Chi esce con le borse piene dai vertici parigini
di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico
Non è vero che il vertice di Parigi, coi rappresentanti di Francia, Germania, Italia, Polonia, Spagna, Olanda, Danimarca e Gran Bretagna (più gli immancabili Rutte, von der Leyen, Costa) del 17 febbraio sia stato un fallimento. Quantomeno, non lo è stato nel senso più completo e non per tutti. Se è giusto parlare di una sorta di “certificazione della bancarotta” di un sistema di poteri come lo si è conosciuto sinora, o, addirittura, come è stato scritto, di aperta manifestazione della «impotenza geopolitica» della UE (senza che i suoi nani ne abbiano comunque voluto prendere atto). Se è doveroso rimarcare come le esternazioni belliciste risuonate ancora una volta proprio à, a Parigi, costituiscano un ulteriore flagello per le condizioni di vita e di lavoro di decine e decine di milioni di persone dei paesi europei, condannate a pagare (nel significato letterale del verbo), con sostanziali aumenti dei bilanci di guerra, le scelte reazionarie e guerrafondaie di un pugno di manigoldi al guinzaglio dei monopoli finanziario-industriali. Se è vero tutto questo, non si può però non prendere atto di come quelle stesse giaculatorie sul “doveroso impegno di continuare a sostenere lo sforzo bellico” della junta nazigolpista e sull'esigenza di «dissuadere la Russia da ogni potenziale attacco al territorio NATO», da cui discende un “imprescindibile obbligo” di stanziare ancora centinaia di miliardi per l'industria di guerra, qualche effetto “positivo” lo abbiano avuto. Diciamo, positivo per alcuni; per pochi “eletti”: molto positivo.
Non appena il bellimbusto a capo della NATO, Mark Rutte, ha sentenziato che l'obiettivo di spesa dell'Alleanza sarà ben al di sopra del 3% del PIL, rispetto all'attuale 2% fissato nel 2014 in Galles, da cui deriva che il nuovo obiettivo di spesa dovrebbe preludere, nelle intenzioni, a un'espansione dell'industria europea, per contrastare gli ordinativi yankee, ecco che le azioni della tedesca Renk Group sono salite del 12%, arrivando a 28,08 euro già nelle prime contrattazioni di lunedì, mentre quelle di Rheinmetall sono salite del 8,4% (885,8 euro) e quelle della Hensoldt del 6,5% (43,33 euro). Le azioni della britannica BAE Systems sono salite del 5,25% (12,93 sterline) e quelle della QinetiQ del 3,4% (3,81 sterline). Nella stessa giornata le azioni della francese Thales sono salite del 3,75% (171,55 euro) e quelle della Dassault Aviation del 4,75% (227,20 euro). La Leonardo ha guadagnato il 4,3% (33,05 euro), mentre la svedese Saab ha guadagnato il 6,5% (260,5 corone).
In generale, dal febbraio 2022 i titoli delle aziende militari europee hanno continuato regolarmente a salire, date le previsione sul prolungarsi del conflitto in Ucraina e la “propensione” dei governi UE a stanziare sempre più risorse nel settore della “difesa”; tuttavia, nota ColonelCassad, un balzo medio del 5% sta a indicare che gli investitori sono probabilmente informati su alcune decisioni di Bruxelles sull'ulteriore espansione della produzione militare e il proseguimento del sostegno a Kiev.
Del resto, non sono sono sin qui mancate le dirette esternazioni al riguardo: lo stesso Rutte, non da ora va ammonendo i più recalcitranti nell'aumentare le spese di guerra, che «O aumentate le spese militari, o in quattro o cinque anni dovrete imparare il russo». La funesta Ursula von der Leyen dice che va bene il il 2% del PIL per la difesa, ma che bisogna aumentare gli investimenti annuali di «centinaia di miliardi di euro» e, allo scopo, le spese di guerra vengono scorporate dal patto di stabilità. Da parte sua, il malaugurato Mario Draghi parla di mettere in cantiere in Europa investimenti per 800 miliardi, agendo «come un paese unico», soprattutto, ca va sans dire, in materia di “difesa”, per contrastare la concorrenza dell'industria americana; in caso contrario, dice, il settore militare europeo non ce la farà a soddisfare la domanda di armi sempre più pressante.
Come mai sempre più pressante? A che scopo? Per servirsene quando e dove di quelle armi? Evidentemente, per armare il famigerato “esercito europeo”, ormai invocato dalla destra liberalbellicista (PD & soci), da quella eurocialtrona e dai fascisti dichiarati, quale obiettivo impellente, per fronteggiare, ad esempio, una «analogia storica» - a dir poco ridicola sul piano politico e disonesta proprio sul piano storico - messa nero su bianco da certi articolisti de La Stampa, secondo i quali «Così come la Polonia fu attaccata e occupata sia dall'Unione Sovietica sia dalla Germania nazista, l'Europa oggi si ritrova stretta tra la morsa militare della Russia e l'affondo politico dell'America di Trump» che, per «dividere e indebolire, fino a distruggerlo, il progetto di integrazione europea», foraggiano «forze politiche euroscettiche e illiberali».
