Carla Filosa - Dazi e democrazia

816
Carla Filosa - Dazi e democrazia

 

di Carla Filosa

13.03.2025

Dalle promesse elettorali alle ingiunzioni televisive in mondovisione, Trump ritira provvisoriamente – sembra – i dazi a Messico e Canada. Si pone il problema se sappia, anche rivolto a chi gli suggerisce o stila i suoi proclami, di cosa stia minacciando e soprattutto con quali conseguenze potrebbero avviarsi i prodromi di una guerra commerciale che non si sa contro chi alla fine potrebbe ritorcersi. Anche quotidiani Usa scrivono che una guerra sui dazi è una cosa stupida, che la vittoria non potrà essere di nessuno e che a rimetterci sarà solo il lavoro di base in ogni settore produttivo.

Le ultime notizie poi, danno per cancellati i guadagni ottenuti nel post elezioni (bitcoin), per provocate ritorsioni ai dazi del 25% imposti a Messico, Canada e del 20% a Cina, dando un via inflazionistico dagli esiti incerti, proprio negli Usa. La motivazione eufemisticamente “fittizia”, addotta all’imposizione dei dazi, riguarderebbe il flusso di fentanyl che questi Paesi inviano negli Stati Uniti, cui farebbe seguito l’attacco protezionista provocando un’ulteriore ritorsione senza più fine. L’avvio di questa guerra commerciale, per primo solo con l’alleato canadese, ricorda la favola del lupo e dell’agnello di antica saggezza, nel coraggioso belato di Trudeau per non diventare “mai” il 51° Stato americano.

Il crollo delle borse e il prezzo dei bitcoin che avrebbe dovuto creare una “riserva strategica” di criptovalute negli Usa, segnano un primo risvolto alle risoluzioni di Trump, cui si affiancano i guai alla Tesla e a quelli possibili dei robotaxi e robot del futuro non ancora pronti di E. Musk. Se negli ultimi cinque mesi, in Cina – il più grande mercato del mondo – le vendite delle auto con la T sul cofano sono crollate, come pure la quota di mercato di Tesla in Cina al di sotto del 5%, la cinese BYD di Shenzhen vende a più del 161%.

 Per quanto poi concerne l’impatto che le tariffe doganali al 25% in più si avrebbero in Italia dopo il 2 aprile, i settori più colpiti potrebbero essere vini, auto di lusso, yacht e moto, farmaci e componenti elettronici con un costo tra 4 e 7 miliardi di euro (calcolo di Prometeia, istituto di previsioni economiche). Von der Leyen ha già prestabilito un rientro di 26 miliardi di euro in risposta ai dazi Usa stimati intorno ai 28 miliardi di $, in pieno accoglimento della legge del taglione risalente al diritto del codice di Hammurabi del 18° a. C. A tale diritto ricorrono tutti gli Stati colpiti, a cominciare dalla Cina, per far valere, però, più di 40 secoli dopo, un potere commerciale di capitali di non facile demolizione, secondo la concezione marxiana dei “fratelli nemici”, ora tutti interni al processo di centralizzazione del comando finanziario e del decentramento operativo nelle filiere produttive transnazionali.

 Questi pochi elementi indicativi servono come traccia di una fase presente in cui la conflittualità strutturale interna al mercato mondiale si mostra senza più veli nella minaccia politica e militare dell’egemonia statunitense, incapace di accettarsi nel declino storico in cui versa irreversibilmente, data anche la possibilità di recessione economica prevista da alcuni analisti. Proprio per contrastare questa eventualità vengono “invitati” a investire capitali negli Usa, potendo così evitare il rischio di ulteriori dazi. Una prima adesione sarebbe pervenuta dalla taiwanese Tsmc (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company) con 100 miliardi di $ in Arizona, da Stellantis al momento con 5 miliardi di $ in Illinois, Detroit, Ohio, Indiana; forse anche Pirelli, Bmw, Siemens, Volkswagen, Nissan, Samsung, Lg, Honda. “America is back”, grintosamente affermato all’ultimo Congresso Usa, non è altro che l’obiettivo di carpire investimenti che possano rimpinguare la manifattura e diminuire il disavanzo commerciale di questo Paese, non essendo più sufficiente l’estorsione di plusvalore dai paesi più poveri mediante la superiorità monetaria come riserva a livello globale.

