Democrazia e dispotismo

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Democrazia e dispotismo

 

di Carla Filosa

Dal depistaggio dei dissensi politici relativi al “riarmo” europeo e alla riesumazione del Manifesto di Ventotene quale veleno contro la piazza pro Europa, il salto in Parlamento (19 marzo) è stato altamente acrobatico. Al di là dell’umana manifestazione emotiva del parlamentare Fornaro, lo sdegno di trovarsi di fronte a parole fascistoidi da parte della Presidente del Consiglio ha determinato sì un tafferuglio, ma nessun chiarimento postumo, politicamente doveroso e umanamente necessario, sul significato “dittatura del partito rivoluzionario” interpretato come negazione del superiore vessillo appropriato di “democrazia”.

Lo spettacolo di Benigni del giorno dopo, come sempre misurabile solo a colpi di share (5 milioni di spettatori), ha glissato sui cardini politici concettuali trattati come “idee superate”, attribuendo ai “nazionalismi” – chissà come formatisi, basta nominarli! –  la condanna di essere “il carburante di tutte le guerre”, cui ha fatto seguito tutto un repertorio da comunista pentito a democristiano fan di De Gasperi, ultimando poi con un’omelia pacificante tra ideali “fratelli” d’Europa. “Democrazia” non è riduttivamente solo libertà di circolazione delle idee, come lo show del narratore richiede, è molto di più: è pari opportunità sociale ai reali conflitti di classe di cui non s’ha nemmen da far menzione!

Data però una situazione internazionale particolarmente difficile a leggersi: a) dalla Turchia l’arresto del sindaco di Istanbul e leader dell’opposizione, Imamo?lu, oltre un altro centinaio di arresti, divieto di manifestazioni, ecc., dopo una decina di altri sindaci contrari a Erdo?an arrestati lo scorso anno, si è sentito risuonare l’allarme “stiamo perdendo la nostra democrazia”; b) dagli Usa provengono poi altri timori di abbandono democratico da parte della presidenza Trump-Musk; c) in Europa non solo Orban ha dismesso libertà civili e attuato la preminenza dell’esecutivo, mentre in Italia ci si sta provando di buona lena . È necessario allora riportare all’attenzione il significato di questi concetti “dittatura” e “democrazia”, farciti in un linguaggio astratto e svuotato nel percorso storico-politico, ma soprattutto l’uso ambiguo di questi termini, usati come grimaldello per legittimare qualunque manipolazione.  

Inevitabilmente si deve ricorrere all’origine storica in cui la rivoluzione francese (1789), partorisce la “democrazia”, mentre il suo punto terminale, la Comu­ne di Parigi, 1871, fa emergere la necessità di conseguire “la dittatura del proletariato”. Se parlare di democrazia indipendentemente dalla rivoluzione è privo di senso[1] bisognerebbe anche chiedersi se, a democrazia politica instaurata, sia ancora legittima l’insurrezione, quale solo vero “diritto storico”, per abbattere il capitalismo. Il suffragio universale che la democrazia comporta riesce a garantire l’effettiva sovranità popolare, o se ne è sapientemente distorto l’intento e adulterato il risultato? Non è un caso se continuamente Meloni ricorda ai propri avversari o nemici (magistrati, politici, giornalisti, ecc.) di farsi eleggere, se vogliono sostenere una propria indipendenza e autonoma funzionalità dalle decisioni governative!

Dalle parole del contemporaneo della Comune, Friedrich Engels, sappiamo che quella “dittatura del proletariato” fu la “vera democrazia”. Il tema della democrazia è perciò talmente complesso, e strettamente dipendente dalle fasi storiche in cui si svolge il conflitto di classe, che non può certo risolversi con pochi banali riferimenti. Le posizioni diverse si devono riferire alle diverse fasi da analizzare. Quindi ora intendere la democrazia quale terreno di lotta per il proletariato è altrettanto giusto che denunciarne le trappole borghesi sottese quali la demonizzazione, o l’esaltazione a massimo emblema della “libertà dell’umanità”, come se questa fosse unita e non conflittuale in classi separate.

Per Marx e Engels che hanno vissuto l’affaccio storico delle prime lotte proletarie insieme alla borghesia da cui doversi distinguere, “il potere politico, nel senso proprio della parola, è il potere organizzato di una classe per l’oppressione di un’altra”, quale conclusione del programma politico del Manifesto, nel 1848. È ov­via, perciò, la ragione per cui gli esponenti della classe borghese, quanto più esercitino unilateralmente il potere – che è potere di classe – tanto più devono nascondersi dietro false parole: e continuano a chiamarlo “de­mocrazia”, ossia etimologicamente “potere del popolo”. Semplicemente Engels, Marx, Lenin, chiamavano perciò il “comando della classe borghese” col termine proprio di dittatura della borghesia, poiché quella era, ed è, la classe sociale che “detta” legge, senza doversi inventare una terminologia come “de­mocrazia borghese”, a tal punto mistificatoria che testualmente vorrebbe solo dire “potere del popolo ... borghese”! Riacquisire terminologia e linguaggio autonomi, di classe, scientificamente corretti e adeguati sarebbe quindi un primo passo per intendere che dittatura del proletariato riguarda concettualmente una fase necessaria e transitoria postrivoluzionaria socialista, posta come possibilità storica nell’avvenuta conquista del potere, quale appunto “forma” della massima democrazia attuabile in una società ancora di classe. Infatti, la dittatura del proletariato nella repubblica democratica implica che il pieno potere politico isti­tuzionale, legislativo esecutivo e giudiziario insieme, sia consegnato ai rappresentanti del popolo sovrano.

