Carla Filosa - “LIBERTÀ” FASCISTA
“Libertà va cercando, ch’è si cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.”
Dante Alighieri, Purg. I, vv.71-72.
Dal Data Room di Gabanelli – Battistini del 9 dicembre sulla TV 7, abbiamo appreso che esponenti destrorsi di varie nazionalità e caratteristiche si ergono a paladini della “libertà” - sans phrase si può aggiungere - contro “comunisti progressisti e sinistra che ucciderebbero le libertà individuali” (M. Le Pen a Pontida).
Dal florilegio raccolto riportiamo: le “toghe e zecche rosse” di Salvini; l’estrema destra austriaca che punta al cancellierato ritiene di dover “uccidere il comunismo climatico” (kill climate communist”); Orban che afferma che “non ci sono liberali, solo comunisti col diploma” (There are no liberals, only communists with university degrees); l’olandese Wilders, dopo l’abbraccio a Netanyahu, sostiene che “bisogna tutelare la libertà di parola di coloro che dicono la verità e sono odiati per questo”; ancora Salvini “In Europa siamo ormai alla censura, alla puzza di regime, viva la libertà di parola e di pensiero. Chi sarà il prossimo a essere imbavagliato?” (riferito all’arresto di Pavel Durov, fondatore di Telegram, su cui gravano accuse di transazioni illecite, l’app di messaggistica sarebbe facilitatore di attività criminali!). Di rinforzo Meloni “In questi anni l’Europa ha messo in atto una limitazione di libertà degli stati nazionali da cui si deve tornare indietro”; Trump dalla Pennsylvania “Forze oscure vogliono toglierci la libertà e io sono l’unico ostacolo”. Tutte posizioni di leaders che poi altrove condividono espulsione di masse immigrate, negazione del cambiamento climatico, lotta al green deal, alla Ue, al “politicamente corretto”, al sistema giustizia, all’autonomia della stampa, attuando una variegata repressione nei confronti degli oppositori.
Nel rovesciamento della realtà di siffatte perle di efficacia comunicativa a beneficio di un elettorato fidelizzato e senza idee, emerge il semplicismo manipolatorio di chi usa il termine libertà come contenitore vuoto, valido per tutti gli usi, indiscriminatamente appropriabile. Libertà di chi e per chi è fondamentale, se si capisce l’orizzonte opposto del suo significato e della sua pratica: se “il pensiero e la parola” sono espressione del potere o di chi ne è privo, ci si trova di fronte alla possibilità dell’arbitrio o, al contrario, alla necessità della difesa, all’autocrazia/autonomia o, al contrario, alla dipendenza, alla sovranità o, al contrario, alla subalternità o sudditanza. Qui, con ogni evidenza, si tratta della libertà unica del capitale, coperto dallo stato anche di questo governo, di produrre e distribuire in funzione dei profitti e della sua riproduzione, a spese dell’umanità tutta.
La libertà fin qui invocata, infatti, è quella “libertà liberale contraria alla libertà per tutti” - di cui parlava Gramsci - in opposizione al perseguimento dell’uguaglianza sociale, cioè senza perseverare nel pensiero, nella volontà di capire quali forze effettive e quali fini si nascondono sempre dietro la politica. Nella carrellata di ipocrisie e interessi di parte padronale di cui sopra, quindi, svetta l’assenza di una libertà concepita come coscienza della necessità di adesione al reale, a ciò che viviamo, che si salda infine al concetto di egemonia, come garanzia di democrazia sostanziale a partire da quella economica, quale infine “governo delle differenze” in cui riconoscere l’esistenza della conflittualità sociale, mantenuta però in un equilibrio possibile di convivenza sociale. E per motivare la citazione dell’occhiello, la libertà che si sta cercando non è proprio quella morale di Dante, sì cara agli animi nobili, né quella di Catone, (suicida in Utica nel 46 a. C., repubblicano e difensore della libertà romana, per non sopravvivere alla rovina della libertà minacciata da Cesare) pagano e campione delle virtù civili, ma ora innalzato a degno custode del cristiano Purgatorio dantesco.
