Carla Filosa - Mercati di armi: perché la spesa militare non produce ma sottrae

1397
Carla Filosa - Mercati di armi: perché la spesa militare non produce ma sottrae

 

di Carla Filosa

In una notizia apparsa su Avvenire del 30 marzo scorso apprendiamo che in 34 paesi si vendono droni e prodotti bellici da parte di un mega-esportatore turco di nome Baykar. Dopo aver rifornito l’Africa, ora questa azienda punta a conquistare i nuovi mercati di America Latina, Ue e Nato. La Turchia, oltre ad essere il secondo esercito Nato in ordine di importanza, sembra quindi essere il 4° fornitore bellico in Paesi africani (Somalia, Etiopia, Nigeria, Togo, Burkina Faso, Libia, Mali, Marocco), oltre l’Ucraina, secondo le affermazioni del ministro degli Esteri Hakan Fidan. Si tratta di piattaforme economiche e funzionali alla ricognizione, alla sorveglianza, all’intelligence e ai bombardamenti di precisione.

Si vendono bene anche blindati, forieri di una quota non indifferente di trasferimenti turco-continentali. Il Sipri poi (Istituto svedese di studi sulla pace) certifica che tra il 2020 e il 2024 il traffico delle armi è diminuito nel continente africano e aumentato in quello americano. Anche la Russia vende armi in Africa (21%), la Cina (18%), gli Usa (16%). Al momento sembrano mancare gli importanti contratti algerini e marocchini che potranno di nuovo riprendere al riattivarsi di dinamiche golpiste, insurrezionali e interessi neocoloniali cui vengono in soccorso aziende cinesi, francesi turche e russe, con priorità a scemare. La Russia vende jet ad Algeria, Mali, Burkina Faso e Niger. La Cina rifornisce Ecuador, Bolivia e Venezuela di servizi satellitari e tiene rapporti d’intelligence con Cuba. Il Brasile per ora si rifornisce in Europa. Come si evince chiaramente, i Paesi più forti in senso imperialistico gestiscono il monopolio dei mercati mondiali in espansione degli armamenti, avendone continuamente attiva la ricerca innovativa e pertanto competitiva come per ogni altra merce.

Il quadro, sicuramente ora riferito per difetto, mostra la florida stagione per l’industria bellica e fornirebbe ottime ragioni al progetto di “riarmo” europeo, nonostante qui si riscontri una sensibilità per la parola da mutare in un eufemismo di ipocrisia più gradita, che ne cancelli preventivamente un fermo rifiuto, da parte di masse indisposte a barattare una sorta di benessere raggiunto con avventure suprematiste aborrite. “Difesa” sembra già meglio, ma 800 miliardi sono un ostacolo apparentemente insormontabile.

Mentre l’informazione che conta offre solo scontri politici tra posizioni nazionali ed europee inconciliabili per varietà numerica, la cosiddetta gente comune viene costretta a non capire di che cosa si stia parlando, cioè di quali interessi reali si stia avallando la priorità rispetto alle esigenze vitali di popolazioni non solo di casa propria, ma di quelle anche più lontane di tutto il mondo. Intanto si incrementa la diffusione di paure verso un futuro distruttivo da presentire come prossimo, si profilano minacce di chiamata alle armi per figli e nipoti che si vorrebbero ancora educare a diventare cittadini coscienti e responsabili, invece di vederli massacrati da armi di cui non si conosce nemmeno l’attuale portata di morte. L’antico tributo di sangue dovuto al Minotauro, imprigionato nel labirinto delle contraddizioni reali, sembra un eterno ritorno dalla leggenda alla storia reale.

