Carla Filosa - Dazi e Stato

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Carla Filosa - Dazi e Stato

 

di Carla Filosa

I 10, 12 o più miliardi, non è ancora definita la cifra, stanziati da Meloni a beneficio di imprese colpite dai dazi trumpiani, non è un meccanismo dell’oggi sebbene con uno storno dal PNRR che ne confermerebbe l’attualità, ma riprende un vecchissimo ruolo di subalternità dello Stato. Addirittura della “superstizione dello Stato” cominciano a parlarne Marx ed Engels nell’Ideologia tedesca (1846) e in Feuerbach (I, 4):

“lo stato moderno, attraverso le imposte è stato a poco a poco conquistato dai detentori della proprietà privata, e attraverso il sistema del debito pubblico è caduto interamente nelle loro mani”. Senza risalire così indietro, ricordiamo anche l’introduzione, con Ronald Reagan negli anni ’80 del secolo scorso, della “deregolamentazione” che ufficialmente dette l’avvio all’assalto liberista dello stato attraverso le cosiddette “privatizzazioni”.

Fu quello l’atto vincente, cioè, di devolvere a fini privati quanto era definibile come “pubblico”, e pertanto sottrarre a quanto era di pubblico una gestione privata estranea alla organizzazione della società civile. Lo slogan allora coniato fu “meno-stato-più-mercato”, che rinviava all’astrazione generica dei termini una concretezza specifica da nascondere alle masse. Nel mutamento della spesa pubblica che si avviava, si riservavano i risparmi ottenuti dalla cancellazione dei servizi sociali a vantaggio di privati, che così fornivano di senso il “meno-stato-sociale” con un “più-mercato” di cui beneficiava solo il “più-stato-finanziario”, quasi sempre obliterato dietro lo schermo di un’appartenenza nazionale.

Ritornando all’oggi, per evitare il divieto europeo di aiuti di Stato, la Presidente del Consiglio prova a usare i fondi del PNRR per rifondere gli ammanchi di profitti dovuti ai dazi trumpiani.

In una situazione assolutamente diversa, il meccanismo rimane identico. Le imprese sono sempre capitale su base europea, non importa se italiane o meno, pur sempre privati cui preservare una priorità sulle destinazioni sociali di denaro pubblico, nella solita distribuzione sperequata delle risorse. La “guerra commerciale” tra Stati, intrapresa dagli Usa nel tentativo di risalire dall’abisso del disavanzo di Stato (38 trilioni di dollari da rinegoziare nei prossimi 4 anni, per cui quest’anno deve tener bassi i tassi d’interesse) e dal debito privato è anch’esso un uso privatizzato dei poteri dello Stato a discapito dei cittadini lavoratori/consumatori del mondo daziato, o di quel menostatosociale, abbandonato all’inflazione in agguato.

Fermo restando il salario nominale, verrà decurtata un’ulteriore quota del salario globale di classe, mediante l’abbassamento della capacità d’acquisto del salario reale, la fatiscenza galoppante dei servizi sociali e la diminuzione o proprio l’eliminazione pensionistica, con la dilazione sine die del tfr, seppure previsto. Una modalità, si potrebbe dire di warfare contro welfare, pe dirla secondo l’idioma Usa-dominante.  

Ancora una volta, quindi, potremmo tutti osservare la crisi imperialistica dell’accumulazione che si risolve in crisi di lavoro, che colpisce tutte le masse spogliate finanche della rivendicazione di ogni diritto civile e sociale, proprio nell’attuale governo statunitense, campione nell’esproprio democratico della partecipazione politica sostanziale, apprestata da tempo e in sordina. I diritti di immigrati catalogabili solo come “illegali”, di lgbt+ o di chi protesta, sciopera, ecc., indifferentemente accomunati nel mucchio dei “diversi”, legittimano la tirannia dei capitali su base Usa nell’arbitrario decisionismo a favore di ciò che è loro utile.