Abbandonando la nobiltà d’animo e Gramsci dai livelli troppo elevati per l’accolita di cui ci si deve occupare, ritorniamo alla libertà sbandierata da questa destra di nuovo alla ribalta, le cui armi ideologiche e pratiche sono meno rozze di quelle del fascismo storico, ma pur sempre di stampo fascista nei moderni obiettivi funzionali al sistema di capitale, al cui servizio sono sempre rimaste. Tali armi attualmente saltano agli occhi se solo si analizza attentamente il ddl 1660 detto Sicurezza - approvato già alla Camera e ora al vaglio del Senato - e di cui possiamo apprezzare alcune applicazioni concrete delle “libertà” di cui i nostri nuovi fascisti al potere vorrebbero farci godere. Parlare di sicurezza, da parte dei governi in genere, è bene subito chiarire che non si tratta della sicurezza sociale relativa a gran parte del lavoro dipendente e per lo più manuale, ma alla stabilità delle èlites al potere. Il numero quotidiano dei morti sul lavoro, e continuamente in aumento, testimonia infatti dell’indisponibilità padronale ai costi da sostenere per tutelare la vita di lavoratori, abbandonata pertanto alla casualità costante del pericolo.
Decisiva la lettura competente della professoressa Nadia Urbinati[1], di cui si intende qui riportare alcuni punti con una parziale sintesi, e soprattutto l’obiettivo auspicato di diffonderne l’informazione per far abrogare il programmato attacco alle libertà costituzionali, con gli strumenti della denuncia sociale fino alla richiesta referendaria se necessaria. Senza dover citare la stesura dei singoli articoli per questione di brevità, enucleiamo le tematiche di maggior rilievo liberticida, prima fra tutte l’aspirazione a demolire lo stato di diritto per l’esercizio arbitrario del potere da demandare all’esecutivo, nella negazione di fatto, anche se non nominale, della separazione dei poteri e dei princìpi costituzionali di eguaglianza sociale. L’intento di questo disegno di legge è di porsi al di sopra della legge, utilizzando all’opposto quello che l’espressione anglosassone “the rule of law” indica (letteralmente “l’imperio del diritto”, cui anche il potere pubblico è sottomesso), nel senso che la legge che governa esenterebbe premier e camerati dall’esserne soggetti. Il modello di riferimento è quello del Re Sole, Louis XIV, il cui motto era “l’État c’est moi”, identificando cioè persona, legge e stato nel diritto al proprio incontrastabile arbitrio.
Se quindi, secondo il ddl, il ministro dell’interno avesse facoltà di decidere: a) sull’eliminazione, e conseguente criminalizzazione, del soccorso in mare, con multe e/o revoca della licenza di navigazione, limitando il transito o la sosta in acque territoriali per motivi di ordine pubblico, b) sull’impedimento al possesso della sim per gli immigrati “irregolari”, dal destino così predeterminato da dover essere repressi finanche nelle eventuali proteste nei CPR, c) sui finanziamenti per i rimpatri e l’estensione di potere delle forze di polizia, è ovvio che si prefigurerebbe uno stato di polizia attuabile a breve. Ma questa soluzione implicherebbe il mutamento della Costituzione, obiettivo infatti in esame ma non scontato da raggiungere. L’escamotage per ora escogitato è quello di riferirsi ad un supposto reato di favoreggiamento dell’immigrazione “clandestina”, che dovrebbe essere accertato da parte di una Procura, le cui basi di indagine sarebbero così complesse da favorire però le facilitate vie amministrative di blocchi navali e di soccorsi.
