Che fine farà Zelenskij? Il regime di Kiev si spacca sui "negoziati"
di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico
Tornando ancora sulla questione delle trattative di pace con Kiev, il presidente russo Vladimir Putin ha precisato alcuni punti che Mosca considera fondamentali. Ha ricordato che i colloqui con l'Ucraina erano stati avviati già all'inizio delle operazioni militari, quando Mosca chiedeva a Kiev di ritirarsi da LNR e DNR: in quel caso, non ci sarebbe stato alcun conflitto.
Putin ha anche sottolineato come, a fine marzo 2022, Mosca avesse ritirato le proprie truppe, già vicinissime a Kiev, per cercare di evitare un inutile spargimento di sangue, nonostante fosse consapevole che non si trattasse altro che dell'ennesimo raggiro da parte ucraina e dei suoi curatori occidentali. E infatti, ha detto Putin, in quello stesso 2022 la Russia aveva ricevuto chiari segnali della volontà di Kiev di continuare la guerra “fino all'ultimo ucraino”, come chiedevano (e chiedono ancora, possiamo aggiungere) i padrini euro-atlantici della junta, che volevano (e in larga parte vogliono tutt'oggi) la prosecuzione della guerra.
A metà aprile di quell'anno, ha ricordato Putin, le parti avevano concordato i parametri chiave dell'accordo (la bozza preliminare prevedeva lo status neutrale di un'Ucraina fuori dai blocchi e il divieto di schierarvi armi straniere, comprese quelle nucleari) ma, all'improvviso, la parte ucraina chiese una settimana di tempo per discutere la questione con i suoi “alleati” occidentali: coniugando intenzionalmente, al condizionale, un dato di fatto da oltre due anni chiaro a tutto il mondo, Putin ha “ipotizzato” che il rifiuto di Kiev degli accordi di Istanbul del 2022 “potesse essere stato” legato alle pressioni dell'amministrazione Biden. Non a caso, era giunto a Kiev l'allora premier britannico Boris Johnson, per una visita «probabilmente coordinata con l'amministrazione statunitense, che alla fine ha convinto l'Ucraina a continuare la guerra».
Nello specifico delle trattative, Putin ha ribadito che Mosca considera Vladimir Zelenskij un “leader illegittimo” (da quando, cioè, nella primavera scorsa, alla scadenza del proprio mandato, ha negato le elezioni presidenziali) e, dunque, non ha nemmeno la facoltà di annullare il decreto, da lui medesimo emanato, con cui vieta di condurre colloqui con la Russia. Possiamo condurre trattative con chiunque, ha detto Putin: solo, non con Zelenskij che, in forza della sua illegittimità, non ha il potere di firmare alcunché. Mosca chiede anche che ci sia una decisione giuridica ufficiale che certifichi la legittimità di coloro che Kiev delegherà a firmare un eventuale accordo con la Russia.
Se Kiev non riceverà più né «soldi né munizioni», ha detto Putin, tutto si concluderà tra un mese e mezzo, due mesi al massimo; in questo senso, «la sovranità ucraina è pari a zero».
Ma ora, quando il timore di perdere – o, quantomeno, vedersi drasticamente ridurre - il sostegno yankee, si fa più acuto, ecco che Zelenskij spiattella agli ucraini di aver emanato il decreto sui colloqui con Mosca, quando «le loro truppe si trovavano qui, vicino a Kiev». E, dunque, allora, sarebbe stato “obbligato” a farlo; mentre oggi...
E, però, osserva Vasilij Stojakin su Ukraina.ru, stupisce che i propagandisti ucraini, su wikipedia, parlino della “Battaglia per Kiev” che, a loro dire, sarebbe durata dal 25 febbraio al 2 aprile, mentre lo stesso Zelenskij, nel suo “universo parallelo”, pare ricordare che le truppe russe rimasero nell'area di Kiev almeno fino a fine settembre; «o forse sono ancora là?». Insomma, nella mente del nazigolpista-capo, la sostanza del decreto consisteva nel fermare «il separatismo nel nostro stato, vietando a ogni esponente politico ucraino, perdurante la guerra, di condurre negoziati con la parte russa, con i sostenitori di Putin».
Ora, nota Stojakin, in caso di “separatismo”, coloro che avessero negoziato aggirando il presidente, avrebbero con ciò stesso ignorato il suo decreto. In sostanza, se uno viola la Costituzione, in cui si determina esattamente chi possa negoziare in nome del paese, perché altri dovrebbero rispettare un decreto, che ha uno status giuridico inferiore?
