Camilla e la città di Omelas

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Camilla e la città di Omelas

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Nel breve racconto di fantascienza intitolato “Quelli che si allontanano da Omelas” Ursula Le Guin descrive una città di fantasia, Omelas, dove tutti i cittadini vivono in pace e armonia. Non esiste la violenza, non esiste la schiavitù, non esiste la borsa valori, non esiste la pubblicità e neanche la guerra e le armi nucleari. Una società interamente orientata al perseguimento e al mantenimento della felicità collettiva.
 
Un benessere che però non deriva dalla semplicità, dall’arretratezza, dei suoi abitanti. I cittadini di Omelas, infatti, non sono dei sempliciotti, buoni selvaggi o miti utopisti. È gente ricercata che non considera la felicità qualcosa di stupido. Al contrario, la mette al centro di tutta l’organizzazione sociale. Esiste anche la religione, o meglio la spiritualità, ma certamente non il clero. L’amore è libero, tutti si accoppiano con chiunque, e la progenie di questo sesso orgiastico è amata ed educata da tutti. E c’è anche la droga, leggera ed onirica, senza effetti collaterali. La società di Omelas è pervasa da una sconfinata contentezza che unisce in comunione tutte le anime dei suoi abitanti, festeggiando l’estasi della vita.
 
Una delle poche cose che a Omelas non esiste è il rimorso. E questo per una ragione tanto orribile quanto banale.
 
In uno scantinato della città c’è una piccola stanza. Un ripostiglio di tre metri per due lercio e senza finestre. La porta è perennemente chiusa a chiave e sorvegliata. All’interno ci vive un bambino di circa dieci anni. È nudo, magro e malnutrito, il suo corpo ricoperto di piaghe purulente. Nessuno può parlare con lui, neanche per consolarlo o rivolgergli una parola gentile.
 
Tutti gli abitanti di Omelas sanno che è lì, imprigionato e condannato a vivere per sempre fra i suoi escrementi. Tutti sanno che non può uscire. Perché la perfezione della loro società, la gioia, la bellezza, l’abbondanza di cibo, la salute dipendono interamente ed esclusivamente dall’infelicità di quel bambino. Se fosse liberato tutta la felicità, la prosperità e la bellezza di Omelas scomparirebbero all’istante.
 
Queste sono le condizioni.
 
Ecco perché ad Omelas non c’è spazio per il rimorso. Se esistesse, il benessere di migliaia di persone sarebbe concretamente minacciato solo per perseguire la possibilità di rendere felice un singolo bambino. Certo, molti cittadini hanno difficoltà ad accettare questa situazione, soprattutto i più giovani. Ma non possono farci assolutamente nulla.
 
Alcuni, dopo aver visitato lo scantinato, provano un profondo senso di impotenza, ingiustizia e disgusto. E talvolta dopo quella vista sconvolgente, che stride così tanto con il mondo esterno, qualche adolescente decide di non fare ritorno a casa. Escono in strada e cominciano a camminare, sempre più lontano. Fino a lasciare Omelas senza più tornare indietro.
 
Perché vi racconto questa storia bizzarra?
 
Perché apprendere quello che in molti sospettavamo già da tempo, avere la certezza che la giovanissima Camilla è deceduta per colpa del vaccino, mi ha sconvolto. Ma ciò che mi turba ancora più profondamente (ancor più delle vergognose ricostruzioni di stampa che per settimane hanno inventato di sana pianta inesistenti patologie pregresse per provare a difendere l’indifendibile) è sapere che per moltissimi miei concittadini così non è.
 
Che, in fin dei conti, la sua morte è un evento accettabile. Null’altro che un piccolo inconveniente sulla strada del progresso scientifico e del conseguimento del benessere collettivo. Costoro, almeno ai miei occhi, sono come gli abitanti di Omelas.
Molti non si pongono minimamente il problema, accettando acriticamente come giusto il principio fondante di questa nostra nuova società. Altri magari si indignano pure, ma non si curano delle implicazioni sottese a questa torbida, drammatica vicenda.
 
Nonostante la leggerezza (?) con cui si è deciso di estendere le vaccinazioni a soggetti non a rischio, piegando le ragioni della migliore e più saggia scienza medica agli interessi delle multinazionali del farmaco. Nonostante la paura instillata quotidianamente, i ricatti e la propaganda martellante a cui sono stati sottoposti milioni di adolescenti che, di fatto, hanno condizionato le loro già labili e incomplete facoltà di libera scelta. Lasciando che le cose continuino ad andare come devono. Perché, tutto sommato, il prezzo di una giovane vita spezzata vale l’averne salvate altre decine di migliaia.
 
Ecco, io a vederla in questo modo proprio non ci riesco.
 
Quale utilità può avere un morto innocente per i vivi? Fino a che punto è possibile spingere la logica utilitarista? È moralmente accettabile un principio che, se estremizzato e applicato in modo coerente, può legittimamente giustificare trattamenti individuali in chiaro e palese contrasto con quelle norme che assumiamo come fondanti della nostra civiltà?
 
Se la risposta è sì allora si abbia la coerenza di dirsi a favore della tortura più brutale, quantomeno in quei casi in cui c’è di mezzo “la sicurezza nazionale”. E quindi la salute pubblica. Che in nome della felicità e del benessere collettivo è tollerabile discriminare, bandire o perseguitare delle sparute minoranze. Cose così. Di ammettere, quindi, che l’intera costruzione etica e morale di cui molti si fanno paladini altro non è che un mero calcolo costi/benefici. Nient’altro che una volgare questione di numeri.
 
In realtà può anche darsi che sia effettivamente così. Ma in questo caso nessuno di noi è veramente e pienamente libero. Perché se si accetta anche solo una piccola crepa nella struttura portante dei diritti dell'uomo, allora presto o tardi verrà giù l’intero edificio.
E allora non resta che fare come “quelli che che si allontanano da Omelas”. Lasciare la città e mettersi in cammino, alla ricerca di un luogo che forse neppure esiste. Il che non significa scappare. Perché chi abbandona Omelas sa perfettamente perché lo fa e verso dove è diretto. Una società più equa, fatta di uomini e donne che non fingono che i problemi complessi non esistono. E che, soprattutto, rifiutano un modello di convivenza il cui benessere collettivo si fonda sulla sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Fosse anche uno solo in favore di qualche miliardo.
 
Sarebbe questo il vero progresso.

Antonio Di Siena

Antonio Di Siena

Direttore editoriale della LAD edizioni. Avvocato, blogger e autore di "Memorandum. Una moderna tragedia greca" 

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