Trump prova invece con il ricatto commercial/militare nei confronti dei Paesi confinanti, Europa e Cina, ovvero “alleati” e massimo competitor. Agevolazioni fiscali, aiuti di stato e sussidi promessi sono fonte di persuasione ottimale per profitti – non però cinesi, da bloccare per via legale in settori tecnologici, energetici, sanitari, ecc. - che possono così scantonare la tendenza al ribasso mondiale del tasso di profitto (cioè la massa stessa rapportata al capitale anticipato), dovuto al permanere della crisi di cui non s’ha da parlare. Infatti le cause di questa impasse risalgono a fenomeni economici non già isolati, ma a uno stravolgimento dell’intero mercato mondiale, in cui “si scatena il conflitto di tutti gli elementi della produzione borghese”. E la successione delle fasi della crisi è determinata da inflazione, recessione e ricostituzione dell’esercito industriale di riserva, con la crisi di lavoro, poi stagnazione e ristruttura­zione dei cicli produttivi a livello internazionale con nuova divisione internazio­nale del lavoro, flessibilizzazione delle forme di lavoro e salario (cui piegare la sindacalizzazione esistente o proprio eliminarla), rivoluzione industriale dell’auto­mazione del controllo (tecnologia telematica), centralizzazione fi­nanziaria e fase speculativa monetaria. Le conseguenze sul piano sociale e istituzionale sono infine la polarizzazione di clas­se e l’accentramento del potere politico.

 

Qual è in tutto ciò la consapevolezza o, se si vuole, il dibattito in Europa rispetto al mutamento – peraltro annunciato – dell’ex amico americano? La svolta destrorsa in Usa e in Europa sembra la colpevole di un Patto Atlantico in ritiro, sentiamo parlare di tradimento, di abbandono al pericolo, alla disillusione della democrazia, alla perdita dei “valori” europei, alla fine dello stato di diritto, del diritto internazionale in primis, e così via lamentando. Putin è ora identificato nel nuovo Hitler, probabile invasore del territorio europeo, non è chiaro da dove e perché, ma, come mostro di turno, richiede un sicuro “riarmo” magari anche nucleare, nell’incertezza del che fare alla svelta. Senza dilungarsi oltremodo sulle doléances mainstream che promettono profitti mirati alle lobbies delle armi e a tutte le filiere di forniture connesse, inserite nella concatenazione transnazionale della nuova divisione del lavoro, cerchiamo di mettere a fuoco l’ideologia con cui la cosiddetta Europa – 27 frammenti di un’unità politica mai conseguita – si è trastullata con un termine di superficie come “democrazia” senza mai approfondire un significato reale di un concetto nemmeno mai sfiorato.

Caduti nella trappola dello stato liberale come stato di diritto, si è dato credito ai nuovi regolatori mondiali dell’interesse, gabellato per “interesse di tutti” o “bene comune”, finalizzato a neutralizzare ogni dissenso all’ordine del capitale. “Democrazia” è diventata un’ipostasi, un’incarnazione di un ipotetico potere suddiviso e pattizio di convivenza di classi sociali contrapposte, ma unite pacificamente col consenso elettorale negli obiettivi governati entro confini statuali. Siffatta narrazione ideologica ha cancellato ogni capacità di comprendere i fini imperialistici denunciati da Lenin, entro cui invece la democrazia avrebbe dovuto solo facilitare la lotta per l’emancipazione del lavoro salariato, come capacità ed entità conflittuale che è possibile perseguire di volta in volta come esercizio del potere della classe lavoratrice. Il primo passo per il proletariato avrebbe dovuto essere la conquista della democrazia in quanto conquista del potere politico come si evince dal Manifesto di Marx: come un programma di alleanze e non di guerra alla borghesia (dopo il ‘48), il cui fine è riposto nel progressivo avanzare di un potere che poco a poco avrebbe strappato alla borghesia tutto il capitale.