Tornando al nostro presente, la forte spinta alla globalizzazione bellica proviene ora dalle rovine della “democrazia” Usa, dove ancora tenta di resistere qualche tratto di diritto costituzionale, residuo di quanto è stato fatto approdare via nave, mentre nella cosiddetta vecchia Europa il diritto sembra tuttora più saldamente ancorato, come sede e costruzione costitutiva della storia. «Democrazia» non è infatti un regime politico, ma un modo di essere dei rapporti tra le classi, sbilanciato in direzione della prevalenza del cosiddetto “popolo sovrano”, se questo fosse ancora vero. Pertanto lo smantellamento dello stato di diritto, sulla cui permanenza in Europa ci si è più o meno tuttora identificati, è più oneroso qui di quanto non si manovri negli Usa, dove però alcune avvisaglie giuridiche di contrasto si stanno già manifestando. Finora questo sistema economico-politico si è basato su un’accezione ambigua di “democrazia” che occultamente ha veicolato una “tirannide del denaro” – scrive L. Canfora[1]  - sin dalla fine della I guerra mondiale, in cui la crisi democratica ha dato luogo a sistemi autoritari che avrebbero dovuto gestire la crisi di capitale che la guerra non aveva del tutto risolto. “Presso i popoli e nelle rivoluzioni l’aristocrazia sussiste sempre: distruggetela nella nobiltà, essa trova posto subito nelle case ricche e potenti del terzo stato; distruggetela in quelle, essa torna a galla e si rifugia nei capi-officina e del popolo.” - riporta Canfora da un resoconto di Napoleone III. 

Non è però il continuismo delle élites al potere, delle lotte sovrastrutturali politiche, ideologiche o culturali, che qui cerchiamo di capire, bensì se quella tirannia del denaro, trasformato in capitale nella transnazionalità della sua modernizzazione, sia ancora in grado di sostenere strutturalmente lo sfruttamento lavorativo che dà origine ai profitti in calo di accumulazione, e se quella tirannia, per definizione antitetica alla democrazia, deve dare seguito alla infinità conflittuale senza più confini di Stati, per evitare il crollo di tutto il sistema di capitale. Le armi si fabbricano e si vendono se la speranza di guerra non viene mai meno, ma quale ruolo svolge questa in ambito economico, tale da mantenerne strutturalmente in vita il modo di produzione che si intende eternizzare? In altri termini, il funzionamento di questo sistema economico prevede la fase distruttiva bellica come fondamento stabile della propria sopravvivenza?

Sappiamo già da N. Bukharin [2] che la lotta per la ripartizione del plu­svalore si è fatta sempre più complessa con la formazione di tutti i possibili monopoli capitalistici, e che la centralizzazione del capitale distrugge la concorrenza. Questa però viene riprodotta incessantemente su una base più allargata in grado di annullare l’anarchia delle piccole unità produttive, e inasprire i rapporti anarchici tra le grandi componenti produttive del grande meccanismo mondiale. Nell’economia mondiale la centralizzazione del capitale trova la sua espressione nelle annessioni imperialistiche (si pensi oggi all’ipotecato destino di Panama, del Canada o più ancora della Groenlandia, da “conquistare in ogni modo” da parte degli Usa) che si distinguono nettamente dalle linee fondamentali della lotta concorrenziale. Il passaggio ampiamente operato al sistema del capitalismo finanziario rafforza sempre più il processo di trasformazione della concorrenza, anche come manifestazione immediata di potere.

 Corrispondendo anche la forma della lotta al tipo della concorrenza, ne consegue inevitabilmente sul mercato mondiale un inasprimento dei rapporti tra Stati. Perciò il sistema del capitale finanziario mondiale richiama inevitabilmente la lotta armata dei concorrenti imperialisti, in cui risiede appunto la radice dell’imperialismo.

Qualsiasi fase dello sviluppo storico crea un particolare tipo di rapporti, e innanzitutto rapporti di produzione che hanno quindi un tipo adeguato di guerra. Il significato sociale di questo fenomeno è che la guerra è un mezzo di riproduzione di quei rapporti di produzione, sul fondamento dei quali essa si origina. Le cosiddette guerre coloniali erano guerre di stati di capitalismo commerciale, ma appena il capitale industriale e le sue organizzazioni statali si gettarono nella lotta per i mercati di sbocco, cominciarono le guerre per sottomettere al dominio del capitale industriale il mondo “ar­retrato”. Ecco quindi che si pone la necessità di approfondire la natura della guerra capitalistica, ora nella sua fase superiore imperialistica, attenti alla sua specificità rispetto alle finalità delle guerre di altri modi di produzione, dove il fine produttivo non era il valore, o infine il capitale stesso. 

