Da Gramsci a Mazzini: patria, umanità e internazionalismo
Attualmente il mondo sta attraversando un’epoca di cambiamenti rivoluzionari dalla portata mai vista almeno da un secolo. Le forze dell’egemonia statunitense arretrano e sono ovunque in difficoltà, mentre le varie istituzioni sottoposte a Washington, dall’Unione Europea ai singoli Stati dell’Occidente “allargato”, sperimentano sempre di più la contraddizione tra un’eterodirezione dagli effetti suicidi e la necessità delle classi dirigenti locali di mantenere un determinato livello di razionalità nelle politiche per assicurarsi un minimo di stabilità e la possibilità di continuare a svolgere il ruolo a loro indicato dagli USA, quello di cinghia di trasmissione tra il potere imperiale e le più o meno “autonome” province, arricchendo nel mentre se stessi e i rispettivi padrini dell’alta finanza.
Al contrario avanzano e si fanno più forti le istanze di chi vorrebbe trasformare l’attuale realtà internazionale rivedendo profondamente le dinamiche della globalizzazione, tutelando l’indipendenza nazionale e le specificità culturali, promuovendo modelli di sviluppo alternativi a quelli imposti dal Washington Consensus e fondati sui bisogni delle masse. Queste istanze si concentrano nella costruzione di un mondo multipolare e di una comunità umana dal futuro condiviso.
A guidare questo processo, per peso economico e politico ma anche per maturità e capacità delle classi dirigenti, sono indiscutibilmente paesi come la Repubblica Popolare Cinese, la Federazione Russa e la Repubblica Islamica dell’Iran. Ma ciò non significa che questa sia una lotta di un blocco di pochi paesi, con interessi totalmente separati e distinti rispetto a quelli della stragrande maggioranza dell’Umanità. Al contrario, accanto ad essi vi sono numerosi altri Stati, organizzazioni multilaterali, partiti e movimenti di liberazione che in ogni parte del mondo e con diversi gradi di coerenza, impegno, forza ed efficacia mostrano il proprio carattere progressivo lottando contro l’imperialismo e l’egemonia statunitense, che altro non è che il punto apicale storicamente raggiunto dal potere del capitale monopolistico finanziario. Possiamo menzionare ovviamente i BRICS e la SCO, il Venezuela e la Bielorussia, Hezbollah e gli Economic Freedom Fighters, ma anche l’ASEAN e la UEEA, la Turchia e l’Indonesia, lo SMER slovacco e il BSW tedesco.
Per quanto lo scontro in atto possa essere rappresentato in un certo senso come “Sud contro Nord” e “Periferia contro Centro”, ciò non sta a significare che i paesi attualmente subalterni al regime egemonico di Washington non possano trovare anch’essi una collocazione nel nuovo mondo multipolare e partecipare all’opera di edificazione di un mondo diverso. Ciò richiederebbe ovviamente in prima battuta una decisa rivoluzione politica, un rinnovamento pressoché totale della classe dirigente e degli apparati statali, ma, al netto della complessità data dalla debolezza relativa dei movimenti di liberazione nei paesi dell’Occidente “allargato”, non si tratta di compiti impossibili da realizzare.
L’operatività politica per portare a un’Italia indipendente capace di esistere come tale in un mondo multipolare non è l’oggetto di questo scritto. Ci si vuole invece concentrare su un aspetto particolare, spesso dimenticato ma di fondamentale importanza: le risorse spirituali di cui l’Italia può dotarsi affinché ciò avvenga.
Per risorse spirituali intendo il patrimonio storico, culturale, morale e ideale che influenza e determina quelle “caratteristiche italiane” che il nostro modello di sviluppo, politico, sociale e di relazioni internazionali dovrà avere. I grandi successi ottenuti dalla RPC nella costruzione di un modello socialista eminentemente cinese sarebbero stati inconcepibili senza una concreta collocazione delle fasi di sviluppo inaugurate col 1949, e ancor prima col 1921, nell’ambito della plurimillenaria civiltà cinese, cosiccome la Cina non disporrebbe oggi di quella confidenza confidenza culturale e di quell’orgoglio nazionale necessari a rivendicare la parità di dignità di ogni popolo e a condannare le pratiche egemoniche atte a gerarchizzare l’Umanità. Al contrario, gran parte dell’attuale società italiana ha ormai interiorizzato la sudditanza rispetto al potere imperiale, la sfiducia in se stessi e una mentalità “auto-coloniale” che giustifica, se non agogna apertamente, il delegare a un potere esterno, o comunque il più lontano possibile dalle masse popolari, la gestione della Cosa Pubblica. Non solo questa situazione impedisce lo sviluppo di un movimento di liberazione che possa rendere l’Italia parte dell’incipiente mondo multipolare, ma influenza subconsciamente anche le stesse forze patriottiche, instillando sfiducia verso il popolo e atteggiamenti “codisti” rispetto alle più grandi forze impegnate nella lotta anti-egemonica. L’idea che basti aspettare la vittoria militare della Russia o l’ascesa economica della Cina affinché l’Italia possa liberarsi e dare il via a un proprio autonomo percorso di sviluppo è completamente errata ed è la manifestazione dell’arretratezza di molte di quelle forze che si richiamano al multipolarismo nel nostro paese. L’imponente trasformazione mondiale che avanza sotto i nostri occhi è ovviamente destinata a influenzare anche il destino dell’Italia, ma la misura e il modo in cui lo farà dipende da come sarà condotta la lotta politica all’interno del nostro paese e dai risultati che riuscirà ad ottenere. Nessuno può garantire che, col collasso dell’Impero statunitense, l’Italia non finisca semplicemente per disgregarsi o crollare sotto il peso dell’incapacità di un’esistenza autonoma e indipendente. Per questo è essenziale lavorare affinché esistano già a partire da oggi una classe dirigente alternativa, un contropotere popolare e una crescente coscienza politica e ideologica. Ma tutto questo dipende (anche) dallo sviluppo di quelle risorse spirituali senza cui ogni programma di liberazione non sarebbe che il frasario di qualche circolo intellettuale.
L’Italia dispone di queste risorse? Assolutamente sì. Anche noi possiamo vantarci di una civiltà plurimillenaria, una civiltà tra le più prodighe a livello mondiale se si tiene conto del contributo dato allo sviluppo dell’Umanità. Dall’antica Roma all’Italia gota e bizantina, dai comuni medievali alla Chiesa romana, dal Rinascimento all’Illuminismo, dal Risorgimento alla Resistenza, l’Italia dispone di un immenso patrimonio spirituale da porre al servizio della liberazione nazionale, della costruzione socialista, dell’elaborazione di un autonomo percorso di sviluppo e della comune lotta per la costruzione di un mondo multipolare e di una comunità umana dal futuro condiviso.