Il cosiddetto “stato sociale”, costruito invece in Europa nelle conquiste parziali della lotta di classe del proletariato e dei suoi alleati, è da tempo soggetto a una costante minimizzazione, che procede nella programmatica retrocessione di quelle conquiste di fronte alla crisi economica. Dato che la perenne preoccupazione dominante è rivolta alla crisi democratica in cui si situa il conflitto sociale, il potere politico controlla comunque che l’emancipazione politica  delle classi subalterne non avanzi in emancipazione sociale, altrimenti è pronto a retrocedere dalla restaurazione sociale a quella politica.

La “democrazia politica” che si mostra in forma pubblica appare quindi come la forma più libera dell’oppressione di classe e della lotta di classe, per cui “il capitale finanziario, nei suoi [reiterati] tentativi espansionistici, comprerà e corromperà liberamente il più libero dei governi democratici e repubblicani e i funzionari elettivi di qualsiasi paese” (Lenin).

Per l’imposizione daziaria Usa del momento, secondo uno stile mafioso del tutto speculare all’assenza di lotte sociali e già riconosciuto come tale a livello internazionale, vale la pena ricordare che la vendita di servizi da settori privati dovrebbe essere fornita a prezzi compatibili con i nostri bisogni sociali, che bisognerebbe perciò tutelare mediante un controllo comune di massa a difesa soprattutto dei redditi più bassi. Ma qui si apre un baratro italiano, e forse non solo, di un’opposizione governativa inesistente, di un’assenza di guida per le masse, di un’immaturità politica e sociale di una popolazione resa amorfa o affetta da un fascismo secolare e strisciante che, secondo le illuminate parole di Gobetti (1922), resta pur sempre “l’autobiografia della nazione”.

La svolta che il governo Usa intende impersonare nell’autodefinizione rappresentativa di “conservazione”, sarebbe più chiara se si denominasse invece come reazione in tutto l’Occidente riunendosi all’approdo reaganiano-thatcheriano anni ‘80, secondo il detto the winner takes all. Chi vince le elezioni è super partes, al di sopra della legge, risuona infatti egualmente corrisposto nelle quotidiane esternazioni del governo Meloni (eguale attacco alla magistratura e al dissenso politico, e poi qui arbitrio per spionaggio occulto, trasformazione in decreto sicurezza del disegno di legge, ecc.).

Se poi il dollaro, per avanzare nella sua invadenza sul mercato mondiale sarà costretto ad aggredire i mercati esteri tramite tariffe doganali, manovre sul corso dei cambi, a sottovalutarsi rispetto all’euro o ad altre monete, sanzioni, o altro ancora, continuerà sotto questa forma a raschiare plusvalore altrui, fidando in una forza militare pronta a sostituire l’autorità dell’imperio, se ce ne fosse bisogno, e che in ogni modo si presenta come reale minaccia ai nemici o bluff da servire ai propri vassalli. La ricorrenza delle crisi di capitale – ha insegnato Marx - con ripresa del­l’accumulazione o con ulteriore ma ravvicinato e nuovo periodo di stagnazione, mostra una loro stretta connessione nel succedersi del loro divenire causale, in tempi di diversa durata e frequenza.

Alla guerra commerciale intrapresa, che ora sembra concentrarsi maggiormente nei confronti della Cina, bisogna aggiungere ancora quella tecnologica soprattutto dopo l’apparizione di deepseek, con un motore meno inquinante di provenienza cinese, e quella contro il mutamento climatico, in modo da gestire o al solito legittimare in politica estera la conflittualità interna di cui non si ama far menzione.

La volgarità e l’arroganza dei linguaggi espressi, infine, non sono che spostamento d’attenzione per le chiacchiere degli impotenti, mentre i lavoratori-utenti che pagheranno i costi di questo scontro all’“Ok Corrall”, magari proprio quelli sconfitti dalla cosiddetta globalizzazione e che hanno votato l’oligarchia miliardaria ora al potere, non vedranno più assaltare Capitol Hill,  perché troppo occupati nelle nuove catene di montaggio dell’impoverimento dell’unica programmazione di cui il capitale è costantemente capace.

 

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