Crisi e rivoluzione: pianificare è meglio che curare

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Crisi e rivoluzione: pianificare è meglio che curare

1.      Catastrofe o rivoluzione è l’ultimo di una serie di contributi pubblicati nell’ultimo libro di Emiliano Brancaccio[1] . Si tratta di un saggio breve ma denso di eccezionale valore, caratterizzato da un grande suo coraggio intellettuale, morale, politico e ideologico volto a combattere l’appecoronamento generalizzato su posizioni piccolo-borghesi e disfattiste, e nel riaffermare in modo moderno le ragioni del socialismo. Questo lavoro cade come un macigno possente nella morta gora del deprimente Rome Consensus, affollato di economisti e pseudo-economisti borghesi e giornalisti prezzolati atterriti da qualsiasi ipotesi di tassazione della ricchezza loro e (soprattutto) dei  loro padroni, che ripetono incessantemente e panglossianamente nel mezzo dell’attuale catastrofe un’apologia del capitalismo basata su ipotesi e teorie ormai ridicolizzate dalla storia dopo essere state falsificate dalla logica, che andavano di moda negli USA alcune decine di anni fa (la Trumpnomics, a confronto, appare moderna e avanzata come lo era l’esistenzialismo rispetto alla tomistica). Speriamo che faccia un bel botto e generi una grande onda intellettuale rinnovatrice.

2.      La tesi di fondo di Brancaccio sostiene che le contraddizioni sistemiche del capitalismo “selvaggio” siano irredimibili, e che l’attuale sistema dominate debba essere sostituito dalla pianificazione collettiva (p.185). Nella migliore tradizione marxista la pianificazione rappresenta la forma più alta attraverso la quale la classe lavoratrice organizza razionalmente e collettivamente il proprio futuro, per massimizzare il benessere e la libertà di tutti (anche intesa come libertà individuale).  Nella sostanza, quindi, non si può che condividere la tesi di fondo di Brancaccio. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, e per realizzare nella pratica la  pianificazione collettiva si deve faticare parecchio. Si  poteva pensare che questa impresa fosse “facile” prima che si cercasse di accendere i fornelli della cucina dell’avvenire – lo stesso Lenin sembra avere ritenuto inizialmente di potere abolire il denaro subito dopo la presa del potere, salvo ricredersi rapidamente perché era una persona seria (vedi Giacche’ 2017)[2] – che non sempre erano pulitissimi e a volte facevano bruciare lo stufato. Adesso sappiamo che nella pratica la pianificazione implica una forte dose di centralizzazione tecnocratica e di limitazione delle libertà individuali, e finora ha funzionato al meglio (sempre con risultati tutt’altro che perfetti) in sistemi dominati da un forte partito guida. A mio parere, si deve quindi riconoscere che esiste una contraddizione intrinseca tra libertà e necessità anche in questo campo, e cercare di gestirla dialetticamente e pragmaticamente in modo efficace e intellettualmente e politicamente onesto, nei limiti del possibile.

 

Brancaccio non affronta sistematicamente questo problema in questo breve saggio, ma certamente non ne può essere inconsapevole, come conferma indirettamente sul piano epistemologico nel propugnare il “Logos come scienza …scienza non parziale ma generale…quindi inevitabilmente colma di vuoti come un formaggio svizzero…solo una visione generale consente di visualizzare quei vuoti, e quindi crea le premesse per tentare di perimetrali e superarli” (p.185).

Logos come scienza è una formulazione eccellente, perché riconosce direttamente la natura dialettica delle scienze sociali (che, anche per questo, sono a mio parere diverse da quelle hard, nelle quali la dialettica non ha ragion d’essere). Altrettanto benvenuta è la rivendicazione della tensione olistica che deve permeare lo sforzo del ricercatore, pur consapevole del valore della conoscenza specialistica e delle inevitabili limitazioni della frontiera della conoscenza, pur in continua espansione.

Brancaccio ritiene inoltre che “Nella polemica con Myrdal sullo statuto scientifico dell’economia, Milton Friedman aveva ragione: non vi e’ motivo di ritenere che quella economica sia scienza “molle” rispetto alla fisica, alla chimica e in generale alle cosiddette scienze dure” (pp.186-187). L’autore ha senz’altro ragione   nel sostenere che le scienze sociali (tra le quali vi è l’economia) devono essere intese e praticate come scienze a tutti gli effetti, con la massima attenzione per le verifiche empiriche. Non sono invece d’accordo con il considerare il loro statuto epistemologico del tutto analogo alle scienze dure. Anche la migliore teoria economica sostenuta dagli strumenti statistici ed econometrici più sofisticati non può pretendere di fornire previsioni (più o meno) certe oltre il medio periodo, mentre la fisica può prevedere esattamente la posizione di una stella distante anni luce tra migliaia di anni. La ragione, come è noto, non è misteriosa, e dipende dal numero di variabili che le diverse scienze devono studiare e dalla quantità di informazioni che si possono ottenere sul loro comportamento. Da un punto di vista ideologico, inoltre, temo che accettare la tradizionale posizione ortodossa che vede l’”economics”come una scienza dura possa rischiare di oscurare involontariamente alcuni elementi critici importanti della vulgata neoclassica. A questo proposito, è particolarmente importante la natura fittizia dell’homo economicus, che è stata confermata recentemente (in questo caso, in modo molto hard) dalle scoperte delle neuroscienze. D’altra parte, affermare come fa Brancaccio “ma pure la scienza critica..ispirata all’analisi marxiana..uno stadio poco più che embrionale.”  (p.188).  Secondo cho scrive questa è una posizione un po’ troppo modesta e difensiva, ma forse mi faccio trascinare dall’ ottimismo della volontà.