Si tratta di un argomento mastodontico, che non si ha pretesa di esaurire in queste poche righe. Ci si limiterà a toccare un tema, quello del rapporto tra universale e particolare, di come declinare in maniera dialettica e non escludente la specificità nazionale con l'universalità, preservando al contempo l’indipendenza nazionale, intesa in maniera integrale, e una prospettiva che abbracci la totalità dell’Umanità. Un tema di notevole importanza se si considera come all’ordine del giorno vi sia una ridiscussione profonda della globalizzazione, con la messa in discussione dell’egemonia statunitense anche dal punto di vista del suo impatto nefasto sulle culture nazionali, negate a favore di una liquida identità imperiale schiacciata sul neoliberismo, sul postmodernismo e sul suprematismo.
Antonio Gramsci e l’internazionalismo come punto d’approdo della civiltà italiana
Tra tutti gli esponenti del movimento comunista italiano, Antonio Gramsci rappresenta quello più profondamente in sintonia con la Storia e la cultura d’Italia. Egli dedicò numerosissime pagine di fitti appunti alla letteratura, alle vicissitudini politiche, antiche e moderne, e ai fenomeni sociali del nostro paese. Nell’agone della lotta politica seppe trovare proprio dalla Storia italiana gli strumenti atti a rendere possibile la vittoria della classe lavoratrice, ossia il suo innalzamento a classe dirigente della nazione, capace di plasmarne il futuro. E’ al Principe di Machiavelli che Gramsci guarda per dare un contributo originale al marxismo. In questo testo, visto come indirizzato all’azione politica immediata, il Principe si presenta come “simbolo del capo in generale, del condottiero ideale”, una “fantasia concreta operante su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva”[1], un mito avente per contenuto la monarchia assoluta, ossia quella forma politica nata dall’avvicinamento in chiave anti-aristocratica tra sovrano e classi popolari capace di facilitare un più grande sviluppo delle forze produttive capitalistiche e della classe borghese. Alla missione storicamente progressiva del Principe di Machiavelli se ne sostituisce un’altra, quella del “moderno” Principe, un organismo sociale, il partito politico, forma moderna in cui “si riassumono le volontà collettive parziali che tendono a diventare universali e totali”[2], impegnato nella lotta per il superamento del capitalismo e per una sempre maggiore integrazione delle masse nella vita politica nazionale con un ruolo dirigente, un compito “giacobino” di cui proprio Machiavelli, con le sue proposte di riforma della milizia fiorentina, era tra gli illustri peconizzatori.
La connessione storica tra il progetto nazionale di Machiavelli e i compiti del moderno partito politico non rappresenta una coincidenza eccezionale, ma parte di una direzionalità storica manifesta. Antonio Gramsci non aveva il minimo dubbio di dover collocare l’internazionalismo socialista come prodotto di un’affermata tradizione nazionale, come ripresa e superamento delle conquiste della plurimillenaria civiltà italiana, cristiana e latina, e di porre la classe lavoratrice come erede e continuatrice di questa: “Il moto nazionale che condusse all’unificazione dello Stato italiano deve necessariamente sboccare nel nazionalismo e nell’imperialismo nazionalistico e militare? Questo sbocco è anacronistico e antistorico; esso è realmente contro tutte le tradizioni italiane, romane prima, cattoliche poi. Le tradizioni sono cosmopolitiche. [...] L’elemento «uomo», nel presente italiano, o è uomo-capitale o è uomo-lavoro. L’espansione italiana è dell’uomo-lavoro, non dell’uomo-capitale e l’intellettuale che rappresenta l’uomo-lavoro non è quello tradizionale, gonfio di retorica e di ricordi meccanici del passato. Il cosmopolitismo italiano non può non diventare internazionalismo. Non il cittadino del mondo, in quanto civis romanus o cattolico, ma in quanto lavoratore e produttore di civiltà. Perciò si può sostenere che la tradizione italiana dialetticamente si continua nel popolo lavoratore e nei suoi intellettuali, non nel cittadino tradizionale e nell’intellettuale tradizionale. [...] La missione di civiltà del popolo italiano è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna e avanzata”[3].
Si deve intendere quindi per “internazionalismo” non certo lo sradicamento dalla propria terra e dal proprio passato, ma anzi un legame profondo con tutto ciò. Così come in antichità il cittadino di Roma, pur avendo irrinunciabili connessioni etniche e famigliari, era “romano”, partecipe a un’universalità che non ne precludeva l’esistenza particolare, e nell’Evo di Mezzo la cristianità univa in una comunità universale di destino gli uomini al di là della loro provenienza e della loro esistenza terrena, così nell’epoca contemporanea un’universalità ricondotta al suo significato materiale, la posizione sociale del lavoratore, di colui che con la sua azione edifica il mondo, funge da orizzonte universale in cui si inserisce la particolarità nazionale, famigliare e individuale. Gramsci associa la promozione di questa visione a una vera e propria “missione di civiltà” del popolo italiano giunta alla sua fase più moderna e avanzata.
Mazzini: Patria e Umanità
L’idea di “missione storica” del popolo italiano trova il suo illustre antecedente in Giuseppe Mazzini. Il patriota genovese vedeva il paese come fulcro, come punto d’appoggio di un’azione che aveva come fine l’umanità. Un “cosmopolitismo” che veniva rivendicato in antitesi col pensiero liberale, il quale, pur arrivando all’Umanità, partiva dall’individuo, con la conseguente ’astrazione di rapporti di fratellanza sì proclamati, ma non riscontrabili nella pratica, a cui l’arroccamento dei liberali nella predominanza dei diritti dell’individuo negava ogni sviluppo tangibile. La visione di Mazzini si discosta decisamente da ciò: “Noi siamo tutti Cosmopoliti, se per Cosmopolitismo s’intende la fratellanza di tutti, l’amore per tutti, e la distruzione delle barriere che separano i popoli, dando loro interessi opposti. Ma è questo tutto? Basta semplicemente proclamare le verità sacre per assicurarne il trionfo sugli ostacoli che la lega dei poteri illegali oppone ad esse in Europa? Il nostro è lavoro di traduzione in atto, dobbiamo organizzare se così posso esprimermi, non già il pensiero, ma i fatti”[4]. Coerente con le proprie idee, Mazzini non si limitò a “proclamare”, ma mise a disposizione la totalità delle sue energie e della sua vita a favore della costruzione di un’Italia una, libera e indipendente e del raggiungimento dell’unità della stessa Umanità, un’opera ben precisa vedeva come caratterizzante dell’epoca moderna: “Il Cosmopolitismo ha dunque finito l’opera sua. Un’altra comincia. Quella dell’associazione dei Paesi; l’alleanza delle Nazioni per compire in pace ed amore la loro missione sulla terra; l’organizzazione dei Popoli liberi ed eguali, aiutantisi a vicenda, ciascuno profittando delle risorse che gli altri posseggono nella civiltà e nel progresso, e procedendo liberi da ogni vincolo verso la realizzazione di quel capitolo della provvidenza di Dio che è iscritto sui luoghi della loro nascita, nelle loro tradizioni, nei loro idiomi nazionali, sulle loro sembianze. E nel progresso verso il compimento di questa speciale provvidenza, la legge del dovere riconosciuto sostituirà quella della politica di invasione dei diritti altrui, che fino ad oggi ha dominato in tutte le relazioni internazionali, e che in realtà non è se non la preveggenza, l’eccesso di cautela ispirati dal timore. Il principio che regge ogni diritto pubblico o internazionale non sarà più l’indebolimento di tutto ciò che non appartenga a noi stessi; ma il miglioramento di tutti per mezzo di tutti; il progresso di ciascuno per il vantaggio di tutti”[5].
