Cina: lo Xinjiang denuncia la propaganda e le ingerenze statunitensi

Cina: lo Xinjiang denuncia la propaganda e le ingerenze statunitensi

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di Giulio Chinappi

La 67ma Conferenza sulle questioni relative allo Xinjiang si è svolta lo scorso 13 gennaio a Pechino, condannando fermamente la propaganda anticinese e le ingerenze degli Stati Uniti nella politica interna della Cina.

Il 13 gennaio, Pechino ha ospitato la 67ma Conferenza sulle questioni relative allo Xinjiang, organizzata dalle autorità della Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang. Questo ciclo di conferenze si è reso necessario per rispondere alle falsità propagandate da alcuni mass media e governi occidentali, in particolare negli Stati Uniti, che in questo modo tentano di denigrare tanto il governo regionale quanto quello centrale della Repubblica Popolare Cinese.

L’evento, come da tradizione, è stato aperto da Xu Guixiang, portavoce del governo della Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang. Nella sua presentazione, Xu ha fatto riferimento ad una legge approvata lo scorso 23 dicembre negli USA, denominata Uygur Forced Labor Prevention Act. Questa legge rappresenta un precedente molto pericoloso e viola ogni principio del diritto internazionale, in quanto si tratta di una legge riguardante la politica interna di un Paese terzo. Secondo Xu, la legge “ignora i fatti, diffama le condizioni dei diritti umani nello Xinjiang” e soprattutto è volta a “rovinare lo sviluppo” della regione, attraverso le sanzioni imposte alle imprese locali. Ancora, la legge “interferisce bruscamente negli affari interni della Cina elaborando schemi per contenere lo sviluppo della Cina attraverso questioni legate allo Xinjiang. Incontra una forte condanna da parte del popolo cinese e di coloro nella comunità internazionale che cercano di difendere la giustizia”.

Gli Stati Uniti mirano a creare “disoccupazione forzata” e “povertà forzata”, violare i diritti umani di tutti i gruppi etnici compresi gli uiguri e minare la buona situazione di stabilità e armonia sociale, pace e contentezza del suo popolo nello Xinjiang piuttosto che salvaguardare i benefici di cui godono gli uiguri”, ha proseguito il portavoce. “L’accusa che ci sia il cosiddetto “lavoro forzato” nello Xinjiang è semplicemente una pseudo-affermazione. Lo Xinjiang sostiene una filosofia incentrata sulle persone, tiene alta la bandiera dello stato di diritto socialista, si attiene rigorosamente alla Costituzione cinese, alle leggi e ai regolamenti e implementa attivamente gli standard internazionali del lavoro per garantire pienamente i diritti del lavoro delle persone di tutti i gruppi etnici”, ha aggiunto.

Questa volta, la conferenza ha visto la partecipazione anche di illustri ospiti provenienti da altri Paesi, che hanno potuto portare la propria testimonianza. Il primo a prendere la parola è stato Ali el-Hefny, ex viceministro degli Esteri dell’Egitto ed ex ambasciatore dell’Egitto in Cina, intervenuto in collegamento video. El-Hefny è anche noto nell’ambiente accademico egiziano come uno dei massimi esperti sulla Cina. “Nessun altro Paese ha affrontato tante sfide e difficoltà come la Cina. Con un quinto della popolazione mondiale, la Cina possiede un vasto territorio e confina con 10 Paesi diversi fra loro”, ha esordito il diplomatico nordafricano. “Dobbiamo riconoscere che dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949, diverse generazioni dei suoi leader hanno ottenuto grandi risultati che la maggior parte dei Paesi del mondo non ha ottenuto, il che è un miracolo”.

