Carlo Formenti - Israele e Palestina, Pulizia linguistica o pulizia etnica?
Questo non è un articolo sulla questione palestinese, tema che richiederebbe argomentazioni più complesse e approfondite di quelle contenute nelle seguenti righe, ma su un paio di equivoci semantici e mistificazioni ideologiche che governi, forze politiche e media occidentali utilizzano per giustificare in tutto o in parte la politica israeliana e per condannare senza se e senza ma la resistenza palestinese. A tal fine prenderò in esame due articoli apparsi il 20 ottobre, rispettivamente, su “Repubblica” e sul “Fatto quotidiano”. Userò il primo (Edgar Morin, “Respingere l’odio” pagina 41 di “Repubblica”) per ragionare su una mistificazione ideologica che, pur essendo stata a più riprese contestata, sembra assolutamente inscalfibile; userò invece il secondo (Marco Travaglio, “Pulizia linguistica”, articolo di fondo del “Fatto Quotidiano) per mettere in luce un equivoco semantico altrettanto radicato nel senso comune occidentale.
Nel suo scritto Edgar Morin solleva un interrogativo radicale che già molti prima di lui si sono (purtroppo inutilmente) posti: la maledizione di Auschwitz è il privilegio che giustifica ogni repressione israeliana? Per la quasi totalità dei politici e degli intellettuali occidentali la risposta è sì. Da un lato molti intellettuali ebrei, un tempo esponenti di una cultura universalista e progressista, sono progressivamente diventati più sensibili al destino di Israele piuttosto che a quello del resto del mondo, e hanno sostituito la Torah al Manifesto del partito comunista, dall’altro lato la totalità dei loro colleghi occidentali (politici, giornalisti, accademici, ecc.) sembrano portatori di un complesso di colpa collettivo per i genocidi provocati da secoli di antisemitismo, per cui appaiono disposti a giustificare tutte le scelte – anche le più scellerate e criminali – dello stato ebraico. A confermare tale atteggiamento, argomenta Morin, è il fatto che la colonizzazione della Cisgiordania è iniziata proprio nel momento in cui si completava il processo di decolonizzazione dei popoli di Asia, Africa e America Latina. Si è trattato, cioè, di una politica contraria ai nuovi principi del diritto internazionale, formalmente (ma non unanimemente) condannata, ma di fatto tollerata se non giustificata, come testimonia il fatto che non è mai stata oggetto di concrete sanzioni.
La giustificazione “morale” di questa palese ingiustizia è talmente paradossale (nessuno può giustificare le proprie azioni persecutorie per il solo fatto di essere stato a sua volta perseguitato in passato, soprattutto se le sue vittime di oggi non erano i suoi persecutori di ieri) che l’argomento del complesso di colpa occidentale suggerito da Morin, benché non privo di fondamento, non è sufficiente. La verità è che il complesso di colpa in questione è stato sistematicamente e scientificamente inoculato nelle masse attraverso un incessante bombardamento di film, documentari, convegni, eventi celebrativi, lezioni scolastiche e universitarie, atti legislativi ecc. finalizzato a occultare le tutt’altro che ideali motivazioni geopolitiche che inducono l’imperialismo occidentale a sostenere Israele.
Passo all’articolo di Travaglio, nel quale ho trovato: una verità (nelle ultime righe), una mezza verità (nel corpo dell’articolo) e una palese falsità nelle prime righe, nelle quali l’autore si arroga il diritto di esercitare quella che definisce “pulizia linguistica”, operazione che consiste nel denunciare l’uso improprio di termini come apartheid, genocidio, olocausto in nome del frusto e storicamente insostenibile argomento della “unicità” della Shoah. La verità arriva a conclusione di una motivata critica della propaganda occidentale che accosta la guerra contro la Russia e quella contro il terrorismo palestinese come due momenti di una guerra globale per la “difesa della democrazia”, dopodiché Travaglio scrive che i palestinesi “hanno capito cos’è la democrazia per noi ’buoni’: una finzione che evapora se vince chi non vogliamo noi”. La mezza verità coincide invece con l’affermazione secondo cui israeliani e palestinesi non si massacrano a vicenda per odio etnico (e qui manca un pezzo: l’aggettivo religioso che dovrebbe venire subito dopo l’aggettivo etnico) ma per gli opposti interessi geopolitici. Spiegherò perché penso che si tratti di una mezza verità nell’ultima parte dell’articolo, prima voglio sbarazzare il campo dalla falsità associata alla pretenziosa operazione di “pulizia linguistica” di cui sopra.