 

 

3.      L’autore sottolinea correttamente “l’esigenza di stabilire un collegamento fra la teoria della “riproduzione” e della crisi capitalistica da un lato, e la teoria delle leggi di tendenza del capitale dall’altro… (che e’) indispensabile per tentare di delineare un criterio d’indagine dei crocicchi del processo storico” (p.189).

E’ quindi necessario arrivare a una sintesi coerente, individuando e delineando “una legge di riproduzione e tendenza, ovvero la tendenza alla centralizzazione del capitale” (p. 190). Il fatto che il capitalismo tenda per sua natura alla centralizzazione dovrebbe apparire ovvio a qualsiasi marxista o anche a un semplice osservatore superficiale ma obbiettivo della realtà, ma cozza contro l’irenica visione apologetica dei neoclassici, basata sui tradizionali miti della produttività marginale decrescente e della concorrenza perfetta[3]. Non è quindi superfluo e ridondante come potrebbe sembrare il riuscito contributo di Piketty, volto a confermare statisticamente in modo rigoroso questa tendenza alla centralizzazione del capitale. Brancaccio gliene rende il giusto merito, pur non mancando di rilevare l’assoluta inconsistenza teorica dell’economista francese.

Alcune pagine dopo, l’autore osserva che “Il regime contemporaneo di centralizzazione…somiglia sempre piu’ al vecchio feudalesimo che allo scintillante capitalismo rivoluzionario delle origini” (p. 194). Sul fatto che il capitalismo del secolo XXI sia sempre più regressivo ci sono pochi dubbi. Tuttavia, molti osservatori – tra cui, pur senza avere la capacità teorica di rendersene conto adeguatamente, lo stesso Piketty nel suo ultimo libro[4] – ritengonoche lo scintillante capitalismo rivoluzionario delle origini  sia esistito solo nei libri dei sicofanti e  degli apologeti (tra i quali non si possono certo classificare  i grandi classici come Smith o Ricardo, che pur sostenendo come poi Marx la natura in un certo senso progressiva del capitalismo non ne nascondevano le molte contraddizioni e miserie morali), mentre il capitalismo realmente esistente si e’  nutrito soprattutto di accumulazione originaria fino a dopo la prima guerra mondiale[5] .

4.      Quali prospettive ci sono per uscire dal buco nero del decadente e sempre più speculativo (p.200) capitalismo neoliberale? Brancaccio ritiene che la polarizzazione indotta dalla logica capitalista induca una tendenziale uniformizzazione delle condizioni della classe subalterna (p.203), ma questa realtà è offuscata (oltre che dalla ideologia dominante) dalla tendenza alla precarizzazione e atomizzazione del lavoro, e quindi non favorisce quasi “automaticamente” il sorgere della coscienza di classe e della fratellanza tra i lavoratori come nell’epoca d’oro della grande fabbrica. Come nel passato, “una sintesi keynesiana potrebbe nascere solamente sotto il pungolo del pericolo socialista” , ma Brancaccio molto opportunamente mette in guardia contro il possibile carattere non rivoluzionario ma reazionario o addirittura fascistoide delle nuove politiche keynesiane, che si risolverebbero in una sorta di helicopter money for the petty bougeoisie (pp. 195-197)[6].

5.      Brancaccio conclude gramscianamente che non vi sono scorciatoie: “è necessaria una paziente opera di costruzione, in un lavoro di edificazione di una nuova intelligenza collettiva …occorre che l’intelligere di classe si riunifichi, pensi e agisca intorno a una chiave… una bandiera per l’egemonia.” Questa chiave è “il piano. Ecco finalmente una leva forte, la piu’ forte mai concepita nelle lotte politiche”. (pp.208-209). Come non essere d’accordo?

E’ lecito tuttavia, come nota finale, esprimere qualche perplessità sul fatto che l’autore sembri un po’ troppo condizionato dal pessimismo dell’intelligenza, come se fossimo ancora all’anno zero anche da un punto di vista dei rapporti di forza mondiali tra le classi e le ideologie. Brancaccio ritiene che “una intelligenza collettiva rivoluzionaria e’ tutta da costruire” (p. 212), anche “perché per  quanto qui non si condivida del tutto la tesi di Ronald Coase (Coase e Wang 2004)[7]-secondo cui la Cina sarebbe ormai una economia capitalistica a tutti gli effetti – di quel grande conflitto di sistema non vi e’ traccia nel mondo”(p.195).Mah, Trump, Biden, Rampini, Il Corriere della Sera, i Five Eyes, i paladini dei diritti umani e dell’American Way of Life, e la professoressa Termini citata dall’astuto Prof. Monti in un altro capitolo del libro (p.177) sembrano pensarla diversamente: sono ben più realistici di Coase e della sua ridicola tesi. A mio parere, il modello di socialismo di mercato di Cina e Vietnam, pur imperfetto e “primitivo”, ha già sviluppato caratteristiche sistemiche abbastanza coerenti, stabili, e sostenibili. Questo modello presenta quindi un nucleo fondamentale che rende la sua “lezione”universale, e quindi potenzialmente applicabile anche nei paesi capitalistici centrali, mantenendo la democrazia pluripartitica, la libertà di stampa e le altre caratteristiche positive della tradizione occidentale. In fondo le partecipazioni statali c’erano anche nell’Italia democristiana. Ma so bene che la mia è una posizione molto minoritaria.

6.  Insomma, andatevi a leggere questo saggio. Ci metterete mezz’ora – anche se per capirlo bene forse ci vorranno anni, a voi come a me. 

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