Dannati populisti filorussi che non sono altro! Mica come quei convinti europeisti e liberali del PD che, ancora su La Stampa, per bocca del loro “responsabile” esteri, Giuseppe Provenzano, battono il pugno sul tavolo e proclamano che «l'Unione ha bisogno di un esercito" e, a Parigi, non si è fatto abbastanza, non avendo nominato «un inviato europeo per i negoziati sull'Ucraina»: per mandarlo dove e quando, di grazia, e a far che?
Ma, ora, dice il liberalmilitarista, «non è più tempo di perifrasi o mezze misure: stavolta serve una svolta radicale dell'Europa», perché «si è aperta una voragine tra le due sponde dell'Atlantico, politica, economica, persino morale: e chi sta in mezzo rischia di affondare». E invece, obbedendo alle direttive del “sacro maestro” Draghi, che «difende i valori dell'Europa e lo stato di diritto», ci si deve orientare verso un «grande piano che investa l'autonomia strategica, l'industria, la tecnologia, la difesa». Il resto sono chiacchiere. Proprio come quelle del signor Provenzano che, tanto per fingere preoccupazione per il destino di quella classe e di quegli strati sociali cui è ormai estraneo e nemico il PD, ciancia gesuiticamente della necessità di difendere «anche il welfare e il lavoro. La sfida protezionistica si regge con gli investimenti e alzando i salari, facendo ripartire la domanda interna». Parole, parole; parole.
Dunque, per venirne a capo, dice lui, è tempo di farla finita con la democrazia per tutti e l'unanimità: «dobbiamo rompere il tabù delle scelte a 27 e immaginare una cooperazione rafforzata con chi ci sta»; che gli altri se ne facciano una ragione e obbediscano a chi lavora per una difesa comune europea, proclamando «l'obiettivo: serve un esercito comune europeo. Perché se la dici così la capisce chiunque. Se parli di scorporo delle spese dal patto di stabilità, magari mentre devi fare austerità sul sociale, non avrai mai il consenso». Quindi: se «già oggi in Europa investiamo in spese militari il triplo della Russia e più della Cina», non ci si può fermare qui; «la vera sfida è mettere in comune le forze: per questo serve soprattutto la volontà politica», magari contrabbandandola come «progetto di pace», del tipo di quelli cui ci hanno abituato negli ultimi decenni in giro per il mondo, anche con presidenti del consiglio targati PD. Il gioco è fatto. Socialtagliagole, manganellatori dei diritti degli strati popolari e affamatori di operai e lavoratori.
Ora, mentre il PD brama recitare la parte affidatagli dai committenti finanziario-industriali, ecco che a Parigi, per cercare di raddrizzare la situazione che vede la cosiddetta “Europa” sull'orlo del baratro e tentare di rimediare all'errore, denunciato qua e là nella stessa UE, per cui, nel corso del conflitto in Ucraina, Parigi e Berlino avrebbero sottovalutato una presunta “aggressività” della Russia, si è dato vita al “summit ristretto”. Un vertice cui non sono stati invitati, tra gli altri, nemmeno i più diretti vicini della Russia, i quali, d'altra parte, ironizza RIA Novosti, avrebbero potuto dare qualche suggerimento in materia, avendo sperimentato in prima persona la potenza del nuovo “imperialismo russo”. E, però, quel vertice somiglia più che altro a un remake del “Concerto europeo” scaturito dal Congresso di Vienna del 1815, allorché un pugno di monarchi si riuniva per decidere le sorti dell'intero continente, con la differenza che, al posto della Russia zarista, questa volta sedeva la Polonia sanfedista.
Come mai proprio la Polonia? La ragione è abbastanza evidente: c'è da approntare la nuova disposizione e dislocazione delle forze per affrontare il nemico, Mosca, probabilmente privi della copertura yankee e, in assenza della Polonia, che duecento anni fa rientrava nell'impero zarista, sarebbe impossibile pianificare l'introduzione di qualsiasi contingente militare europeo in Ucraina e il corrispondente “credito territoriale” che gli assicuri le necessarie retrovie. Ecco perché, osserva ancora RIA Novosti, ad esempio, la presenza a Parigi di quei più diretti vicini della Russia, vale a dire i Paesi baltici, russofobi quanto e più della Polonia, ma insignificanti politicamente militarmente, non aveva alcun interesse per quegli “otto grandi” e, dunque, sono stati lasciati a casa.
Così, forse ignari delle raccomandazioni del signor Provenzano, ma comunque sintonizzati sulle stesse lunghezze d'onda, quei nani europei seduti a Parigi, apparentemente e ipocritamente sorpresi dei messaggi giunti da oltreoceano e forse persino commossi, hanno cominciato di tutta lena ad armarsi massicciamente, ridendosela dei bisogni vitali delle masse, alla pari di quell'ingordo in tonaca nera che, come cantava Andrea Chenier, nel varcare «d'una chiesa la soglia; là un prete ne le nicchie dei santi e della Vergine, accumulava doni», mentre al suo «sordo orecchio un tremulo vegliardo invan chiedeva pane e invano stendea la mano!». Eccoli là, i nuovi tonaconi seduti a gozzovigliare a Parigi, Berlino, Roma, Varsavia...