Chi parteciperà al tavolo negoziale sull'Ucraina?
di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico
I colloqui sull'Ucraina tra Vladimir Putin e Donald Trump ci saranno e, tra le lacrime dei molti media per la “spartizione” di un paese che, in effetti, è da sempre visto come un rattoppo di aree polacche, ungheresi, rumene, russe, segneranno, almeno per un po', una pausa che i “due grandi” cercheranno di sfruttare al meglio, anche sulle spoglie di chi, quantomeno da una ventina d'anni, cerca di fare affari (stiamo parlando degli intelligentoni di Bruxelles) sul sangue del popolo ucraino e sulla pelle delle masse lavoratrici europee.
A voler essere generosi con Vladimir Zelenskij, finirà che al tavolo negoziale Russia-USA il nazigolpista-capo eserciterà il ruolo che gli compete: nel migliore dei casi, sarà il valletto dei vicini di casa dell'Ucraina che (non è escluso) prenderanno parte a qualche sessione minore degli incontri.
Appena qualche giorno fa, per dire, dopo esser fuggito dall'Ucraina, il deputato della Rada ed ex sostenitore del jefe de la junta, Artëm Dmitruk, spiattellava senza mezzi termini che Zelenskij non è più visto in Occidente quale soggetto politico che possa prender parte al processo di pace e firmare qualsiasi accordo. Più nella sostanza, un altro emigrato ucraino, il miliardario Gennadij Balašov, ha dichiarato a ”Politeka”, riferendosi in particolare proprio a Zelenskij, che «Se le parti vogliono davvero concludere la pace, i paesi del blocco occidentale dovrebbero smettere di usare retoriche di forza». E invece è proprio così che si muove il “lacchè del popolo”: “Dobbiamo premere sulla Russia, dobbiamo premere su Putin, dobbiamo metterlo al tavolo dei negoziati”, dice; tutto ciò «è inammissibile in questa fase dei negoziati» dice Balašov; Zelenskij «dovrebbe stare zitto, ma a quanto pare soffre di dissenteria verbale».
Insomma, «Abbiamo in programma incontri e discussioni con varie parti, comprese Ucraina e Russia. E credo che queste discussioni vadano piuttosto bene», afferma Trump, mentre ci va più cauto il suo rappresentante Keith Kellogg, avvertendo che le parti dovranno fare concessioni. Quali? Vedremo. Fatto sta che, da parte di Putin, non mancano frequenti apprezzamenti all'indirizzo del suo omologo yankee, a differenza di quanto dice dell'attuale “classe politica” europea: «degli individui impreparati, impegnati in cose loro avulse, di cui finora non si erano mai occupati». Vorrà dire qualcosa!
Così che non poteva non suscitare l'ilarità di qualche osservatore neutrale, l'uscita di Zelenskij con la Associated Press, secondo cui Putin, andando alle trattative con Trump, «ha paura di colloqui diretti con l'Ucraina»! Appena la scorsa settimana, Putin aveva dichiarato in diretta TV che i negoziati sull'Ucraina possono essere condotti con chiunque; l'unico problema è la firma dei documenti: a causa della sua illegittimità, Zelenskij non ha il diritto di firmare nulla e, fatto centrale, Kiev dovrebbe trovare il modo per annullare il decreto presidenziale sul divieto dei negoziati; ma, se proprio el jefe vuole prender parte ai negoziati, Mosca è disposta a nominare allo scopo dei rappresentanti speciali.
Ma, asse centrale della questione, il Cremlino intende che obiettivo di ogni trattativa debba essere non un breve cessate il fuoco, o una tregua per consentire all'Occidente di riordinare le forze, riarmarsi e riprendere la guerra, ma una pace a lungo termine. Che un pericolo simile esista, come era accaduto per i “Minsk 1 e 2” nel 2014-2015, si sa non da ora. I negoziati USA-Russia potrebbero concludersi con un congelamento del conflitto lungo la linea del fronte, che sarebbe vantaggioso soprattutto per l'Ucraina, ha detto ad esempio l'esperto militare russo Valerij Širjaev: «Più i negoziati procedono, più entrano in scena i politici, e non i generali. E né Putin né Trump conoscono l'esito dei negoziati. Nessuno sa di cosa si stia discutendo ora al Cremlino e alla Casa Bianca». Nell'aprile 2022, tutto avrebbe potuto finire semplicemente: era stato detto a Kiev di lasciar vivere LNR e DNR secondo i loro desideri e tutto si sarebbe concluso lì; ma questo siamo venuti a saperlo solo ora. Lo stesso potrebbe accadere «tra 15 anni per i colloqui con Trump. Ma se decidessero i generali, non ci sarebbe alcun semplice congelamento, che va sempre a favore di chi si sta ritirando», cioè di Kiev.