Travaglio scrive che solo per ignoranza si può parlare di genocidio e apartheid a proposito della politica di Israele nei confronti dei palestinesi, e invita chi commette tale errore ad informarsi leggendo un po’ di libri sull’argomento. Io, più modestamente, gli propongo due sole letture che, ammesso e non concesso che la sua opinione sia dettata da assoluta buona fede e non da pregiudizio, dovrebbero bastare a fargli cambiare idea
La prima lettura che gli propongo è un libro di Leonardo Pegoraro (I dannati senza terra. I genocidi dei popoli indigeni in Nord America e in Australia, Editore Meltemi), il quale spiega perché la definizione di genocidio non può essere considerata prerogativa esclusiva della Shoah. Il termine, ricorda Pegoraro, fu coniato da un giurista polacco di origine ebraica, tale Raphael Lemkin, durante la Seconda Guerra mondiale. Lemkin definì genocidio la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico, non riferendosi solo all’annientamento fisico di una comunità, ma anche ad una serie di pratiche: la soppressione delle istituzioni di autogoverno, la distruzione della struttura sociale e della classe intellettuale, il divieto di usare la propria lingua, la privazione dei mezzi di sussistenza, il divieto di matrimoni inter razziali, il divieto di praticare un determinato culto religioso e la distruzione dei suoi luoghi, l’umiliazione e la degradazione morale.
Se si accetta questa definizione, commenta Pegoraro, è evidente che non possiamo concedere alla Shoah il privilegio di unico evento storico suscettibile di essere classificato come genocidio. Così respinge la tesi di Foucault, secondo il quale il genocidio sarebbe un fenomeno eminentemente moderno, mentre approva quella di Sartre, il quale sostiene che il genocidio è un evento che si è presentato più volte nel corso della storia (anche se solo nell’era moderna lo si è battezzato così). Schierandosi con Sartre, Pegoraro scrive che la parola è nuova ma il fatto è antico: basti pensare alle molte testimonianze di eventi genocidari contenute nella letteratura antica, dall’Iliade alla Bibbia (1), allo sterminio dei Galli da parte di Cesare, agli eccidi commessi dai Crociati in Medio Oriente; alla scia di milioni di morti associata alle conquiste di Gengis Khan. In breve: le stragi perpetrate dalle civiltà classiche e antiche sono state – tenuto conto della percentuale di vittime rispetto alle dimensioni delle popolazioni interessate – pari se non peggiori di quelle moderne.
Perché allora il mito della unicità della Shoah resta inscalfibile? Complessi di colpa della cultura cristiano-occidentale (come sostiene fra gli altri Edgar Morin, vedi sopra)? Il vero scopo del mito, scrive Pegoraro, non è sopire il senso di colpa, né è quello di coltivare la memoria di ciò che ha subito il popolo ebraico per esorcizzare il ripetersi di analoghi orrori, bensì quello di nascondere gli scheletri nell’armadio dell’Occidente. È per questo che si associa il concetto di genocidio alla mera dimensione fisica degli eccidi, rimuovendo gli altri aspetti descritti da Lemkin, ma soprattutto è per questo che si alimenta la narrativa secondo cui il genocidio è un crimine compatibile esclusivamente con i regimi totalitari, mai con quelli liberal democratici (2).
Per smontare questa tesi Pegoraro ci offre una raggelante descrizione dei massacri contro i popoli nativi perpetrati da Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda, insistendo su un dato di fatto storico: in tutti i casi in questione la responsabilità non fu della monarchia britannica, bensì degli Stati “democratici” nati dall’autonomizzazione di quei Paesi dal dominio della Corona. Finché quei territori furono sotto amministrazione britannica, ai nativi venivano riconosciute alcune tutele; una volta ottenuta la libertà e l’autogoverno, i cittadini bianchi delle ex colonie li sterminarono senza pietà per appropriarsi delle loro terre. Il genocidio non è dunque un fenomeno prevalentemente, se non esclusivamente, totalitario, bensì un fenomeno intrinsecamente coloniale. Non a caso Hitler, ammiratore del colonialismo inglese e dei suoi metodi, lo assunse come modello da applicare all’Europa dell’Est, dalla quale voleva estirpare l’etnia e la cultura slave per sostituirle con quella germanica (3).
L’Occidente liberal democratico rimuove questa parentela e nasconde i propri peccati ricorrendo a strategie narrative come la minimizzazione: i pellerossa non erano poi così tanti, e se furono commessi crimini ed eccessi è assurdo classificarli come un genocidio. Ma recenti ricerche valutano il numero dei nativi al momento dell’arrivo dei coloni in non meno di un milione (4), ma soprattutto sono noti i sistemi con cui, dal Seicento al massacro contro gli adepti del culto della Danza degli Spiriti avvenuto negli anni Novanta del secolo XIX, la loro etnia venne eradicata: stragi che non risparmiarono donne e bambini (anche i loro scalpi, oltre a quelli degli adulti, erano ambiti gadget), trattati di pace violati unilateralmente subito dopo la firma, deportazioni in riserve prive di risorse sufficienti alla sopravvivenza, epidemie sparse intenzionalmente attraverso la distribuzione di coperte contaminate dal vaiolo e dal morbillo. Quello statunitense (al pari di quello di altre potenze coloniali) è un vero e proprio caso di “negazionismo”, eppure non viene punito come il negazionismo che mette in discussione la realtà della Shoah.