A nessuno stato borghese tuttora corrisponde una simile forma di potere. Il parlamentarismo democratico liberale ne è la più grot­tesca caricatura, laddove la “rappre­sentanza” eletta è rabbassata a una mera “forma formale” (per dirla hegelianamente con Marx), una forma vuota del con­tenuto che le si vorrebbe attribuire. Nelle teste dei benpensanti la democrazia diventa poi un’idea fissa, una sorta di dogma che il partito dei padroni vuole richiamare al terreno sul quale si forma il diritto, cioè alla intangibile proprietà privata borghese, mentre il suo concetto originario si riferisce al terreno del diritto quale espressione della possibile sovranità popolare effettiva.

Il carattere distintivo della democrazia socialista si è trasformato insieme alla classe che rappresenta e si riassume nel reclamare le istituzioni repubblicane democratiche come mezzo, non per sopprimere i due estremi, capitale e lavoro salariato, ma per temperarne le antitesi e fonderli armonicamente. Di fronte alla vio­lazione della costituzione, che comincia quando uno dei pubbli­ci poteri si ribella contro l’altro – esemplare in Italia è il continuo conflitto che il governo intende riservare alla magistratura – la democrazia socialista o con altra denominazione modernizzata abbozza solo proteste “entro i limiti della ragione”, di tipo parlamentare. Essa non sa che limitarsi al rispetto della costituzione con mezzi tattici che escludono la forza, essendo stato svuotato il processo rivoluzionario quale strategia di classe oggettivamente antagonista, di cui ha cancellato perfino il ricordo e con questo la conoscenza.

Capitale e lavoro salariato costituiscono ancora l’unità contraddittoria su cui si basa il modo di produzione capitalistico, in questa lunga fase di crisi economica mondiale. La forma politica sviluppatasi unitamente al processo economico di cui è parte si è chiamata “democrazia”, ma al suo interno si intende un duplice opposto  uso: dittatura liberale e dei conservatori per i capitali, terreno di lotta per il proletariato, le cui rivendicazioni sociali sono appunto perennemente smussate nella forma democratica dominante. È l’adeguamento necessario alla fase di crisi, che limita o proprio ostacola l’uguaglianza sociale universale impraticabile ancorché ideologicamente sostenuta, permanendo un potere di classe a difesa della proprietà privata delle condizioni oggettive della produzione.

La democrazia è qui pertanto il travestimento di un dispotismo politico della forma adeguata al mantenimento di tale potere, e la cancellazione della disuguaglianza reale su cui si basa il lavoro salariato che, come classe, viene confinato sempre più nella dipendente precarizzazione di vita, rappresentata invece come uguaglianza e libertà istituzionale. L’evidenza dell’autoritarismo, arbitrio e repressione nella successione continua di decreti-legge sembrano così appartenere al solo ambito e agone politico, mentre al contrario traggono la loro origine e riversano la loro funzionalità sulla differenza ontologica delle classi e della loro lotta, entro il mercato della forza-lavoro e della produttività sociale.

Marx, infine, definisce l’uguaglianza e la libertà come “elementi di disturbo immanenti al sistema” del capitale, per cui questo faccia di tutto, appena praticabile, per elargire la “falsa libertà” (per dirla con Lu Hsün) alle masse additando loro un qualche nemico esterno per restringere libertà interne attraverso legislazioni di emergenza.

Scriveva l’inglese John A. Hobson, più di un secolo fa (1902), a proposito delle radici economiche dell’imperialismo: “è, invero, una nemesi dell’imperia­lismo che le arti e i mestieri della tirannia, acquisite e esercitate nel nostro impero illiberale, siano rivolte contro le nostre libertà in patria. Coloro che sono stati colti di sorpresa dalla totale noncuranza o dall’aperto disprezzo mostrato dall’aristocrazia e dalla plutocrazia di questo paese per l’infra­zione delle libertà del cittadino e per l’abrogazione dei diritti e delle usanze costituzionali non hanno considerato a sufficienza il costante riflusso del veleno del­l’autocrazia irresponsabile dal nostro impero illiberale, intollerante e aggressivo”.

Così la guerra del potere, estorto il consenso di coloro che ancora sono illusi dalla “libertà” tout court, è scatenata contro la grande massa mondiale di coloro che sono definiti “diversi” (comunisti, terroristi, islamici, immigrati, gay, ecc.) per poter riaffermare in modo più subdolo il comando del capitale sul lavoro, proprio come tra fine XVIII e inizio XIX secolo. Il fondamento materiale della crisi mondiale dell’imperialismo, che ne segna irrimediabilmente anche il disfacimento istituzionale da “basso impero”, è per ora da rintracciare nell’a­scesa internazionale capitalistica della Cina, il cui disancoraggio dello yuan dal dollaro e la sua oscillazione valutaria, più che la limitata rivalutazione, è l’obiettivo bellico prossimo venturo quale risposta della democrazia per antonomasia Usa, votata ora alla rincorsa di un disperato protezionismo e obiettivi annessionistici da rapina finale per evitare un crollo catastrofico.

[1][1] Jacques Texier, Rivoluzione e democrazia, Bibliotheca, Gaeta, 1993 p. 8.

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