Come (quasi) sempre in questi casi, Zelenskij ha naturalmente “spiegato” di essere stato frainteso e di non aver vietato i colloqui, di per se stessi: «Sono io il presidente dell'Ucraina. E sono il leader in qualsiasi negoziato. Ho proibito a tutti gli altri di condurli». Dal suo punto di vista, il ragionamento potrebbe anche filare.
Ma, concretamente, cos'è che vietava il decreto? Di fatto, nulla. Nel testo del decreto non si fa parola di negoziati; si tratta di un documento “tecnico”, un decreto attuativo di una decisione del Consiglio di Sicurezza, in cui si parla dei negoziati al primo paragrafo: «Constatare l'impossibilità di negoziati con il presidente russo Vladimir Putin». In tale formulazione del Consiglio non si riscontra alcun divieto in quanto tale. «Constatare l'impossibilità» è un giudizio di valutazione, senza alcuna forza di legge. Inoltre, non si indica alcun soggetto ucraino cui si applichi il divieto. Infine, nota Stojakin, parlando del «presidente russo Vladimir Putin», il decreto non limita in alcun modo la possibilità di negoziare con qualsiasi altro soggetto della parte russa.
La domanda è allora: se il decreto è così insignificante, come mai Mosca ne chiede l'abrogazione? Il problema è che Kiev lo considera vincolante e, dato che è formulato in maniera “abbastanza idiota”, la junta tende a dargli una formulazione estesa. Per dire, «Zelenskij andrà ai negoziati con un interprete (dal russo in russo: quantomai necessario!) e dirà di aver proibito i negoziati a tutti gli altri, tranne che a se stesso e, se c'è un interprete, l'accordo non è valido». In generale, nonostante che il decreto sia giuridicamente scorretto, il giudizio di valore rimane: la junta ritiene impossibile negoziare con Mosca. Non è proprio quello che si dice una “buona atmosfera” per dare il via a dei negoziati. Infine, la stessa dichiarazione di Zelenskij non è casuale. Egli non ha fatto che reagire alle parole di Trump, secondo cui l'Ucraina sarebbe pronta per i negoziati, sottintendendo però che Kiev è pronta, ma solo se sarà lo stesso Zelenskij a condurli. La volpe!
Si dà però il fatto che Mosca, dal 21 maggio scorso, non riconosca Zelenskij quale presidente ucraino; in teoria, ciò non impedisce i negoziati, ma il peso di eventuali accordi sarebbe praticamente nullo.
E, comunque, nessuno ha sinora annullato il decreto; anche se, come nota il politologo ucraino Ruslan Bortnik su UkrLife, a Kiev è già in corso una lotta per il diritto di negoziare a nome dell'Ucraina. «Alla cerimonia di insediamento di Trump alla Casa Bianca, è stato visto David Arakhamija»: in Ucraina, ironizza Bortnik, sono oggi di moda leaks propagandistici del tipo “La Timošenko è stata vista lì. Arakhamija ha preso il suo posto d'onore di là”. Anche se, molto probabilmente, dietro questi lanci “d'agenzia” ci sono gli stessi Timošenko e Arakhamija. Il quale ultimo, però, è il caso di ricordarlo, era a capo del team negoziale a Istanbul e aveva poi rivelato che Boris Johnson aveva impedito di concludere la pace. C'è poi Kirill Budanov, coi suoi contatti americani, che secondo alcuni degli infiniti sondaggi ucraini, godrebbe del secondo indice di fiducia; ebbene, anche lui oggi dice: dobbiamo negoziare, altrimenti potrebbero iniziare processi pesanti. E non va dimenticato l'ex comandante in capo Valerij Zalužnyj, che ha ripetutamente scritto che, in una lunga guerra, è improbabile che l'Ucraina vinca sulla Russia. Insomma, conclude Bortnik, in questa situazione, in cui la leadership ufficiale non riesce a stare al passo «coi cambiamenti della situazione politica, è in corso una lotta per il diritto a prender parte ai negoziati». Che fine farà Zelenskij?
Quanto rimane agli ucraini da sopportare il peso di una marmaglia neonazista che, su ordine di Bruxelles (e, finora, di Washington: ma, non è detto che le cose cambino molto e in fretta) manda al macello i propri uomini, giovani e anziani?