Il primo stadio della guerra implica una riorganizzazione dei rapporti di produzione capitalistici (e noi oggi ci riferiamo al rientro produttivo che gli States avevano esternalizzato, all’invito a capitali stranieri a investire in Usa, all’imposizione di dazi in senso protezionistico, ecc.), per cui la guerra appare come una crisi di gigantesche proporzioni, anche se con localizzazioni diversificate anche temporalmente. Mentre la massa del plusvalore ovunque prodotto decresce, essa si concentra e si accumula nelle più forti unità economiche. La distruzione delle forze produttive altrui costituisce la conditio sine qua non dello sviluppo capitalistico; sotto questo punto di vista, le crisi rappresentano i costi di concorrenza e le guerre i faux frais (costi improduttivi) della riproduzione capitalistica, e il lavoro trasformato per i bisogni di guerra è caratterizzato come lavoro improduttivo.

La produzione di guerra, viceversa, ha tutt’altro significato, e non compare in alcun modo come materiale nel successivo ciclo di produzione. L’ef­fetto economico di questi elementi è una grandezza puramente negativa. Se si considerano i mezzi di consumo, essi non generano qui forze-lavoro, poiché i soldati non figurano nel processo di produzione. Appena la guerra si arresta, i mezzi di consumo servono in gran parte non in quanto mezzi di riproduzione della forza-lavoro, ma come mezzi di produzione della specifica “forza militare”, che non gioca alcun ruolo nel processo di produzione. Ne consegue che il processo di riproduzione assume con la guerra un carattere “defor­mato”, regressivo, negativo: con qualsiasi ciclo produttivo successivo la base reale di produzione diventa sempre più ristretta.

La spesa militare non produce, bensì sottrae. Si perviene in questo caso a una doppia perdita sul “fondo di riproduzione”: essa rappresenta il più importante fattore di distruzione; e le più importanti distruzioni belliche devono pure essere considerate sotto l’aspetto di un’intera serie di distruzioni indirette (vie, città, ecc. e anche forza-lavoro). Questa è la guerra, considerata dal punto di vista economico.

Nel processo della guerra, la realizzazione del valore può essere contrassegnata o come distruzione del capitale o come realizzazione della decrescente massa di plusvalore, attraverso la sua nuova ripartizione a favore dei grandi gruppi. Con la guerra si ha a che fare con una “cri­si”, anche se in dimensioni e forme mai viste, ma in nessun senso con un “crollo” del sistema capitalistico: dopo che si siano sanate le piaghe, riallacciati i rapporti e ricostruite le parti distrutte del capitale, il modo di produzione capitalistico riceverebbe la possibilità, ma a quale prezzo, di un ulteriore sicuro sviluppo, anche dei rapporti di produzione dati, sì che la loro estensione spaziale diverrebbe sempre più grande. La base reale della produzione sociale si restringe con la rotazione del capitale complessivo. Si ha qui una sempre crescente sottoproduzione: è questo il processo contrassegnato co­me riproduzione negativa.

Il periodo del “crollo”, perciò, non significa un annientamento degli ele­menti, ma un venir meno del nesso tra loro. La questione crisi o crollo dipende dal concreto carattere, profondità e durata, delle scosse riguardanti il sistema capitalistico. Que­st’ultimo potrebbe proseguire, dopo un certo ristagno, il suo sviluppo nelle forme più complete sul piano organizzativo. L’organizzazione dello sta­to borghese concentra in sé l’intero potere della classe dominante, e questo processo trova la sua espres­sione in due forme: la prima, nell’elimina­zio­ne della forza-lavoro dal processo di produzione; la seconda, nella diminuzione del salario reale del lavoro, nella dequalificazione di quest’ultimo e in ultima istanza nella lacerazione del nesso tra gli elementi inferiori e superiori della gerarchia di produzione.

Per una data economia la svalutazione agisce come se l’accumulazione di capitale si trovasse a un grado più basso dello sviluppo. In questo modo, lo spazio di estensione per l’accumulazione di capitale diviene più grande. Solo partendo da questo punto di vista teorico possiamo concepire la funzione reale delle distruzioni di guerra all’interno del capitalismo. Ben lontane dall’essere un impedimento per lo sviluppo del capitalismo o una circostanza che accelera il crollo dello stesso, le distruzioni e le svalutazioni di guerra sono piuttosto un mezzo per attenuare il crollo che si fa minaccioso, per dare aria fresca all’accumulazione di capitale.