Patria e Umanità, due termini che non conoscono contrapposizione: la costruzione dell’Umanità ha come base la nazionalità. Essa non è oppositiva nei confronti dell’universalità umana o sua negatrice, ma lo strumento necessario per cui si arriva ad essa, un mezzo che, senza scomparire, porta a un fine. La nazionalità è un dato molteplice, necessariamente plurale nella sua realtà. Le diverse nazionalità non sono mutualmente irriducibili, ma rappresentano, ognuna con la sua propria declinazione, un certo contributo alla costruzione dell’Umanità. Mazzini parla apertamente di “divisione del lavoro”, con un parallelo con le attività produttive: “Or che altro è la Nazionalità se non la divisione del lavoro nell’Umanità? Non sono i popoli, per voi come per noi, gli operai dell’Umanità? Non è ciò che noi chiamiamo nazionalità una attitudine speciale, avverata dalla tradizione d’un popolo, a compire meglio d’un altro dato ufficio nel lavoro comune?”[6]. Questa specificità dei singoli compiti nazionali si rifletta nella missione nazionale attribuita al popolo italiano, quella di fungere da faro per il movimento democratico europeo e per la realizzazione della sua unità morale: "ricordatevi che quella missione è l’unità morale d’Europa: ricordatevi gl’immensi doveri ch’essa v’impone. L’Italia è la sola terra che abbia due volte gettato la grande parola unificatrice alle nazioni disgiunte. La vita d’Italia fu vita di tutti. Due volte Roma fu la Metropoli, il Tempio del mondo Europeo: la prima, quando le nostre aquile percorsero conquistatrici da un punto all’altro le terre cognite e le prepararono all’Unità colle istituzioni civili; la seconda, quando, domati dalla potenza della natura, dalle grandi memorie e dall’ispirazione religiosa, i conquistatori settentrionali, il genio d’Italia s’incarnò nel Papato e adempì da Roma la solenne missione, cessata da quattro secoli, di diffondere la parola Unità nell’anima ai 55 popoli del mondo Cristiano. Albeggia oggi per la nostra Italia una terza missione: di tanto più vasta quanto più grande e potente dei Cesari e dei Papi sarà il POPOLO ITALIANO, la Patria Una e Libera che voi dovete fondare. Il presentimento di questa missione agita l’Europa e tiene incatenati all’Italia l’occhio ed il pensiero delle Nazioni”[7].
Il ruolo guida attribuito da Mazzini all’Italia non è da intendersi come una supremazia dell’Italia sulle altre nazionalità, e nemmeno come un’esclusività politica. Al contrario Mazzini, con velato riferimento alle teorie dei proudhoniani, condanna l’idea di un “popolo-Napoleone” che dovrebbe soggiogare le altre ed “elevarle”, necessario punto d’arrivo di qualsiasi pretesa di negare la validità delle nazionale, di qualsiasi tentativo di derubricarle a cosa vecchia da dimenticare. Parlando di “certe scuole francesi”, Mazzini nota come abbiano “cominciato col negare la missione delle razze, scrollando sdegnosamente le spalle nel nome stesso di Nazionalità o di patria”, per finire “appena è stato richiesto ad esse uno schema d’azione, col porre il centro dell’edificio nel loro proprio paese, e perfino nella loro propria città”. Ne risulta che “[q]ueste scuole filosofiche non distruggono le Nazionalità; condannano tutti per amore di un solo; ciascuna di esse ha un popolo eletto, un popolo-Napoleone; e in fondo a tutte le loro negazioni cova una Nazionalità che usurpa tutte le altre, se non con le armi, il che, grazie a Dio, non è più possibile, almeno con una supremazia morale e intellettuale permanente ed esclusiva”[8].
Patria e Umanità, così come se stessi e la famiglia, vedono la propria unità fondarsi sul Dovere, concetto non già di natura contrattualistica ma richiamato in chiave religiosa. E’ infatti Dio la sorgente suprema del Dovere, figura immanente e trascendente allo stesso tempo la cui essenza si manifesta nel progresso storico e nell’evoluzione morale dell’uomo. Ma se Dio ne è la sorgente, il Dovere non si incarna solo in lui, ma da lui si diffonde alle varie costruzioni sociali umane, strumento del progresso dell’uomo stesso. E così si creano doveri egualmente fondamentali ed importanti verso se stessi, la famiglia, la patria e l’Umanità. Il dovere verso il prossimo porta alla lotta a favore di questo. Qui vi è un’altra grande differenza fra i pensatori liberali illuministi, fautori della “filosofia dei diritti”, e Mazzini: il diritto dev’essere garantito all’altro, prima che questo possa essere appannaggio del singolo, e se la lotta degli “uomini dei diritti” si arresta al soddisfacimento dei loro diritti individuali, quella degli “uomini del Dovere” non si arresta che con il termine della loro vita.
Vincenzio Russo: sovranità e pace universale
Una vita quasi parallela a quella del rivoluzionario francese Louis Antoine de Saint-Just ha segnato Vincenzio Russo. Nato nei pressi di Napoli nel 1770, dopo una laurea in giurisprudenza si unì a organizzazioni partenopee di ispirazione giacobina, per divenire, costretto da Napoli, tra i più vocali sostenitori delle “Repubbliche sorelle” costruite in Italia dopo l’intervento francese. Tornato nella sua città natale sosterrà la creazione della Repubblica Napoletana, venendo catturato armi alla mano durante la sua difesa. Sarà giustiziato a soli ventinove anni il 19 novembre 1999.
