Cielo di Piombo. La guerra permanente nelle parole del capo della Nato
di Giacomo Marchetti
L’intervista di Marco Zatterin a Jens Stolteberg, ex premier norvegese che da tre anni guida il Patto Atlantico, permette di avere un quadro sintetico dell’orizzonte d’intervento – e del modus operandi – in cui si sta muovendo l’Alleanza.
Il giornalista ha posto una serie di domande al più alto rappresentante della NATO nel corso del Meeting di “Comunione e Liberazione” a Rimini nel giorno del 68° compleanno del Patto, pubblicando l’articolo su “La Stampa”.
L’occasione, il luogo e la tempistica in cui questa intervista è stata rilasciata sono di per sé significativi, e lo stesso titolo: A Napoli un ombrello Nato per aiutare la Ue sui migranti – al di là delle esigenze editoriali dovute alla contemporaneità dell’incontro con lo sgombero di Piazza Indipendenza a Roma – offre un angolo visuale interessante per collocare strategicamente la questione dei flussi migratori e della loro governance.
Nella fase attuale la Nato non appare affatto un residuato bellico della guerra fredda, ma sembra in grado di determinare un piano di intervento politico-militare preciso e ridefinisce la gerarchia di comando nella catena imperialista dentro le priorità dell’egemonia statunitense rispetto agli altri attori globali del mondo multipolare.
In questo senso, lo strumento militare non serve solo a fini geo-politici, ma si inserisce nello scontro tra differenti protagonisti dell’attuale contesa internazionale e ai tentativi di sottrarsi dalla subordinazione a Washington, siano essi intrapresi da un competitor come la Cina, da esperienze di riscatto continentale come il processo bolivariano in America Latina, da pivot di sviluppo regionale alternativo ai piani nord-americani come il progetto euro-asiatico, così come da singoli paesi invisi agli USA.
Nell’attuale contesto di crisi il ruolo del dollaro non può essere messo in discussione ed i centri del capitale finanziario, saldamente in mano nord-americana, non possono essere in alcun modo ostacolati nel consolidamento della loro influenza.
Si deve innanzitutto togliere ogni margine d’azione agli attori emergenti utilizzando l’asimmetria tra le capacità militari statunitensi e il resto del mondo per prevenirne lo sviluppo e riaffermare la leadership nord-americana anche nei confronti degli stessi alleati che perseguono obbiettivi specifici in politica estera come, nel caso della UE, la Germania ad est (ma non solo) e la Francia nelle sue ex-colonie in Africa come in Medio Oriente.
In questo senso la Nato non è la “camera di compensazione” dei conflitti tra i suoi membri, in grado di sanare le eventuali fratture tra le necessità di conservazione del dominio statunitense e l’affermazione di una politica estera dell’Unione Europea maggiormente definita: gli interessi delle oligarchie europee possono convergere o essere complementari con quelle del blocco di potere dominante negli USA, ma anche divergere ed essere contrastanti. Non bisogna sottostimare il ritmo e l’enfasi con cui l’UE si sta militarmente attrezzando per i suoi fini.
L’Alleanza è uno strumento di allineamento all’interno del Patto e di disciplinamento verso l’esterno, le cui prerogative non sembrano essere cedute in alcun modo.
In questo senso, una lettura attenta delle parole del massimo esponente della Nato permette di comprenderne il messaggio indirizzato anche alla politica italiana per un più stretto allineamento alle esigenze del Patto che devono dettare le linee guida dei policy makers nostrani.
Stolteberg giunge in Italia dove dopo una bilaterale col ministro Alfano, per parlare della Libia incontra il pubblico di CL. L’occasione non è casuale – chiosa l’inviato al Meeting – il 5 settembre decolla l’Hub per il Sud, all’ombra del Vesuvio con guida italiana.
Per comprendere di cosa si tratti e all’interno di quale cornice si inserisce ricorriamo alla sintetica descrizione di Manlio Dinucci fornita in un articolo: Per il Sud niente investimenti ma un hub di guerra, uscito per Il Manifesto il 13 luglio di quest’anno, scritto successivamente all’incontro avvenuto a Washington tra la Ministra della Difesa Pinotti e il capo del Pentagono James Mattis.
Il comando di cui parla è il Jfc Naples, il Comando della Forza congiunta alleata con quartier generale a Lago Patria (Napoli), agli ordini dell’ammiraglia statunitense Michelle Howard che, oltre ad essere a capo del Comando Nato, è comandante delle Forze navali Usa per l’Europa e delle Forze navali Usa per l’Africa.
I tre comandi di Napoli, sempre agli ordini di un ammiraglio statunitense nominato dal Pentagono, hanno un’«area di responsabilità» che abbraccia l’Europa, l’intera Russia, il Mediterraneo e l’Africa. La guerra alla Libia nel 2011, con il determinante contributo italiano – adesso Renzi dice che «fu un errore» -, è stata diretta dalla Nato attraverso il Jfc Naples.