Il dogma della unicità della Shoah fa sì che i crimini di Israele nei confronti del popolo palestinese non possano in alcun caso essere definiti come genocidio, poco importa se il primo premier dello Stato ebraico ebbe a dire: “Ogni attacco dovrà terminare con l’occupazione, la distruzione e l’espulsione, senza alcun bisogno di distinguere fra chi è colpevole e chi non lo è, e colpendo tutti senza pietà, comprese donne e bambini”, in perfetta sintonia con lo spirito di certi passaggi del testo biblico (vedi nota 1). Ma per convincere Travaglio che il divieto “politicamente corretto” dell’uso del termine genocidio (e, come vedremo fra poco, del termine apartheid) ove riferito alla politica di Israele è tanto ingiusto quanto privo di fondamento, gli offro un secondo consiglio di lettura: La prigione più grande del mondo, di Ilan Pappé, autorevole storico israeliano docente all’Università di Exeter (Inghilterra).
Quella contenuta nel libro di Pappé è una ampia esposizione di fatti storici, corredata da un’altrettanto ampia documentazione: verbali di riunioni di governo, memorie dei protagonisti, cronache nazionali e internazionali, sentenze di tribunali militari e civili, testi di legge, decreti, regolamenti emanati dalle autorità di occupazione, dichiarazioni di leader di partito, ecc. Da questi documenti emerge una verità incontestabile: nessuna delle guerre israeliane contro gli arabi dal 1948 a oggi è stata provocata dalla necessità di fronteggiare le provocazioni e le minacce di un nemico deciso a distruggere lo Stato ebraico; si è trattato piuttosto di un premeditato disegno strategico, perseguito con spietata determinazione. L’ occupazione di nuovi territori non fu mai concepita come un fatto transitorio, del resto gli eventi storici successivi a tali occupazioni hanno confermato che per Israele la sovranità assoluta su Gaza e Cisgiordania non è negoziabile, né i media israeliani hanno mai fatto mistero sull’esistenza di un progetto “imperiale”, invocando a gran voce la creazione del Grande Israele. Nel 1967, scrive Pappé, non era pronto alla guerra solo l'esercito, era pronto anche l'apparato burocratico deputato a gestire le conquiste, quanto alla necessità di sferrare un attacco preventivo per neutralizzare un nemico che si preparava ad annientare Israele, è una bufala paragonabile al presunto attacco vietnamita alle navi americane nel Golfo del Tonchino e alle “prove” sulle armi di distruzione di massa in mano irachena; da un lato le élite israeliane erano consapevoli dell'inferiorità militare araba, dall’altro Siria ed Egitto ne erano altrettanto consapevoli, per cui non si sarebbero mai sognati di attaccare per primi.
Passiamo ora alle decisioni draconiane in merito alla gestione dei Territori Occupati assunte dal governo che guidava il Paese durante la guerra del 67 (e da quelli successivi). Pappé ricorda che il governo in questione abbracciava tutte le correnti ideologiche: laburisti, liberali laici, religiosi e ultrareligiosi, rappresentava cioè il più ampio consenso sionista possibile. La scelta fu quella di estendere l'autorità militare, già imposta alla minoranza araba entro Israele, agli abitanti della Cisgiordania e di Gaza, traendo ispirazione dai regolamenti mandatari di emergenza emessi dagli inglesi, che gli stessi capi sionisti avevano definito nazisti. Il guaio che sta alla radice di tutti i problemi successivi (le due Intifada, il terrorismo di Hamas, il fallimento di tutte le trattative di pace, ecc.) consiste nel fatto che i territori acquisiti nel 67 potevano essere annessi de facto ma non de iure, sia perché il diritto internazionale li considera territori occupati, diversamente da quelli acquisiti nel 48 che sono riconosciuti come parte integrante dello Stato di Israele, sia perché i palestinesi non possono essere espulsi ma nemmeno integrati come cittadini con pari diritti, dal momento che con il il loro numero e il loro ritmo di crescita demografica metterebbero in pericolo la maggioranza ebraica.