Ognuna delle perdite di capitale, conseguenti alle spese di guerra, alleggerisce la situazione di tensione e apre lo spazio per una nuova espansione. Così agirono soprattutto le colossali per­dite di capitale e le svalutazioni in se­guito alla guerra mondiale. Tale disavanzo enorme fu in parte coperto dall’eccedenza annuale della produzione sul consumo. Tuttavia la ripartizione di ciò sui singoli paesi è del tutto ineguale: con la guerra l’Europa si impoverì, mentre stati uniti e Giappone si arricchirono più rapidamente che non in tempo di pace.

Dalla teoria marxiana del­l’accumulazione risulta che la guerra e la svalutazione del capitale, con essa collegata, attenuano la tendenza al crollo: dovevano dare un nuovo impulso all’accu­mu­lazione di capitale, e l’hanno dato. Falsa è però la concezione di Rosa Luxemburg, per cui “anche dal puro punto di vista economico, il militarismo appare al capitale un mezzo di prim’ordine per la realizzazione del plusvalore, cioè come campo dell’ac­cumulazione”.

Che la faccenda si possa esporre dal punto di vista del singolo capitale, cosicché le forniture dell’esercito da sempre offrono l’op­portunità per un rapido arricchimento, è cosa nota. Dal punto di vista del capitale complessivo, però, il militarismo è un settore di consumo improduttivo. qui i valori vengono sprecati invece di essere “risparmiati”, cioè investiti come capitale produttivo. Ben lontano dall’essere un “settore di accumulazione”, il militarismo rallenta piuttosto l’accumulazione. Gran parte del reddito della classe operaia che potrebbe arrivare nelle mani della classe imprenditoriale viene confiscata dallo stato con le imposte indirette e (in gran parte) speso per scopi improduttivi. Questa è una delle cause del rallentamento della formazione di capitale, e l’impedimento della formazione di capitale si può scorgere nel fatto che l’emissione di valori pubblici aumenta a dismisura.

Nessuna lungimiranza delle élites al potere è mai stata registrata in chi ha deciso la via distruttiva della guerra. La realtà infatti riserva sempre contraddizioni insospettabili, come quelle rivoluzionarie emerse nelle maggiori guerre del secolo scorso espresse poi anche nelle soggettività più emarginate del sistema, ma capaci di coesione improvvisa e solidale nell’azione politica contro gli elementi distruttivi. Gli esseri umani da sacrificare sono considerati solo “effetti collaterali”, una parte indifferente di quella realtà storica indipendente dalla capacità politica di dirigerlo. La “rappresaglia” con cui von der Leyen intende rispondere alla guerra per ora solo commerciale da parte degli Usa nei confronti dell’Europa e del mondo intero, è una rivendicazione imperialistica alla pari che non intacca i mercati degli armamenti, liberi sempre di estendere produzioni improduttive a sostituzione o più redditizie di quelle produttive.

Quanto contino poi le decisioni politiche umane nel dirigere o avallare la forma imperialistica del processo lavorativo sotteso a quello di valorizzazione, sembra riguardare una quota sempre minima delle sguarnite competenze elitarie dominanti. La coscienza generalizzata della necessaria razionalizzazione, nel superamento di questa forma negativa dello sviluppo umano, potrebbe però determinarsi nella scia delle specifiche contraddizioni di questo modo di produzione non più solo da legittimare acriticamente. Infatti le contraddizioni generate all’indomani del ciclo ripetuto crisi-guerra, non sono tutte visibili nonostante siano reali e costantemente operanti. La centralizzazione del capitale non può raggiungere la tendenza all’unità egemonica rimanendo sempre entro una pluralità conflittuale, mentre l’impoverimento compromette la sopravvivenza delle popolazioni mondiali soggette a massacri anche per il dissesto climatico in corso. L’imponderabile non può mai essere gestito.

E allora al dominio delle democrazie autoritarie in fieri occorre amministrare un’ideologia, unica sopravvissuta alla finta “morte di tutte le ideologie”, che sembri una componente essenziale della realtà eternizzata del mondo, per occultare la realtà storica contingente dell’oppressione destinata a trapassare. La rappresentazione rovesciata del reale storico moltiplica ora le false rappresentazioni del mondo, supportate anche dalle ultime tecnologie, di un mondo cadente che produce e sostiene la frode estrema, che però si lascia scoprire dai varchi delle analisi di parte che tuttora restano accessibili. La “guerra dei dazi” è parte di questa menzogna che unisce il conflitto tra capitali a quello con il lavoro, ultimo destinatario dell’aumento di “produttività” o sfruttamento, e del pagamento dei costi gonfiati. Se anche ora - come dopo il 1929 all’incremento dei dazi seguì di necessità la guerra mondiale - dovesse riesplodere una conflittualità generalizzata con le armi, la loro incessante produzione sarebbe più che profittevole e legata alla disponibilità massima di investimenti “produttivi” per la “merce” guerra, in vendita nelle zone predestinate dai “grandi” della Terra.