Sempre da Napoli sono state condotte le operazioni militari all’interno della Siria. Questa è la prima causa del drammatico esodo di profughi e della «crisi dei migranti che l’Italia sta vivendo quasi in solitudine», come l’ha definita a Washington la ministra Roberta Pinotti quasi che fosse una maledizione caduta dal cielo.
Il nuovo Hub per il Sud, rientrante anch’esso nella catena di comando del Pentagono, costituirà la base operativa per la proiezione di forze terrestri, aeree e navali. Le forze e le armi necessarie saranno fornite dall’intera rete di basi Usa/Nato in Italia, in particolare Aviano, Camp Darby, Gaeta, Sigonella, Augusta, mentre la stazione Muos di Niscemi e altre si occuperanno delle comunicazioni.
Per tali operazioni, che la Nato definisce «proiezione di stabilità oltre i nostri confini», è disponibile la Forza di risposta della Nato, aumentata a 40 mila uomini, in particolare la sua Forza di punta, che può essere proiettata in 48 ore «ovunque in qualsiasi momento».
Napoli diverrà quindi un centro sempre più nevralgico per le strategie dell’Alleanza, il cuore di una macchina bellica che non sembra avere significative battute d’arresto, né ripensamenti di alcuna sorta nonostante gli effetti nefasti del suo operato siano sotto gli occhi di tutti: destabilizzazione di aree e assetti territoriali sempre più vasti, ingenti flussi migratori, attacchi terroristici in tutto il continente…
Torniamo all’intervista e partiamo dall’ultima domanda del giornalista, considerando che numerosi passaggi dell’articolo sono dedicati ai rapporti tra la NATO e la Federazione Russa.
Nel linguaggio diplomatico dell’ex Premier norvegese: i russi si sono fatti più assertivi.
Alla domanda: L’Italia partecipa all’operazione sui confini orientali. Le hanno promesso di aumentare il contingente? Il capo dell’alleanza risponde: Non per ora. Gli italiani saranno nella forza multinazionale in Lettonia. Inoltre hanno dei caccia sui cieli bulgari e – fatto del tutto rilevante per il ruolo attivo che svolgerà il nostro Paese nell’”accerchiamento” della Federazione e nell’accelerazione della tendenza alla guerra – nel 2018 verrà il comando della forza comune di rapido intervento. Un segnale forte conclude Stoltenberg.
Questi tre fatti permettono di cogliere l’indirizzo sostanziale della Ostpolitik italiana, andando oltre le narrazioni “cerchiobottiste” che ci vengono propinate dai media, e fanno quindi intravedere il perdurare di una situazione di criticità per la soluzione di alcuni dossier in cui il ruolo che svolge la Russia è del tutto primario, come l’Ucraina e la Siria, o non del tutto secondario come per la Libia, nonostante alcuni pezzi di borghesia nostrana stiano pagando a caro prezzo le scelte compiute rispetto a questi teatri di guerra.
Che la Federazione Russa, anche per propri fini, persegua una guerra senza quartiere e senza esitazioni al “terrorismo islamico”, che vede come una minaccia primaria per il ruolo destabilizzante che ha avuto all’interno dei propri confini, o in generale nell’area post-sovietica, e per la sequela di stragi sul proprio territorio e che cerchi di inibire ogni processo di “radicalizzazione islamica” di una importante componente della sua popolazione, poco o nulla importa.
Il contributo che sta dando la Russia contro il terrorismo internazionale è un fatto da cui bisogna distogliere l’attenzione e che non bisogna citare affinché non diventi di dominio pubblico lo sforzo profuso in questa direzione dalla Federazione e d’altro canto rimosse le responsabilità occidentali nell’avere allevato o sostenuto questa serpe in seno anche all’interno delle proprie società, pensando di poterla gestire per i propri fini di politica estera in Asia, nel Caucaso, nei Balcani, nel Nord Africa e nel “Medio Oriente”.
Dalle parole del massimo esponente della Nato, sembra trapelare una indicazione precisa: non ci sono margini per una azione diplomatica italiana che non sia allineata ai Diktat dell’Alleanza rispetto alla Russia che deve di fatto, nei piani della Nato dismettere la sua assertività, cioè piegarsi a suoi fini politici.
In generale ciò che traspare dall’intervista è un protagonismo a tutto tondo e a tutto campo dell’Alleanza all’interno di un arco geografico ampio, in primis a livello di intelligence: migliorare il modo in cui capiamo e analizziamo la situazione nell’Africa del Nord e nel Medio Oriente ma anche operativo a partire dall’Afghanistan, la nostra più grande operazione militare.
Stoltenberg cita esplicitamente Giordania, Tunisia e Libia per aiutare questi paesi a ritrovare la stabilità che serve la sicurezza. Formare forze locali è una delle nostre armi migliori per combattere il terrorismo.
Qui vengono affermati due principi cardine dell’intervento della NATO, che potremmo definire in questo modo: il diritto di spiare, meglio e per primi, rispetto agli altri, mantenendo quell’impenetrabile cortina di segretezza sul proprio operato di cui nulla è dato sapere, e in secondo luogo, il diritto di ingerenza di stampo neo-coloniale sui Paesi che rivestono un ruolo rilevante nelle strategie dell’Alleanza.