 Il possesso e controllo di tutti i mezzi di informazione di massa, da parte degli agenti attivi delle leggi capitalistiche, ha puntato invece ad eliminare il conflitto da tutte le rappresentazioni teoriche e pratiche (sindacato, partiti, cultura, ecc.), non potendo intaccarne la realtà della trasformazione epocale in direzione dispotica. Questa tendenza ormai visibile nella dittatura incalzante di un esecutivo super partes ha squarciato i veli ideologici di una democrazia a tempo determinato, in cui il rapporto di sfruttamento lavorativo frantumato non ha più difese nemmeno da parte di un sindacato sopravvissuto solo per pilotarne l’impotenza sociale.

La rivendicazione democratica di cui l’Europa vorrebbe rivestirsi, soprattutto nel dibattito italiano del momento, innalza i propri cosiddetti “valori” al rango di una teoria ideologica che si sedimenta in istituzioni e orientamento della prassi sociale verso un mondo di fratellanza, dimentico di poggiare su una struttura che ha trasformato il denaro in capitale, cioè l’appropriazione forzata di ricchezza socialmente prodotta in ricchezza che inspiegabilmente auto-incrementa sé stessa nella sua progressiva sottrazione al sociale. Le disuguaglianze sociali verbalmente esecrate sono in realtà proprio presupposte e rinnovate dalle “libertà del mercato”, che i nostri “valori” sostengono. Amplificazione e garanzia dei processi di accumulazione – che la “democrazia per antonomasia” diretta ora dal duo Trump-Musk dovrebbe rinverdire – non si prestano al rispetto di diritti internazionali o umani che siano, mentre richiedono l’attacco al cosiddetto stato sociale ovvero l’oblio dei diritti sociali conquistati nelle lotte del movimento operaio, lo svuotamento giuridico, l’introiezione contrattuale dei rapporti di forza cogenti.

La “democrazia” di cui l’Europa vorrebbe fregiarsi è perciò quella che è stata capace di minare il suffragio universale nella sapiente deviazione e autoesclusione del voto. La progressiva marginalizzazione lavorativa ed esistenziale delle masse atomizzate, i cui livelli coscienziali possono ora essere controllati anche tecnologicamente, oltre che per mezzo di pressioni e corruzioni governative, la relegano legalmente a rimanere costante minoranza rappresentata. La pratica “occidentale” della democrazia ha consentito la formazione paradossale, come maggioranza, di un ceto politico professionale e autoreferenziale di partiti dei grandi gruppi industriali, che hanno diretto con la coercizione del consenso stampa e sindacati all’integrazione al sistema, verso politiche imperialistiche sempre mimetizzate.

“Democrazia” in Italia ha inoltre significato omertà su tutte le stragi a cominciare da Portella della Ginestra del ’48 fino a quella di Borsellino nel ‘92, tutte rimaste senza mandanti riconoscibili ma esplicitamente contro l’attuazione di una Costituzione scomoda per un potere statale libero – come ultimamente questo governo rivendica apertamente in termini di arbitrio incontrollabile – di negare istanze sociali egualitarie o ricorso alla legge, invece che alla forza. Siffatta omertà ha avuto il compito di far ignorare alle masse che dietro le stragi si nascondevano i piani di Kissinger e Trilateral, che temevano una possibile “instabilità politica” da contrastare con l’uso della forza militare nell’orto privatizzato dell’Occidente. Colpito il sindacato principalmente, si colpivano gli obiettivi egualitari che sarebbero stati dismessi nei contratti del ’72—’73, poi a seguire fino alla costruzione della sconfitta lavorativa maturata nella cosiddetta “democrazia economica”.