Le sue idee furono raccolte nei numerosi articoli scritti per il Monitore Napoletano, e nel volumetto Pensieri politici, pubblicato nel 1798. In quest’ultimo sono contenute diverse riflessioni che tratteggiano l’idea di una “società universale” comprendente le singole realtà nazionali socialmente rifondate sulla base di “repubbliche di contadini filosofi”, con al centro l’elemento agricolo. La costruzione di questa “società universale” passa dal riconoscimento della fondamentale identità valoriale di qualsiasi uomo e di qualsiasi popolo, e si fonda sulla ragione umana. Riconoscendo questa il fatto che ogni uomo non abbia diritti diversi da ogni altro, se ne deduce che nessuna nazione possa avere diritti diversi da un’altra nazione: “Se l’esclusione da uomo a uomo è un delitto, lo sarà del pari da una massa di uomini agli altri, cioè da una ad una altra nazione. Coll’aggregarsi in una società, variano forse nell’uomo le facoltà sue? E perché varierebbero dunque i diritti o i doveri di un uomo, di una società verso gli uomini delle altre?”[9]. Le differenze “accidentali” tra le persone non possono limitare l’amore per l’Umanità, che è “uniforme”. Tutti questi limiti sono frutto “dell’egoismo basso, o dal privato, o dal pubblico dispotismo”[10]. La volontà di conquista, paragonata a un “assassinio nazionale”, è il più grande delitto frutto delle limitazioni al riconoscimento della parità di diritto tra ogni popolo. La legge comune che esiste tra le nazioni, desunta dalla ragione, impedisce a queste di vivere in uno “stato anarchico”, e prefigura una pace universale realizzabile facendo venir meno le motivazioni “estranee alla ragione umana” capaci di provocare la guerra, “quando cioè vi sarà unità di governi nelle nazioni, tolleranza vera e conformità di principj”[11]. Questa architettura sarebbe completata da un “tribunale per comporre le differenze del genere umano”[12].
Tale visione prescrive una certa “governance” internazionale da costruire sulla base di principi condivisi e sul mutuo rispetto dei diritti nazionali. Ciò inevitabilmente si fonda su trasformazioni a livello nazionale, che l’esempio della vita stessa di Vincenzio Russo mostra come debbano essere frutto di movimenti autoctoni e strettamente legati alla popolazione locale. La Repubblica Napoletana e numerosi rivoluzionari progressisti, come lo stesso Russo, vennero distrutti dalle masse rurali napoletane mobilitate in funzione reazionaria tramite una retorica anti-francese e in difesa della loro sensibilità. L’essere stata prodotto dell’intervento di una potenza straniera ha condannato l’esperienza delle Repubbliche sorelle a un’esistenza breve e instabile. E’ chiaro che un disegno volto a creare una nuova architettura internazionale debba basarsi non su una “esportazione della rivoluzione”, ma sullo sviluppo autonomo nazionale e sulla capacità attrattiva dei paesi più avanzati.
Machiavelli: armi mercenarie, straniere e realismo politico
L’opera letteraria di Niccolò Machiavelli, come già accennato, non è rivolta alla speculazione teorica, ma alle esigenze pratiche di un programma politico, quello di costruzione di una monarchia nazionale basata sull’alleanza dei ceti produttivi agricoli e urbani, guidata da un “redentore” [13] capace di farsi carico della liberazione del paese da parte dei poteri stranieri e della decadenza locale, di scacciare il “barbaro dominio”. Il Principe in particolare è una vera e propria guida per l’azione, indirizzata ad indicare i metodi più efficaci per la difesa e il consolidamento dello Stato sulla base non di assunti aprioristici o pregiudizi morali, ma della realtà concreta e dell’esperienza degli affari politici acquisita anche in prima persona dal segretario fiorentino.
Tra i numerosi consigli di Machiavelli, ve n'è uno discretamente noto sulle armi mercenarie. Contrariamente alla pratica militare a lui coeva, Machiavelli vedeva nelle truppe mercenarie una fonte di debolezza, contrapponendo a loro milizie cittadine in cui avrebbero trovato spazio anche gli abitanti del contado. Le truppe mercenarie e quelle straniere (“ausiliarie”) erano viste come tra le principali cause della rovina d’Italia, e non solo incapaci di costruire poteri stabili, ma persino dannose a tale fine: “Dico, adunque, che l’arme con le quali uno principe defende el suo stato, o le sono proprie o le sono mercennarie, o ausiliarie o miste. Le mercennarie et ausiliarie sono inutile e periculose; e, se uno tiene lo stato suo fondato in sulle arme mercennarie, non starà mai fermo né sicuro; perché le sono disunite, ambiziose, sanza disciplina, infedele; gagliarde fra’ li amici; fra ’ nimici, vile; non timore di Dio, non fede con li uomini, e tanto si differisce la ruina quanto si differisce lo assalto; e nella pace se’ spogliato da loro, nella guerra da’ nimici. La cagione di questo è, che le non hanno altro amore né altra cagione che le tenga in campo, che uno poco di stipendio, il quale non è sufficiente a fare che voglino morire per te. Vogliono bene essere tuoi soldati mentre che tu non fai guerra; ma, come la guerra viene, o fuggirsi o andarsene“[14].
Le armi mercenarie non combattono per il bene dello Stato, per senso di appartenenza, ma unicamente per la loro retribuzione, che dev’essere periodicamente aumentata per assicurarsene la fedeltà. Ciò però non basta a rendere queste milizie veramente efficaci in battaglia: il loro scopo principale è sopravvivere, cosicché davanti al nemico saranno vigliacche esattamente come in pace si mostrano arroganti. Ancor più nocive delle armi mercenarie sono però quelle “ausiliarie”, quelle straniere, ossia “sono quando si chiama uno potente che con le arme sue ti venga ad aiutare e defendere”[15]. Queste truppe possono promettere una professionalità maggiore rispetto ai semplici mercenari, ma comportano un danno maggiore, poiché anche nel caso di una loro vittoria si rimarrebbe “prigionieri”, alla mercé di armi straniere ormai libere di spadroneggiare su un potere che, per sopravvivere, è stato costretto a fare a loro ricorso. Se dei mercenari è da temere la vigliaccheria, dei soldati stranieri è proprio il coraggio da temere. Essi sono unite, sottoposti a un unico comando e non dipendono da un’autorità esterna, ma dal proprio sovrano, e sono pronti a imporne il potere anche su colui che li ha chiamati in soccorso.
Dai pericoli insiti nel fondare il proprio potere o una progettualità politica ci si può riparare unicamente basandosi sulle proprie forze, su un esercito composto da proprie milizie fedeli e addestrate, che combattono pro aris et focis. La mancanza di queste armi proprie condannò l’Italia a perdere l’indipendenza proprio per mano di quelle potenze straniere chiamate dai vari signori locali, speranzosi di costruire con l’appoggio esterno un potere più grande, ma ritrovatisi velocemente in uno stato d’inferiorità
Machiavelli insegna da questo punto di vista come la costruzione e il mantenimento di un potere politico si fondano sulla disponibilità di forze autoctone, ideologicamente e sentimentalmente motivate, preparate al proprio compito con costanza e profondamente unite con il popolo. Queste forze sono le uniche su cui si può veramente contare, e le uniche alle quali ci si possa affidare. Anche se animato dalle migliori intenzioni, chi vincolerà i propri progetti a un salvifico aiuto esterno non potrà mai essere certo dei risultati. Egli non sarà padrone del proprio futuro.