Per quanto concerne poi il cosiddetto “ordine pubblico” il ddl avvia un datato concetto da stato d’emergenza (risalente alla memoria di Carl Schmitt, politologo giurista in odore di nazismo) per cui i propri cittadini vengono considerati come nemici. Tra questi è chiaramente irriconoscibile la componente di classe, nonostante sia il vero target da colpire in quanto più esposta ai nuovi reati di devastazione, saccheggio e danneggiamento possibili – magari per infiltrazioni di manovalanza organizzata di contrasto - entro manifestazioni o cortei di dissenso da sottrarre alla via della violazione amministrativa e trasformarla in reato penale. Ogni resistenza attiva o passiva di opposizione alle forze dell’ordine, diventerebbe reato perseguibile, come pure organizzare manifestazioni non autorizzate in cui possono accadere danneggiamenti imprevedibili, cancellando così la responsabilità penale personale. Ciò che è già accaduto con la manifestazione pro-Palestina dell’8 novembre scorso, prontamente non autorizzata per supposte opportunità politiche, in cui è avvenuta la schedatura e l’identificazione dei presenti soggetti ad accuse di reato, secondo l’intimidazione riservata al dissenso politico sul genocidio in atto, avallato nei fatti dalla fornitura continua italiana di armi al governo israeliano.
La trasformazione da illecito amministrativo in illecito penale si evidenzia particolarmente nell’articolo 14 del ddl in cui si prospetta la reclusione da 6 mesi a 2 anni per chi manifesta con occupazione di strade o ferrovie, con le aggravanti di eventuali danneggiamenti; nell’articolo 10 per occupazione arbitraria di immobile; nel 26 per rivolta in carcere e resistenza passiva a pubblico ufficiale, ecc. Tali norme dovranno passare al vaglio della Corte Costituzionale, per palesi contraddizioni con gli articoli 3, 13, 27 della Costituzione.
Intanto possiamo identificare lo spirito nero di questo ddl: l’attacco di classe contro poveri, emarginati, minoranze (rom, detenuti, stranieri, attivisti dissenzienti, ecc.), trasformando in reato perfino la rivolta con 10/20 anni di carcere. Palese è l’uso del codice Rocco degli anni trenta o dei sessanta del governo Scelba-Tambroni, che resta tuttora in vigore. Sotteso in tutti gli articoli, quindi, è l’obiettivo di modifica della mentalità democratica ormai generalizzata dopo il’45, nel resuscitato menefreghismo sociale degli individui sotto il fascismo nel non doversi occupare di politica, di questioni sociali, di farsi i fatti propri, del “tengo famiglia” di chiara memoria, se non si vuole incorrere in guai con la “giustizia”, quella di regime. Questo ddl sembra costituire un avvertimento: a stabilire libertà e reati è il governo, e questo si identifica con lo stato. La libertà di opinione e espressione viene soppressa in quasi tutti gli articoli, avvalorata dal concreto episodio del prof. Raimo, in cui un dipendente pubblico che al di fuori del suo ruolo esprime le proprie opinioni contro un ministro, nella fattispecie Valditara, può essere arbitrariamente sospeso e sanzionato con la decurtazione del 50% dello stipendio, come se l’estensione degli obblighi professionali si applicasse a tutto l’arco di vita. Il caso esemplare, in tale ottica, servirà a radicalizzati simili di sentirsi permanentemente sotto controllo, potenzialmente repressi nell’espressione sociale di idee sgradite e invise al dominio di turno.
La legittimazione di queste forme repressive introduce una strategia di persecuzione generale, da intendere come “ordine per il bene di tutti”, mentre si attua nella legalizzazione l’ideologia dell’arbitrio che controlla, sorveglia e punisce coloro che non rispettano “la legge”. Ma questa non è la “civil law”, una legge ordinaria, bensì la “rule of law”, ovvero lo “stato di diritto” divenuto così stato autoritario, o, com’era una volta assoluto, letteralmente da ab-solutus, sciolto da ogni limitazione, sovrano. In altri termini, lo stato autoritario rende non più visibile la repressione preordinata, ma la camuffa come risvolto legale, quindi inoppugnabile, di chi non si rassegna alla passivizzazione indotta. Una società ridotta al silenzio, domata in questa forma indiretta è il filo nero che unisce tutti gli articoli del ddl, se non si continuerà a lottare uniti contro questo “fascismo che c’è” – come già detto nel film (di Lino Micciché, Lino Del Fra e Cecilia Mangini) “All’armi, siam fascisti!”, dal testo di Franco Fortini nel 1962.
Carla Filosa
[1][1] Nadia Urbinati, politologa, docente alla Columbia University.