 Nel 1968 De André cantava “Marcondiro’ndero”: “Se verrà la guerra…sul mare e sulla terra chi ci salverà?... ci salverà il soldato che la guerra rifiuterà…l’aeroplano vola… se getterà la bomba chi ci salverà?... ci salva l’aviatore che la bomba non getterà… la guerra è una gran giostra… la faremo tutta nostra… giocheremo a far la terra…. Abbiam la terra nostra… per far la guerra giostra”. Il suo volere era di essere ricordato soltanto come poeta! Gli artisti, si sa, occupano quello spazio che il diritto romano riguardava come “intervalla insaniae”, momenti di lucidità del folle, quasi vuoti che si producono nel continuum della follia e nei quali anche gli atti del folle hanno efficacia giuridica.

Carla Filosa

[1] Luciano Canfora, La democrazia, Laterza, Bari, 2004.

[2] N. Bukharin [2](Economia del periodo di trasformazione, 1920)

ATTENZIONE!

Abbiamo poco tempo per reagire alla dittatura degli algoritmi.
La censura imposta a l'AntiDiplomatico lede un tuo diritto fondamentale.
Rivendica una vera informazione pluralista.
Partecipa alla nostra Lunga Marcia.

oppure effettua una donazione

La scuola sulla pelle dei precari di Marco Bonsanto La scuola sulla pelle dei precari

La scuola sulla pelle dei precari

Recessione e inflazione, due facce della stessa medaglia. di Giuseppe Masala Recessione e inflazione, due facce della stessa medaglia.

Recessione e inflazione, due facce della stessa medaglia.

Basta che se ne parli di Francesco Erspamer  Basta che se ne parli

Basta che se ne parli

L'Ecuador verso l'abisso. Contro tutti i pronostici vince Noboa di Geraldina Colotti L'Ecuador verso l'abisso. Contro tutti i pronostici vince Noboa

L'Ecuador verso l'abisso. Contro tutti i pronostici vince Noboa

Israele, la nuova frontiera del terrorismo di Clara Statello Israele, la nuova frontiera del terrorismo

Israele, la nuova frontiera del terrorismo

La retorica "no border" e Salvini: due facce dello stesso imperialismo di Leonardo Sinigaglia La retorica "no border" e Salvini: due facce dello stesso imperialismo

La retorica "no border" e Salvini: due facce dello stesso imperialismo

Missile sulla chiesa di Sumy: cui prodest? di Francesco Santoianni Missile sulla chiesa di Sumy: cui prodest?

Missile sulla chiesa di Sumy: cui prodest?

La nuova Bucha di Zelensky di Marinella Mondaini La nuova Bucha di Zelensky

La nuova Bucha di Zelensky

La repressione dello Stato dietro al Decreto Sicurezza di Giuseppe Giannini La repressione dello Stato dietro al Decreto Sicurezza

La repressione dello Stato dietro al Decreto Sicurezza

Il Colonialismo della mozione congiunta PD, M5S, AVS di Michelangelo Severgnini Il Colonialismo della mozione congiunta PD, M5S, AVS

Il Colonialismo della mozione congiunta PD, M5S, AVS

La California verso la secessione dagli Stati Uniti? di Paolo Arigotti La California verso la secessione dagli Stati Uniti?

La California verso la secessione dagli Stati Uniti?

Mattarella firma la legge liberticida di Michele Blanco Mattarella firma la legge liberticida

Mattarella firma la legge liberticida

Un sistema da salari da fame che va rovesciato di Giorgio Cremaschi Un sistema da salari da fame che va rovesciato

Un sistema da salari da fame che va rovesciato

Registrati alla nostra newsletter

Iscriviti alla newsletter per ricevere tutti i nostri aggiornamenti