Petrarca, Cola di Rienzo e l’unità nazionale
Nonostante oggi in molti si affannino a sostenere come la nazionalità italiana non sia che un costrutto artificioso di recente invenzione, in realtà già sette secoli fa vi era chi era pronto a sostenere le ragioni dell’Italia, a piangere delle sue sventure e ad augurarsi la sua unità, segno evidentemente di una realtà nazionale che, per quanto indubbiamente in maniera diversa da quanto accaduto in età moderna, era da tempo punto fisso nel panorama culturale della penisola. Tra questi vi era sicuramente Francesco Petrarca, che con la sua canzone Italia mia, benché ’l parlar sia indarno esprime perfettamente lo sdegno nei confronti di un paese devastato dalla lotta tra città e fazioni e attraversato da eserciti stranieri. Scritta nel 1344 sull’onda emotiva provocata dall’ennesimo scontro tra Stati italiani condotto per mano di mercenari, questa canzone si eleva al di sopra dell’episodio specifico per divenire generale nel suo argomento, il lamento di un italiano che ricorda ai suoi compatrioti le grandezze e la nobiltà dell’Italia, evocandone il passato in contrapposizione allo strazio del presente.
Le guerre causate da “lievi cagion’” portano alla rovina delle terre di ogni città e signore, e porta alle lacrime il “popolo doloroso” che non attende null’altro che pace e stabilità. Per questo lo scontro interno dovrebbe essere convertito in una comune lotta per pacificare l’Italia e rinnovare l’antica gloria di Roma. Basterebbe la compassione per il popolo affinché la virtù prenda le armi contro il furore dei nemici, battendolo rapidamente e dimostrando a tutto il mondo che il valore antico non è ancora scomparso dai cuori degli italiani:
“et pur che voi mostriate
segno alcun di pietate,
vertú contra furore
prenderà l’arme, et fia ’l combatter corto:
ché l’antiquo valore
ne gli italici cor’ non è anchor morto”.
Petrarca manifestava così il bisogno di unità e fraternità tra gli italiani, reso particolarmente impellente dallo stato di disordine, conflitto e miseria in cui versavano molte città e regioni, frutto di quella congiuntura negativa che caratterizzò tutto il XIV Secolo culminando nella terribile pestilenza del 1346. Cattive condizioni climatiche si univano alla crisi di un modello di sviluppo che aveva ormai raggiunto i suoi limiti e all’incapacità di rinnovamento di una classe dirigente, quella nobiliare, ormai divenuta parassitaria. Il malessere e le tensioni avrebbero portato a diverse insurrezioni in tutto il mondo europeo. In Italia, culla dello sviluppo urbano e pre-capitalistico, queste avrebbero assunto soprattutto connotati cittadini. Tra queste si ebbe quella di Cola di Rienzo, incontrato da Petrarca nel 1343, l’anno prima del componimento della canzone Italia mia. Nicola di Lorenzo, figlio di un taverniere, era cresciuto nel culto della classicità e dei fasti della Roma antica, i cui resti poteva contemplare quotidianamente nell’atmosfera decadente dell’Urbe segnata dalla cattività avignonese e dall’arroganza dei nobili. Divenuto notaio, venne inviato ad Avignone come ambasciatore del governo cittadino presso il pontefice, a cui denunciò gli abusi commessi in sua assenza. Tornato a Roma in qualità di notaio della Camera Capitolina, divenne grazie alle sue iniziative comunicative -celebri l’uso degli affreschi e i richiami alla appena ritrovata tavola contenente la Lex de Imperio Vespasiani- uno dei personaggi più in vista del partito “popolare”.
I discorsi contro i baroni e la miseria della popolazione guadagnarono a Cola un nutrito seguito. Lui e i suoi compagni si riunivano segretamente sull’Aventino, luogo dell’ultimo rifugio di Gaio Sempronio Gracco, per organizzare un colpo di mano che potesse estromettere i nobili e ridare sicurezza e potere al popolo di Roma. Ciò accadde il 20 maggio del 1347, quando Cola, alla guida di un gruppo di armati, salì al Campidoglio proclamandosi “Tribuno della Repubblica” e annunciando un nuovo ordinamento cittadino nel giubilo generale della popolazione. Questo prevedeva la lotta al regime feudale, il divieto per i nobili di erigere castelli o di abbattere palazzi, che ogni violenza venisse punita con la legge del taglione e la costruzione di un sistema di granai pubblici e di assistenza per orfani, vedove e indigenti. Venne inoltre creato un esercito popolare reclutato su base rionale.
Ma gli intenti di Cola di Rienzo andavano ben al di là della semplice costruzione di un regime espressione delle classi più avanzate e produttive dell’epoca. Egli aveva in mente di ricostruire l’unità italiana, offrendo la possibilità d’estendere l’ordinamento da lui costruito ad ogni altro comune italiano. Il primo agosto venne convocata un’assemblea per annunciare questo programma politico, invitando rappresentanti di ogni Stato italiano. Secondo lo stesso Cola, lo scopo di tale assise era il perseguire “salutem et pacem totius sacrae Italiae”[16]. Consacrato Cavaliere dello Spirito Santo, assumendo come titolo quello di “Candidatus Spiritus Sancti miles, Nicolaus severus et clemens, liberator Urbis, zelator Italiae, amator Orbis et tribunus Augustus”[17]. Venne dichiarato davanti ai vari ambasciatori che il popolo romano solo aveva il diritto di eleggere l’Imperatore, e, contestualmente, fu ristabilita la cittadinanza romana per tutti gli abitanti dell’Italia. Roma tornava così “capitale”, e veniva simbolicamente ricostruita l’unità nazionale che si sentiva come già esistente nei tempi antichi. Si voleva riportare l’Italia “al suo antico status di splendore ed elevarla ulteriormente affinché, assaggiata la dolcezza della pace, possa rifiorire per grazia dello Spirito Santo più di quanto sia mai fiorita tra le altre parti del mondo”[18].
L’iniziativa di Cola di Rienzo venne osteggiata con fermezza dai nobili e anche dalle gerarchie ecclesiastiche. Riuniti in concistoro ad Avignone sul finire dell’agosto del 1347, i cardinali posero la questione se fosse conveniente che Roma e l’Italia venissero unificate, giungendo a un deciso parere contrario, come venne comunicato con sdegno da Petrarca a Cola via lettera. L’atteggiamento papale nei confronti dell’esperienza repubblicana romana continuò a rimanere ostile. Sempre Petrarca dà notizia di come un inviato di Cola di Rienzo sia stato aggredito alle porte di Avignone nei primi di settembre, sfruttando l’occasione per incitare il Tribuno, “vendicatore amico di Dio”, a “innalzare la patria che sorge e mostrare alle genti incredule cosa Roma possa ancor oggi”, chiudendo la sua lettera affermando come se esistesse l’unità tra gli italiani chiunque volesse umiliare la patria sarebbe rapidamente sgominato: “Quanto infatti al resto dell’Italia, chi dubita che essa non possa quanto poté e che a mancarle non sono la maturità, la potenza, la floridezza, il coraggio, ma l’accordo? Ché se esso solo ci fosse, a coloro che si fanno beffe del nome d’Italia io, con il tenore di questa lettera, annunzierei prossimi l’annientamento e lo sterminio”[19].