Da ricordare, inoltre, che la spinta storica alla democrazia venne dalle barricate della rivoluzione francese “ma i beneficiari furono i benestanti”[1]. Se un inizio può sembrare così lontano nel tempo non dev’essere sottovalutato sul piano concettuale dato che all’indomani della I° guerra mondiale l’intervento americano, esterno all’Europa, funzionò da nuova stabilizzazione antirivoluzionaria e contemporaneamente da realizzazione di un mercato privilegiato tra le due sponde dell’Atlantico. L’imperialismo Usa di allora riuscì a vanificare l’estensione possibile della rivoluzione russa in Germania, poi nel resto d’Europa, che sembrava un governo già quasi pronto. Il lato “benefico” degli Usa, espresso subito dal Piano Dawes (1923) e successivamente anche dal Piano Marshall (1948-1952), ha così potuto inglobare l’Europa belligerante in un Occidente pacificato anche politicamente, ma alleato/suddito da occupare con centinaia di basi militari come deterrenza nei confronti di un’Urss, contro cui avviare la cosiddetta guerra fredda, in cui l’Europa democratizzata non poteva che concordare. Terminata la divisione del mercato mondiale con il crollo dell’Urss, la formazione del mercato unificato ha introdotto le nuove contraddizioni di un’accumulazione in crisi irreversibile, e quindi di un’impossibilità di mantenere la facciata democratica insostenibile con la necessità di rapina di plusvalore a qualunque costo. I “valori” con cui l’Europa vorrebbe innalzare la sua superiore civiltà rispetto alla brutalità della guerra e della politica imperialista, vengono meno nell’alveo di un imperialismo che si scopre finora succube e inferiore a quelli finora egemoni a livello mondiale. La nostra ideologia preconfezionata per un mercato ancora insaturo è diventata ormai obsoleta. Se il conflitto tra capitali dovesse ridiventare solo o principalmente confronto armato, non è escluso che quello con il lavoro momentaneamente sopito possa riaprirsi in modo anch’esso irreversibile, in alleanza con le leggi della natura sul mutamento climatico, che l’imperialismo deve tuttora ignorare per sopravvivere.

 

 

[1] L. Canfora. La Democrazia. Laterza, Bari, 2023.

ATTENZIONE!

Abbiamo poco tempo per reagire alla dittatura degli algoritmi.
La censura imposta a l'AntiDiplomatico lede un tuo diritto fondamentale.
Rivendica una vera informazione pluralista.
Partecipa alla nostra Lunga Marcia.

oppure effettua una donazione

Trump-Zelensky, leggere la realtà di Marco Bonsanto Trump-Zelensky, leggere la realtà

Trump-Zelensky, leggere la realtà

Dove eravate quando Schauble umiliava la Grecia? di Paolo Desogus Dove eravate quando Schauble umiliava la Grecia?

Dove eravate quando Schauble umiliava la Grecia?

Trump, la UE e il grande affare sulla pelle dei migranti di Geraldina Colotti Trump, la UE e il grande affare sulla pelle dei migranti

Trump, la UE e il grande affare sulla pelle dei migranti

Israele, la nuova frontiera del terrorismo di Clara Statello Israele, la nuova frontiera del terrorismo

Israele, la nuova frontiera del terrorismo

La retorica "no border" e Salvini: due facce dello stesso imperialismo di Leonardo Sinigaglia La retorica "no border" e Salvini: due facce dello stesso imperialismo

La retorica "no border" e Salvini: due facce dello stesso imperialismo

Presidenti con l'elmetto di Giuseppe Giannini Presidenti con l'elmetto

Presidenti con l'elmetto

"Il crollo": dal G8 di Genova al riarmo europeo 2025 di Michelangelo Severgnini "Il crollo": dal G8 di Genova al riarmo europeo 2025

"Il crollo": dal G8 di Genova al riarmo europeo 2025

La California verso la secessione dagli Stati Uniti? di Paolo Arigotti La California verso la secessione dagli Stati Uniti?

La California verso la secessione dagli Stati Uniti?

La vergogna di 800 miliardi di euro sprecati in armi di Michele Blanco La vergogna di 800 miliardi di euro sprecati in armi

La vergogna di 800 miliardi di euro sprecati in armi

Il 15 marzo alla larga dai "NO PAX" di Giorgio Cremaschi Il 15 marzo alla larga dai "NO PAX"

Il 15 marzo alla larga dai "NO PAX"

Registrati alla nostra newsletter

Iscriviti alla newsletter per ricevere tutti i nostri aggiornamenti