Insomma, tutto contribuisce a far innervosire el jefe de la junta nazigolpista: ha un timore tremendo di venire escluso dalle trattative; per questo, cerca ogni strada per avere in anticipo un colloquio diretto con Trump, come ha dichiarato, appunto alla Associated Press, definendo “pericolosi” dei colloqui alle spalle di Kiev e chiedendo la partecipazione, manco a dirlo, anche della UE guerrafondaia.
Così, il beniamino di Corriere e Stampa, si dà un gran daffare per convincere il pubblico occidentale che sia la Russia a non essere «interessata a veri negoziati per porre fine alla guerra o a concessioni che il Cremlino considera come una sconfitta, specialmente con la sua superiorità militare sul campo». Dunque, dice, sta a Trump convincere Putin a negoziare e può farlo solo minacciando sanzioni contro i sistemi energetici e bancari russi, oltre a continuare a sostenere Kiev con armi e soldi. Non solo: l'adesione di Kiev alla NATO sarebbe l'opzione «più economica» per gli alleati occidentali dell'Ucraina, che inoltre rafforzerebbe Trump dal punto di vista geopolitico. E gli 800.000 uomini dell'esercito ucraino costituirebbero «un vantaggio per l'Alleanza», soprattutto se Trump tentasse di riportare a casa le truppe statunitensi di stanza nei paesi UE. Un sicuro “vantaggio”, certo: nel clima attuale di continua eroicizzazione euroliberale di fascismo e nazismo, bande neonaziste che scorrazzino per l'Europa sono proprio il toccasana.
Ma anche l'ex Ministro degli esteri della junta Porošenko, Pavel Klimkin, per quanto possa valere, oggi, la sua opinione, ha piagnucolato che la Casa Bianca sta mettendo a punto decisioni dolorose per l'Ucraina: Washington e Mosca stanno già discutendo sul futuro dell'Ucraina.
«Sono abbastanza sicuro che la questione tra loro sia almeno allo stato di sondaggio», dice Klimkin. E questo è «abbastanza logico. Le decisioni saranno difficili e brutalmente dolorose, non solo nel senso della politica, perché la politica, per definizione, è cinica, ma per voi e per me, per gli ucraini.... Non le riconosceremo legalmente, ovviamente, ma forse gli americani ci faranno pressione per riconoscerle politicamente... Forse gli americani diranno che ci stiamo muovendo verso l'opzione che c'era sotto l'URSS per i Paesi baltici, come tutti ricordano. Cioè, non erano riconosciuti, ma in generale non venivano applicate loro sanzioni, cioè vivevano in un certo spazio», ha detto Klimkin.
Ed ecco che si fa avanti, come c'era da aspettarsi, anche la “iena d'Europa”: che Zelenskij se ne rimanga pure a casa; ma, alle trattative, Varsavia dovrà esserci, proclama l'ancora per poco presidente polacco Andrzej Duda, sostenendo la corrispondenza di interessi di Varsavia e Kiev. Ed esprime la sua pretesa da vero “avamposto” yankee in Europa: «Se l'amministrazione Trump invita al tavolo dei negoziati», dice il sanfedista polacco, sicuro che spetti al solo presidente USA decidere chi “invitare” e chi no, «altri stati oltre a Ucraina e Russia, sarebbe nell'interesse dell'Ucraina che anche la Polonia fosse presente», ha dichiarato l'esponente di una cerchia politico-militarista che non ha mai smesso di tenere gli occhi puntati sui territori di Bielorussia e Ucraina occidentali.
Ovviamente, sia Duda che il “liberal-europeista” premier Donald Tusk, puntano a una presenza direttamente armata polacca nel quadro dell'ipotizzato “contingente di pace” che “vigili” sull'adempimento del possibile accordo. Va da sé che «io ho il diritto», ha sputacchiato Duda, di «mettere sul tavolo delle trattative la pretesa di inviare all'Ucraina l'invito di adesione alla NATO».
Certo; come no, risponderanno ossequiosamente da Mosca.