L’esperimento romano di Cola di Rienzo ebbe vita breve. Incalzato dal contrattacco dei nobili, nonostante le vittorie sul campo di battaglia come nel caso della battaglia di Porta San Lorenzo, e da un mandato d’arresto papale, Nicola fu costretto a fuggire dalla città, venendo ucciso una volta lì fatto ritorno nel 1354. Ciononostante la sua esperienza dimostra chiaramente come l’Italia, come entità nazionale, sia esistita prima e successivamente. La nostra identità nazionale non è debole ed effimera come affermano alcuni, ma forte e radicata nei secoli. Non c’è nessun motivo per cui la si debba abbandonare a favore dell’indistinto della sottomissione all’egemonia statunitense, ma anzi essa agisce da potente risorsa per proiettare l’Italia in un mondo multipolare.
Sant’Ambrogio: clemenza e rigore verso l’autorità
Aurelio Ambrogio nacque in una famiglia cristiana di rango senatorio appartenente alla gens Aurelia. Dopo essere stato governatore della provincia dell’Aemilia et Liguria, nel dicembre del 374 venne ordinato vescovo dopo essere stato indicato come tale a furor di popolo. In un periodo come quello post-costantiniano segnato da una profonda interconnessione tra la Chiesa e l’Impero, Ambrogio, proveniente da una famiglia di magistrati, univa un profondo senso dello Stato alla misericordia cristiana, proponendosi come mentore di un potere politico che non era contestato, ma consigliato per far raggiungere ad esso una maggiore concordia con il volere di Dio. Commentando il Salmo 37, Ambrogio afferma una linea di prudenza volta a tutelare la legittimità delle istituzioni, viste come necessarie alla vita pacifica anche se imperfette: “Guarda che i re non devono essere temerariamente attaccati dai profeti di Dio e dai sacerdoti se non ci sono peccati molto gravi di cui debbano essere accusati; laddove ci sono, allora non si deve scusare ma correggere con giusti rimproveri”[20].
A questa clemenza sono quindi posti dei limiti: se l’autorità politica commette “peccati molto gravi” essa si deve “correggere”, e a tal fine è possibile rimproverarla e mettere in evidenza gli errori commessi. Ciò vale anche per la massima autorità a lui contemporanea, ossia quella imperiale. L’imperatore è visto da Ambrogio come un uomo, e quindi capace di scivolare nel peccato. Il suo potere lo espone anzi a tentazioni più grandi, e a occasioni maggiori per comportarsi in maniera ingiusta. Davanti a ciò Ambrogio non perde né la fermezza, né il rispetto, come avrà modo di dimostrare a seguito del massacro di Tessalonica del 390. Nel giugno di quell’anno la popolazione di Tessalonica era insorta contro il magister militum Buterico, che aveva fatto arrestare un popolare auriga e cancellato i giochi annuali. Egli per questi motivi fu linciato dalla folla nello stesso circo dove si tenevano le corse. L’imperatore Teodosio, irato per l’accaduto, volle una punizione esemplare. Pochi giorni dopo l’uccisione venne organizzata una gara di bighe nello stesso circo e, quando questo fu pieno, le porte furono sbarrate. I soldati di Teodosio massacrarono tutti i presenti, circa 7000 persone.
Ambrogio esecrò tale gesto, ritenendolo eccessivo, e vide in esso l’indizio della facilità all’ira dell’imperatore, un difetto da correggere con la pietà e l’umiltà. Quanto Teodosio arrivo a Milano, il vescovo rifiutò l’incontro, adducendo ragioni di salute, indirizzandogli poi una lettera in cui gli spiegava le ragioni di ciò, aggiungendo che non avrebbe potuto impartirgli nessun sacramento, in quanto si “sentiva trattenuto” da fare ciò dal suo mancato pentimento. Proprio in rispetto all’autorità dell’imperatore queste comunicazioni avvennero attraverso un canale privato: “Ho preferito affidare questa vostra irruenza in privato alla vostra considerazione, piuttosto che sollevarla con una mia azione in pubblico. Così ho preferito essere un po' carente nel dovere piuttosto che nell'umiltà, e che gli altri mi ritenessero piuttosto carente nell'autorità sacerdotale piuttosto che tu mi trovassi carente nella più amorevole riverenza, affinché, avendo frenato la tua irruenza, il tuo potere di decidere sul tuo consiglio non fosse indebolito”[21]. Rimandando a esempi veterotestamentari come quelli di Saul e David, Ambrogio invitò quindi Teodosio al pentimento, alla pubblica contrizione per ciò che era stato fatto, come gesto di umiltà e sottomissione a Dio: “Ti vergogni, o imperatore, di fare ciò che fece il profeta regale Davide, antenato di Cristo, secondo la carne? A lui fu raccontato che il ricco che aveva molte greggi prese e uccise l'unico agnello del povero, a causa dell'arrivo del suo ospite, e riconoscendo che egli stesso veniva condannato in questa storia, perché l'aveva fatto lui stesso, disse: “Ho peccato contro il Signore”. Sopporta dunque senza impazienza, o imperatore, se ti si dice: “Hai fatto ciò che è stato detto al re Davide dal profeta”. Perché se ascolti con obbedienza e dici: “Ho peccato contro il Signore”, se ripeti le parole del profeta regale: “Venite, adoriamo e cadiamo davanti a lui e piangiamo davanti al Signore, nostro Dio, che ci ha creati “, si dirà anche a te: “Poiché ti sei pentito, il Signore cancella il tuo peccato e tu non morirai”[22].
Il successivo pentimento dell’imperatore gli permise di tornare a comunicarsi in occasione del Natale dello stesso anno. Quest’atto di umiltà permise la ricomposizione della frattura con la Chiesa cattolica, ma contribuì anche a rafforzare la legittimità di Teodosio impedendo che nella sua possibile arroganza venisse visto il disdegno per la volontà divina. La ricerca della stabilità sociale e della pace, che per Ambrogio non poteva essere altro che la pace di Cristo, è la chiara volontà che emerge dall’iniziativa del vescovo.