Il Partito Comunista Cinese è stato molto preoccupato per le situazioni delle aree di confine occidentali della Cina, in particolare dello Xinjiang, perché infiltrato da alcune organizzazioni straniere e da alcuni atti terroristici violenti”, ha affermato el-Hefny entrando nello specifico sulle questioni relative allo Xinjiang. “In effetti, il governo cinese ha intrapreso molte azioni per proteggere la pace e la stabilità nella regione. Le azioni sono orientate a consentire alla regione di godere dei benefici dello sviluppo come fanno le altre parti della Cina e garantire che goda di uguale attenzione e sostegno come fanno le altre parti della Cina”.

Nessuno è nella posizione di insegnare alla Cina come proteggere la pace e la stabilità nella regione”, ha proseguito il rappresentante egiziano. “Ci sono altri Paesi che intendono offuscare l’immagine della Cina, minare la sua reputazione e sabotare la sua pace, stabilità e sicurezza. Questi tentativi falliranno sicuramente, e questi complotti, in particolare i complotti delle sanzioni, non dovrebbero continuare”.

Il secondo ospite ad intervenire è stato Hiroshi Ohnishi, professore dell’Università di Keio. L’accademico giapponese ha visitato lo Xinjiang in ben undici occasioni, conducendo studi circa le minoranze etniche locali e producendo una importante letteratura scientifica al riguardo. “Circa vent’anni fa, gli studenti dell’Università dello Xinjiang andavano a raccogliere cotone durante le vacanze estive”, ha ricordato. “Diversi decenni dopo, con il miglioramento dell’automazione della raccolta del cotone, ora l’85% della raccolta del cotone viene eseguito automaticamente”. Il professor Ohnishi ha anche dimostrato come le foto mostrate dai mass media occidentali dei raccoglitori di cotone nello Xinjiang siano in realtà foto vecchie, visto che oggi l’agricoltura della regione è altamente meccanizzata.

Ohnishi ha anche affrontato il tema dei presunti spostamenti forzati della popolazione, argomento sul quale ha condotto una ricerca nel 2010 nella prefettura di Kashgar: “La gente del posto mi ha detto che lavorare in altre parti della Cina attraverso il trasferimento di manodopera ha permesso loro di migliorare il proprio tenore di vita e che non sono stati costretti. Non c’è stato alcun trasferimento forzato ed erano tutti molto felici di avere tali opportunità”, ha raccontato. “Pertanto, la mia conclusione è che il “lavoro forzato” propagato dai media occidentali è falso e fabbricato. La propaganda dei media occidentali ha intensificato la divisione etnica e ha peggiorato la situazione”, ha concluso.

Yu Fengchun, professore dell’Università dello Zhejiang, ha analizzato le politiche portate avanti dagli Stati Uniti con il fine di destabilizzare la Cina. Secondo l’accademico, Washington sostiene la cosiddetta “indipendenza di Taiwan” e supporta i gruppo separatisti del Turkestan Orientale (ovvero l’area della Cina di popolazione musulmana, i cui confini cambiano a piacimento dei gruppi anticinesi) al fine di causare lo smembramento della Repubblica Popolare Cinese.

Xie Guiping, proveniente dalla stessa Università dello Zhejiang, ha ribadito questo concetto, aggiungendo che “gli Stati Uniti colgono l’occasione di considerare i “diritti umani” come una questione morale in modo da conquistare l’attenzione e il sostegno della comunità internazionale sulla base della mentalità della “nuova guerra fredda” e della considerazione geopolitica”. Secondo il professor Xie, gli obiettivi reali di Washington sono di “isolare, limitare, bloccare, contenere, sanzionare e reprimere lo sviluppo e l’ascesa della Cina”.

La propaganda anticinese sullo Xinjiang non è dunque altro che un nuovo tassello delle politiche imperialiste ed egemoniche perpetrate dagli Stati Uniti, che ora si vedono costretti ad aumentare la propria aggressività di fronte ad una Cina che mette sempre più a repentaglio quel primato assoluto che Washington ha tentato di costruirsi dopo la fine dell’Unione Sovietica.

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