Non potrebbe essere più palese l’affermazione della dissoluzione di ogni più basilare principio anche democratico-borghese di fronte alle necessità belliche del Patto, lo svuotamento di ogni istanza minima di indirizzo della politica che rivendichi una qualche forma di sovranità, l’impossibilità di controllo su di un organismo rispetto a questioni strategiche: un episodio della “lotta di classe dall’alto” che le élites al potere impongono alle classi subalterne che come una opzione hanno il fornire un consenso passivo nei confronti dell’operato degli eredi del Dottor Stranamore, senza disturbare in alcun modo chi detiene saldamente le leve del comando.
Per tornare all’argomento che ispira il titolo dell’intervista, e alla natura del rapporto tra NATO e UE rispetto ai flussi migratori: sosteniamo gli sforzi della UE. Lo abbiamo fatto nell’Egeo per agevolare l’accordo con la Turchia che ha tagliato i flussi dei rifugiati. Ora siamo nel Mediterraneo centrale con la missione “Sea Guardian” e collaboriamo con “Sophia” […]Abbiamo navi, aerei e sottomarini nella zona. Forniamo supporto logistico e di informazioni all’UE, sebbene quella delle migrazioni sia una responsabilità europea e non direttamente nostra.
La militarizzazione del governo dei flussi è la soluzione alle conseguenze create dall’instabilità globale, secondo l’ex premier norvegese e la NATO svolge un ruolo chiave.
Ora, i fronti di guerra si estendono e i conflitti, invece che giungere ad una soluzione si inaspriscono in un “arco di instabilità” che fa sembrare il mondo una gigantesca trincea: la terza guerra mondiale a pezzi di cui a parlato il Pontefice. Questo non può che portare ad un aumento del flusso dell’umanità errante, che trova “ospitalità” nei Paesi del Sud del Mondo più che nella Fortezza Europa, come dimostrano in maniera molto eloquente i dati sulla dislocazione geografica dei profughi a livello mondiale. Alla politica occidentale, tra cui l’Italia, non rimane che sfruttare questo fenomeno che si cronicizza ottimizzando i modi in cui è stato finora utilizzato: la nascita di un fiorente business dell’(in)accoglienza possibile grazie al quadro legislativo dato e alle pratiche concrete dello stato; un abbassamento del costo del lavoro complessivo in alcuni settori rilevanti dell’economia del Sistema-Paese; la creazione di una testa di ponte per dare credito agli imprenditori politici del razzismo assecondandone l’indirizzo per legittimare, introducendole, politiche sempre più “segregazioniste” e “liberticide” ed una cultura della 2de-solidarizzazione” che mina alla base la possibilità della costruzione di un blocco sociale antagonista agli interessi della classe dominante.
In questo senso lo sfruttamento della componente immigrata delle classi subalterne avviene a più livelli: sfruttamento del lavoro vivo, speculazione sulla condizione in cui si trova a vivere a tutti i livelli, creazione ideologica di un “nemico interno” nelle fasce popolari della popolazione.
Appare chiaro che senza un indirizzo politico che riproponga il tema dell’opposizione alla guerra come chiave di risoluzione del razzismo a tutti i suoi livelli ed una inversione dell’indirizzo sempre più marcatamente bellicista del governo italiano, rimaniamo “disarmati” anche rispetto alla possibile escalation verso una mobilitazione reazionaria di massa, fomentata anche grazie all’ipotesi non peregrina di un attacco terroristico di matrice Jihadista all’interno dei nostri confini. Come dice un proverbio jugoslavo: la paura mangia l’anima.
L’assoluta centralità del nostro Paese per i piani dei “signori della guerra” nell’area euro-mediterranea sembra essere un fatto assodato per gli strateghi delle élites che governano il Pianeta. L’attuale torsione autoritaria non è solo una pesante eredità della mancata dis-continuità dello stato repubblicano con quello fascista, né solo un lascito dell’ingombrante arsenale maturato – e o poi aggiornato – nel corso degli anni che hanno visto manifestarsi (per durata ed intensità) il più cruento conflitto di classe nel Continente, ma un riflesso preciso “sul fronte interno” delle strategie belliche imposte dalla competizione globale.
Occorre acquisire questo dato e farlo divenire centrale nell’agenda politica a venire. La Piattaforma politico-sociale Eurostop, insieme a tutti i soggetti interessati, lavora in questa direzione per sostanziare le parole d’ordine contro la Nato e l’Unione Europea: l’Italexit è un processo di rottura a cui dobbiamo tendere e a cui dobbiamo puntare come strategia d’uscita in un contesto dove l’assuefarsi passivamente alla catastrofe è il mantra che le classi dirigenti ci propinano.
Oggi più che mai: chi fa la guerra non va lasciato in pace.
Il testo integrale dell’intervista è reperibile sul sito de “La Stampa”
Il testo di M.Dinucci è reperibile sul sito de “Il Manifesto”
https://ilmanifesto.it/per-il-sud-niente-investimenti-ma-un-hub-di-guerra/
Questo articolo compare in contemporanea su Contropiano e l'AntiDiplomatico