Nell’orazione funebre per l’imperatore Teodosio, Ambrogio avrà modo di lodare l’umiltà dell’amico, un gesto di profonda importanza per assicurarne un’immagine positiva per i posteri: “E una bella virtù l'umiltà, perché salva chi si trova in pericolo, solleva chi è a terra. La conosce chi dice: Ecco, sono io che ho peccato, sono io, il pastore, che ho agito in modo iniquo; ma questi in questo gregge che cosa hanno fatto? La tua mano si levi contro di me. Parla con ragione in tal modo chi sottopose il suo regno a Dio, fece penitenza e, confessando il proprio peccato, chiese perdono. Egli con il suo atto di umiltà giunse alla salvezza. Cristo si umiliò per innalzare tutti gli uomini. Egli giunse alla pace di Cristo, perché aveva imitato l'umiltà di Cristo. Per tale motivo, poiché l’imperatore Teodosio si comportò con umiltà e, quando si insinuó in lui il peccato, chiese perdono, la sua anima è tornata al suo riposo, come afferma la Scrittura, dicendo: Ritorna, anima mia, al tuo riposo, perché il Signore mi ha concesso i suoi benefici. Opportunamente dice all’anima « ritorna », come a quella che si è affaticata senza tregua in una lunga corsa, affinché dalla fatica ritorni al riposo. Il cavallo ritorna alla stalla quando ha finito di correre, la nave ritorna al porto quando, riparando in un approdo sicuro, viene sottratta agli enormi cavalloni”[23].
L’aver ricondotto a una dimensione umana l’imperatore preservandone però la legittimità istituzionale fu un atto da parte di Ambrogio di fornire ancora oggi validi spunti per porre correttamente il rapporto tra classe dirigente e popolazione, tra governanti e governati. Se sarà imperativo sostenere la legittimità e la potestà delle istituzioni di una futura Italia indipendente, la classe dirigente non dovrà essere mai una casta separata dalle masse, priva di vincoli e di supervisione. Al contrario, solo sottomettendo la classe dirigente al volere e allo scrutinio della popolazione attraverso sistemi evidentemente più efficaci di quelli a cui ci hanno abituato le istituzioni liberali, si potrà ottenere il doppio risultato di assicurarsi il benessere degli italiani e la tenuta dello Stato. Non si tratta, ovviamente, di sottomettersi alla “legge di Dio”, come suggeriva l’ideologia dei tempi di Ambrogio, ma di sottomettersi alla potestà di quel “dio terreno” che è il popolo, capace, in molte occasioni, di essere più saggio dei pochi al comando, come notato già da Machiavelli.
Seneca, l’ira e il dovere
Nel suo De Ira, composto durante gli Anni ‘40 del primo secolo dopo Cristo, Seneca illustra la dannosità dell’ira tanto per la vita dei singoli, quanto per quella degli Stati. L'intento di Seneca è quello di fornire gli strumenti non tanto per contenerla o mitigarla, quanto per sradicarla,in quanto, minando il controllo della ragione, suprema e caratterizzante qualità umana, non porta che a conseguenze dannose, e si rivela in realtà inutile nello svolgimento del proprio dovere. Questo insegnamento non ha unicamente una valenza individuale, ma rappresenta un’importate risorsa per l’azione di un’organizzazione politica, di un movimento di liberazione o di uno Stato. Ciò è pienamente comprensibile se si analizzano gli ultimi decenni, caratterizzati da uno scontro sempre più serrato tra la declinante egemonia statunitense e la tendenza oggettiva e irreversibile alla costruzione di un mondo multipolare. Comportamenti avventati, dettati dall’ira scaturita dall’arroganza e dalla brutalità delle forze filo-egemoniche, avrebbero portato a conseguenze nefaste per chi cerca di tutelare il benessere del proprio popolo, difendere l’indipendenza del proprio paese e promuovere un ordine internazionale democratico. Al contrario, l’essere stati capaci di far prevalere l’autocontrollo, ha sempre garantito indubbi vantaggi.
Nella sua opera, Seneca introduce il tema dell’ira mostrando quando questa sia stata dannosa per l’umanità, fomentando violenze private e stragi di interi popoli: “Ed ora, se vuoi esaminare gli effetti ed i danni, nessuna calamità è costata più cara al genere umano. Vedrai uccisioni ed avvelenamenti, reciproche infamie di colpevoli, distruzioni di città e stragi di intere popolazioni, vite di capi di Stato messe in vendita all’asta pubblica, fiaccole gettate nelle case, incendi non limitati alla cerchia delle mura, ma immense distese di territorio, rilucenti di fiaccole nemiche”[24]. L’ira è il desiderio di infliggere un castigo, ma un desiderio che si ribella alla ragione, che prende il controllo dell’uomo e non accetta limite.
E’ proprio questa mancanza di controllo ad essere il tratto caratteristico dell’ira. Una mancanza di controllo che impedisce qualsiasi suo sfruttamento a fini costruttivi e che rappresenta una debolezza, un fattore che mina la possibilità di condurre una vita tranquilla e onesta o di difendere lo Stato. A proposito vengono citati esempi come quello di Cambise II, che, irato per la risposta “sprezzante” alla sua richiesta di sottomissione data dai Macrobiani, popolazione dell’Africa orientale, diresse verso di loro una sua armata senza curarsi di aver accumulato abbastanza vettovaglie per affrontare il faticoso viaggio attraverso una terra povera d’acqua, cosa che portò a una vergognosa ritirata e alla necessità, per le sue truppe, di ricorrere al cannibalismo per sopravvivere. La condotta contraria, da perseguire, è testimoniata tra i tanti esempi da quello del re Antigono che, uditi alcuni soldati imprecare contro di lui a causa delle cattive condizioni del terreno su cui stavano marciando, li volle aiutare senza farsi riconoscere, per poi rivelare la sua identità, invitandoli a parlare pure male di lui, ma ad augurargli anche del bene.
Dicendo che l’ira proviene dal desiderio di infliggere un castigo, Seneca non sostiene che non debbano essere impartite delle punizioni, ma che queste debbano avere come scopo il correggere gli errori: “Allora non si danno casi in cui è necessaria una punizione?”. Perché no? Ma leale, ragionata, perché non deve nuocere, ma guarire dietro la parvenza del nuocere. Come scottiamo al fuoco certi giavellotti storti, per drizzarli, e li tagliamo ed applichiamo loro degli spinotti, non per spezzarli, ma per allungarli, così correggiamo i caratteri depravati dal vizio, con il dolore fisico e morale. [...] [C]hi tutela la legge e governa la città deve curare le indoli, più a lungo che può con le parole, e le più garbate; per indurre al bene da farsi ed instillare negli animi il desiderio dell’onestà e della giustizia, provocare l’odio dei vizi e la stima delle virtù; in un secondo momento, deve passare ad un discorso più severo, per insistere sulle ammonizioni e per rimproverare; infine, passi alle pene, ma si limiti a quelle lievi e revocabili; assegni il supplizio estremo ai delitti estremi, affinché nessuno vada a morte, se non nel caso in cui il morire giovi anche a chi muore”[25].
