, Siemens, Deutsche Bank sono i quattro cavalieri che guidano un vasto esercito di imprese medio-grandi, il cosiddetto Mittelstand. I frequenti viaggi a Pechino di Angela Merkel, accompagnata dai big dell’industria e della finanza, hanno consolidato il rapporto che si nutre anche di una ricaduta politica e strategica perché a partire dal 2008 la Cina coltiva sempre più il progetto di un rafforzamento dell’Unione Europea come potenza concorrenziale agli Stati Uniti, nuova variante dell’Europa dall’Atlantico agli Urali che piaceva a Charles de Gaulle».
In tale quadro, il documento redatto dalla Bundesbank acquisisce un significato inequivocabile, e risulta del tutto coerente con la rapida e rigorosa conformazione alla linea atlantista varata dal governo tedesco guidato da Scholz e riconfermata negli scorsi giorni dal ministro degli Esteri Annalena Baerbock, che nel corso di un’intervista rilasciata a «Bloomberg» ha invitato l’intera Unione Europea non solo a ridurre la propria dipendenza dalla Cina, ma anche ad appoggiare l’indagine avviata dalla struttura comunitaria in merito ai sussidi pubblici che il governo di Pechino è accusato di aver erogato a beneficio dei produttori cinesi. Prevedibilmente, nessuna esortazione, né da parte del presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen né tantomeno di Annalena Baerbock, è stata invece formulata a sostegno di una indagine speculare nei confronti dei sussidi pubblici previsti nei confronti delle aziende hi-tech europee disposte a rilocalizzare sul territorio statunitense ai sensi dell’Inflation Reduction Act, promulgato verso la fine dell’estate del 2022 dall’amministrazione Biden.
Dopo aver rinunciato al gas naturale a basso costo fornito dalla Russia ed incassato con sconvolgente passività il sabotaggio dei gasdotti Nord Stream-1 e Nord Stream-2, ora la classe dirigente di Berlino si appresta a demolire il secondo pilastro su cui per decenni è poggiato il modello mercantilista tedesco: la relazione con la Repubblica Popolare Cinese, in conformità con il mirabilante progetto statunitense mirante alla costruzione ex novo di catene di approvvigionamento basate su Paesi “amici” meglio noto come friendshoring.