Questa compresenza di tre obiettivi contraddittori (conservare i territori, non espellerne gli abitanti ma non concedere loro la cittadinanza) ha generato la realtà disumana di una immensa prigione a cielo aperto che non viene imposta a singoli individui bensì a una intera società. A gestire questo mega carcere provvede una quantità enorme di personale (che Pappé definisce “la burocrazia del male”) il cui ruolo consiste nell’amministrare cinque milioni di “carcerati” rinchiusi in quelli che prima erano i loro territori. Il genocidio secondo la definizione originaria di Lemkin (vedi sopra) è servito, in barba alle contorsioni semantiche di Travaglio, il quale, come tutti i suoi colleghi occidentali, se la cava limitando il senso della parola alla programmazione e realizzazione industriale dei campi di sterminio nazisti (in questo modo, anche lo sterminio di milioni di nativi in America, Africa e Australia da parte delle potenze coloniali europee, per tacere di quello di milioni di cinesi da parte dell'imperialismo giapponese, non può essere definito genocidio, con buona pace delle nostre coscienze cristiane).
Ancora più insostenibile il tentativo di negare l’esistenza di pratiche razziste e di apartheid: Pappé smaschera l’ipocrisia che si nasconde dietro questa “pulizia linguistica” che mistifica la realtà delle pratiche di “pulizia etnica” descrivendo la “strategia del cuneo” che ispira l’insediamento dei coloni ebraici. La strategia in questione, finalizzata a impedire la continuità spaziale e l'integrità geografica delle aree occupate dai palestinesi, funziona in questo modo: si colonizza una località lontana, dopodiché si rivendica come esclusivamente ebraica l'area che si frappone fra Israele e il nuovo insediamento (ivi comprese le strade che vi conducono). In questo modo si crea continuità territoriale tra gli insediamenti ebraici e discontinuità fra villaggi e le città palestinesi che diventano enclave isolate le une dalle altre e “incistate” in un continuum sempre più esteso di territori annessi a Israele.
Come promesso, concludo con una breve riflessione in merito a quella che ho sopra definito la mezza verità contenuta nell’articolo di Travaglio. È vero che è sbagliato ridurre le ragioni del conflitto fra israeliani e palestinesi a questioni etnico religiose, rischiando di oscurare il fatto che il vero motivo del contendere è politico (per la precisione geopolitico), vale a dire la lotta fra due popoli che si contendono il diritto di affermare la propria sovranità sugli stessi territori (nel contesto, è il caso di aggiungere, di un più ampio conflitto di interessi fra grandi potenze). È altrettanto vero, tuttavia, che le motivazioni etnico religiose hanno assunto negli ultimi decenni un peso crescente nell’alimentare/legittimare lo scontro globale. In Occidente torna comodo concentrare l’attenzione sull’integralismo islamico, ma l’integralismo ebraico non è meno influente nel determinare le scelte politiche israeliane, così come l’integralismo cristiano-protestante ispira quelle della corrente neocons delle élite statunitensi e l’integralismo ortodosso dona argomenti a entrambe le sponde del conflitto fra Russia e Ucraina (l’unica nazione che si sottrae a questa logica è la Cina che, per sua fortuna, non ha mai ospitato una vera religione ma solo una pluralità di codici di prescrizioni etiche).
Note
(1) Cfr. l’agghiacciante passo del Deuteronomio che recita: “Soltanto nelle città di questi popoli che il Signore tuo Dio ti dà in eredità, non lascerai in vita alcun essere che respiri, ma li voterai allo sterminio: cioè gli Hittiti, gli Amorrei, i Cananei, i Perizziti, gli Evei e i Gebusei” (20:16-17)
(2) A legittimare tale narrazione fu, fra gli altri, Hannah Arendt che indicò nei totalitarismi nazista e sovietico le “culle” della vocazione genocidaria (genocidio di razza nazista e genocidio di classe staliniano), assolvendo – in barba a ogni evidenza storica - le democrazie occidentali da analoghe accuse. Questa mossa della Arendt resterà una macchia indelebile sul pensiero di questa autrice, che ancora oggi (basti pensare alla recente deliberazione del Parlamento europeo che equipara nazismo e comunismo) viene utilizzata per legittimare ignobili falsificazioni storiche.
(3) Pegoraro ricorda come nel Mein Kampf Hitler tributasse lodi sperticate ai metodi dei coloni americani per liquidare la resistenza dei nativi: il Führer considerava le migrazioni forzate degli indiani verso le riserve come deliberate politiche di sterminio, da cui trarre inspirazione per risolvere la questione ebraica.
(4) La popolazione dell’America del Sud all’arrivo degli spagnoli contava decine di milioni di persone. Le dimensioni dell’eccidio furono dunque maggiori rispetto a quelle dei massacri commessi nell’America del Nord. Tuttavia va ricordato che, mentre nel subcontinente meridionale la Chiesa cattolica respinse la tesi secondo cui gli indigeni erano privi di anima, il che non impedì la strage ma ne rese problematica la legittimazione, la cultura protestante del Nord legittimò l’idea che i pellerossa fossero poco più che animali ai quali era lecito dare la caccia.