Allo stesso modo davanti ai torti subito non dev’essere l’ira, inutile e deleteria, a muovere le azioni dell’uomo, ma il proprio dovere. E’ per assolvere al proprio dovere di uomo, di cittadino, di soldato, di capo di Stato che può essere necessario punire un determinato comportamento, reagire finanche con violenza, ma non per placare l’ira personale. Imponendo una regola alle proprie passioni, sottomettendole alla ragione e mettendole al servizio del dovere, queste, al contrario dell’ira, di dimostrano utili. L’ira impedirebbe all’errore di essere corretto, al crimine di essere punito, e così facendo sarebbe deleteria allo stesso scopo che, erroneamente, si penserebbe di servire: “Ma allora”, si obietta, “l’uomo buono non deve adirarsi se, sotto i suoi occhi, gli percuotono il padre o gli rapiscono la madre?”. Non deve adirarsi, ma farne vendetta, difenderli. Teme forse che la pietà filiale, anche senza l’ira, non sia per lui un pungolo sufficiente? [...] L’uomo buono adempirà i suoi doveri senza turbarsi né trepidare e, compiendo le azioni proprie dell’uomo buono, terrà una condotta che non ammette nulla che sia indegno per un uomo. Vogliono percuotere mio padre? Lo difenderò. Lo hanno già percosso? Lo vendicherò, perché è mio dovere, non per rancore. [...] Adirarsi per i propri cari non è pietà d’animo, ma debolezza; è condotta bella e dignitosa uscire in difesa dei genitori, dei figli, degli amici, dei concittadini, sotto la guida e l’imperativo del dovere, con discernimento e cautela, non con impulsività e rabbia. Infatti nessuna passione brama la vendetta più dell’ira che, proprio per questo, diventa inetta a vendicarsi. Troppo impetuosa e forsennata, come, in genere, ogni passione, si ostacola da sé nel dirigersi allo scopo verso il quale si precipita. Perciò non è mai stata un bene, né in pace né in guerra; rende, infatti, la pace simile alla guerra e, in combattimento, dimentica che Marte non parteggia per nessuno; finisce sotto il dominio altrui, perché non sa dominare se stessa”[26].
Come avrà a dire Petrarca, la virtù velocemente batte il furore, e Seneca a proposito cita come i Germani, nonostante la possenza e il coraggio, siano stati a più riprese sgominati dalle legioni romane e persino dai loro ausiliari, che, sfruttandone l’iracondia, poterono averne la meglio contrapponendo la disciplina e la ragione. Non è solo il destino di singole battaglie ad essere deciso dalla soppressione dell'ira, ma anche quello di intere guerre. Ciò è dimostrato da Quinto Fabio Massimo Verrucoso, detto “il Temporeggiatore”, che, come Dittatore durante la Seconda Guerra Punica, rifiutò di dar battaglia apertamente contro Annibale preferendo indebolire e stancare l’esercito nemico, evitando ulteriori disfatte che avrebbero potuto segnare la Repubblica: “Con quale altro mezzo, Fabio rimise in sesto le forze stremate della dominazione romana, se non con il saper temporeggiare, tirare in lungo e rinviare, espedienti del tutto ignoti agli adirati? Si sarebbe estinta quella dominazione che, in quel momento, si reggeva in condizioni disperate, se Fabio avesse osato tanto quanto suggeriva l’ira. Tenne fisso il pensiero al bene dello Stato e, valutate le forze, delle quali nulla si poteva perdere senza la catastrofe totale, mise da parte il dolore e la vendetta, badando a un solo scopo pratico: cogliere le occasioni favorevoli. Sconfisse prima l’ira che Annibale”[27].
Le fortune di un individuo o di un paese non possono basarsi sulla sregolatezza, sull’impulsività e sull’emotività, ma devono fondarsi sulla disciplina, sull’autocontrollo e sulla ragione. Ciò deve essere particolarmente tenuto a mente da chi si trova, o troverà, ad agire come classe dirigente senza poter contare su una consolidata esperienza e su un sistema di potere solido, e per cui il cedere all’ira potrebbe rivelarsi fatale.
[1] A. Gramsci, Il moderno Principe, Quaderno VIII, 21.
[2] Ibidem.
[3] A. Gramsci, Risorgimento, Quaderno IX, 127.
[4] G. Mazzini, Nazionalità e Cosmopolitismo, in Peoples’ Journal, 1847.
[5] G. Mazzini, Nazionalità e Cosmopolitismo, in Peoples’ Journal, 1847.
[6] G. Mazzini, Nazionalismo e nazionalità, 1871.
[7] G. Mazzini, Dei doveri dell’uomo, Katechon Edizioni, Fermo, 2023, pp. 55-56.
[8] G. Mazzini, Nazionalità e Cosmopolitismo, in Peoples’ Journal, 1847.
[9] V. Russo, Pensieri politici, Napoli, Generoso Procaccini, 1999, p. 137.
[10] V. Russo, Pensieri politici, Napoli, Generoso Procaccini, 1999, p. 138.
[11] V. Russo, Pensieri politici, Napoli, Generoso Procaccini, 1999, p. 136.
[12] V. Russo, Pensieri politici, Napoli, Generoso Procaccini, 1999, p. 143.
[13] N. Machiavelli, Il Principe, Torino, Einaudi, 2014, p. 99.
[14] N. Machiavelli, Il Principe, Torino, Einaudi, 2014, p. 43.
[15] N. Machiavelli, Il Principe, Torino, Einaudi, 2014, p. 48.
[16] Cola di Rienzo, Lettera al comune di Perugia, 7 giugno 1347, in Epistolario, Roma, Istituto Storico Italiano, 1890, p. 11.
[17] Cola di Rienzo, Lettera a Rinaldo Orsini, 17 settembre 1347, in Epistolario, Roma, Istituto Storico Italiano, 1890, p. 67.
[18] Cola di Rienzo, Lettera al comune di Firenze, 19 settembre 1347, in Epistolario, Roma, Istituto Storico Italiano, 1890, p. 70.
[19] Petrarca, Sine nomine, 11.
[20] Sant’Ambrogio, Commento al Salmo 37, 43, in Opera Omnia, Vol. VIII/2.
[21] Sant’Ambrogio, Lettera LI, in Ambrose: selected Works and Letters, Grand Rapids, WM. B. Eerdman Publishing Company, 1915.
[22] Ibidem.
[23] Sant’Ambrogio, De Obitu Theodosii, in Opera Omnia di Sant’Ambrogio, le orazioni funebri, Roma, Città nuova editrice, 1985, p. 231.
[24] Seneca, De Ira, 1,2.
[25] Seneca, De Ira, 1,6.
[26] Seneca, De Ira, 1,12.
[27] Seneca, De Ira,1, 11.