"Ciao conosci Amnesty? Ti piace quello che facciamo?"

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"Ciao conosci Amnesty? Ti piace quello che facciamo?"

di Leandro Cossu

Domenica mattina, mentre scartabellavo nelle bancarelle di un mercatino dell’usato, noto in piazza uno stand di Amnesty International. Prego per loro di non essere fermato. Dato che sono una persona di buon cuore, e con delle piccole esperienze di volantinaggio per motivi politici (che mi fanno conoscere la frustrazione di vedere la propria causa ignorata o irrisa dai passanti) decido, una volta intercettato, di trattenermi a parlare. Il dialogo, in realtà molto breve, va più o meno così:

“Ciao, sai cos’è Amnesty International?”

“Sì”

“E ti piace quello che facciamo?”

“Per niente”

La sua faccia si pietrifica.

“Perché?”

“Fondamentalmente per due motivi: avete ignorato i casi che più mi stanno a cuore, come quello di Julian Assange, per ragioni geopolitiche; e sempre per ragioni geopolitiche pompate casi mediatici come Navalny o quello del bielorusso arrestato da poco, Protasevich. Neonazisti dichiarati (Protasevich ha anche combattuto nel Battaglione Azov[1]) che non avreste mai difeso, giustamente, se fossero stati arrestati in Italia. E lo fate solo per ragioni di opportunismo”.

I casi sono due: o la ragazza in questione è conscia e consapevole delle incoerenze strutturali di Amnesty International, oppure ignora totalmente quello che sto dicendo (e magari ha pure difficoltà ad associare, per dire, il nome di Assange alla sua storia e al suo volto). Le sono offerte quindi tre possibilità:

  • Armata di conoscenza storica e geopolitica, avrebbe potuto rispondermi nel merito delle poche questioni da me citate, spiegandomi che, sì, tutto quanto quello che avevo detto era vero, ma che lo avevo sovradimensionato e frainteso rispetto alla reale economia delle campagne di Amnesty
  • Con più malizia e spirito mistificatore avrebbe potuto dirmi che ero nel torto, che Assange è una pericolosa spia russa e che Navalny e Protasevich sono degli eroi della democrazia e della libertà di parola in un est sempre più distante dall’Europa e dal liberalismo
  • Avrebbe potuto troncare ogni tentativo di dialogo e di conversazione liquidandomi il prima possibile

Sceglie, com’è ovvio, questa terza opzione. Dopo avermi invitato a firmare online “almeno l’appello per Patrick Zaky” (richiesta sussurratami, quasi temendo che potessi avere di che polemizzare anche sulla triste sorte dello studente egiziano), mi lascia andare con freddezza, lasciandomi la sgradevole sensazione che, se ci fosse stato un osservatore esterno, si sarebbe schierato dalla parte della ragazza vedendo in me il nemico. Ciò avvia una serie di considerazioni sulle modalità con cui i nati dopo il 1980, orfani delle grandi tradizioni ideologiche, esperiscono la propria dimensione politica.

Mancando una grande cornice narrativa dal respiro storico, l’attivismo si è insinuato nella sfera del Politico non solo al punto di sostituirla, ma di identificarsi con essa nel senso comune. Questa forma deteriore di attivismo (che non comporta nessuna forma di abnegazione verso una grande causa e nessuna contestazione reale, se non nella forma di tenui simulacri appoggiati e sostenuti dal Potere) si basa su tanti piccoli atti, tante campagne su temi mirati che non hanno niente in comune tra di loro se non l’autoevidenza della propria bontà. A ben vedere però possiamo distinguere due tipi di cause: quelle per cui l’autoevidenza è reale (sfido qualcuno a sostenere la violenza contro le donne, l’estinzione dei pinguini imperatore o la mancata verità sulla morte del nostro connazionale Giulio Regeni); quelle per cui l’autoevidenza è prodotta dal senso comune innestato dai media mainstream, come le sorti del “povero” neonazista Protasevich. Le differenze tra i due tipi si assottigliano fino al dissolvimento, poiché le soluzioni che vengono proposte e riconosciute come tali sono sempre quelle innestate dal senso comune dei grandi media, imponendosi quindi come dispositivo di propagazione ideologica del potere costituito a prescindere dalla bontà e dalla purezza della causa e dalla giustezza delle stesse soluzioni. Ogni tema scomodo, ogni problema connotato politicamente, ogni soluzione che esuli per un attimo dall’orizzonte d’attesa del senso comune che essi perpetuano è escluso dal dibattito, misconosciuto come problema e sussunto in categorie diffamanti appositamente per connotarlo negativamente agli occhi degli interlocutori. E così, persone di buon cuore e di animo ingenuo ma sprovviste di una formazione politica e di una tendenza alla demistificazione (o quanto meno alla malizia) vengono cooptate all’interno di organizzazioni di vario genere che incanalano la loro energia e il loro sentimento di indignazione per i mali del mondo verso forme di contestazione controllate per problemi che non vengono mai affrontati a livello strutturale.

La futilità politica e morale di queste campagne ha, consciamente o inconsciamente, gli obiettivi di ecumenicità e reciproco riconoscimento. Non ecumenicità tra la platea potenziale di ogni possibile interlocutore, si noti, ma il riconoscimento all’interno di una comunità autoeletta di elevati moralmente. La mia teoria, che approfondirò in un altro articolo sulla questione europea, è che la costruzione e la partecipazione di questa moralità sia una sorta di bene Veblen sociale, in qui l’unica cosa che conta, consapevoli o meno, è l’ostentazione della lontananza da ogni forma reale di miseria e difficoltà economica. Ogni forma di redenzione politica passerà per forza di cose attraverso una separazione traumatica tra Politica e attivismo. Al paradigma dell’attivismo post-moderno dovremmo sostituire, o meglio, riproporre, la Militanza nel senso più nobile del termine. Militare significa combattere, e per vincere una guerra c’è bisogno di tutte quelle virtù che l’attivismo esclude: l’organizzazione, la pazienza, conoscenza del luogo e del momento opportuno per agire, senso tattico e strategico, identificazione con la causa e, soprattutto, consapevolezza che alcune battaglie potrebbero essere sacrificate in vista della vittoria finale.

Vladimir Propp insegna che la struttura sottesa a ogni racconto è il turbamento di una situazione idilliaca e il ritorno dello status quo da parte dell’opera coraggiosa del protagonista buono. E siccome lo scopo della nostra parte politica dovrebbe essere il cambiamento radicale della società affinché cessi per sempre ogni forma di oppressione degli ultimi e dei subalterni tutti, dobbiamo iniziare a smettere di cercare di insinuarci in questa ipocrita moralità e iniziare a raccontare le cose per come sono: nella storia che racconteranno, noi non saremo i Buoni.


[1] https://www.pravda.com.ua/news/2021/05/26/7294937/

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