Elezioni Usa: dal voto postale la prima indicazione

I sondaggi pro Harris sono meno forti di quelli che avevano anticipato la vittoria di Biden e che tra le fila del partito al governo circola molto nervosismo.

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Elezioni Usa: dal voto postale la prima indicazione

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Nel parlare di elezioni Usa è d’uso dare notizia dei sondaggi, nonostante questi non dicano nulla di significativo, dal momento che vanno da un vantaggio minimale della Harris fino a un trionfo di Trump.

Per non parlare dei sondaggi relativi agli Stati chiave, quelli nei quali si dovrebbe decidere il vincitore, ancora meno indicativi perché la vittoria in questi Stati potrebbe essere decisa da qualche singola contea, se uno dei candidati vi prendesse il 90% dei voti (come accaduto per alcune contee della Georgia nelle votazioni pregresse).

Il voto postale

L’unico dato certo finora è che i sondaggi pro Harris sono meno forti di quelli che avevano anticipato la vittoria di Biden e che tra le fila del partito al governo circola molto nervosismo. Lo rileva anche Axios, sito mainstream, che riferisce di come alcuni senatori democratici, chiamati a difendere il loro scranno nel voto che si svolgerà in concomitanza con le presidenziali, abbiano modulato la loro campagna elettorale in stile bipartisan, associandosi in parte a Trump; non si sa mai.

Endangered Democrats brag about Trump ties in final stretch

Altra indicazione che abbia una qualche consistenza riguarda il voto postale, già iniziato in vari Stati, questo sì monitorabile sia per quantità sia per espressione di voto, perché si sa per quale partito ha espresso il voto il singolo votante al quale appartiene la missiva (le liste elettorali Usa, infatti, non sono generaliste, ma ogni elettore deve iscriversi come votante di un partito).

Ma anche qui c’è tanta confusione: si sa solo che al momento il voto postale è meno massivo di quello registrato nello stesso periodo di tempo nelle scorse elezioni (alcuni dati indicano che sia la metà). E che i repubblicani che hanno votato per posta sono di più rispetto alle scorse elezioni (APnews), quando i democratici avevano fatto il pieno a questo livello (tanto che anche stavolta hanno invitato i propri elettori a prediligere tale modalità di voto).

Ma anche in questo caso è solo un’indizio, mentre suscita certa curiosità il fatto che il sindacato dei lavoratori delle poste, come nelle scorse elezioni, abbia espresso il suo endorsement per i democratici.

APWU National Executive Board Endorses Vice President Kamala Harris for the Next President of the United States

Tanta incertezza, dunque, che potrebbe protrarsi, dal momento che lo scrutinio, in particolare in alcuni Stati, potrebbe durare giorni, com’è avvenuto nelle elezioni precedenti, con rischi di suscitare allarmi di inquinamento.

Tra le incertezze, anche la presenza di outsider, candidati cioè non appartenenti ai due principali partiti, che potrebbero rubare voti decisivi in alcuni Stati. Era il caso di Robert F. Kennedy Jr, che poteva togliere voti a Trump, mina che il tycoon è riuscito a disinnescare associandolo a sé.

Per i democratici, invece, l’incubo è Jill Stein, “candidata ebrea anti-israeliana”, recita il titolo di Yedioth Aeronoth, che toglierà voti alla Harris con la sua campagna contro la guerra di Gaza; per questo contro di lei si è attivato da parte del team democratico un fuoco di sbarramento alzo zero.

The Jewish anti-Israel candidate that could hand Trump the presidency

Presidenziali e media

Qualche segnale anche ad altro livello. Ha fatto notizia, ad esempio, che il Washington Post non abbia espresso il proprio endorsement per la Harris, ritornando alla neutralità perduta da tempo.

Una decisione del patron del WP, il multimiliardario Jeff Bezos (che oggi la motiva con uno scritto sul suo giornale) e che ha destato le ire di alcuni cronisti, in particolare dell’autorevole Robert Kagan, che si è dimesso accusando il suo munifico datore di lavoro di essersi piegato a Trump.

Alcuni media hanno fatto passare Kagan per un paladino della libertà, omettendo che egli è co-fondatore del nefasto “Progetto per un nuovo secolo americano”, che tanti lutti ha generato, ed è sposato con la bellicosa Victoria Nuland. Le sue dimissioni, dunque, sono una buona notizia per il mondo.

Meno dirompente, ma non per questo meno importante, il mancato endorsement per la Harris del Los Angeles Times (in controtendenza rispetto alla sua storia). Decisione che ha suscitato anch’essa l’ira funesta di alcune autorevoli penne del giornale, ma che la figlia del proprietario ha motivato spiegando che è una reazione all’approccio Usa agli orrori di Gaza (da cui ci si aspetterebbe una minor vis polemica da parte dei redattori in questione, tant’è).

Meno importante a livello internazionale, il Los Angeles Times è però il giornale della California, Stato che ha un peso notevole nelle presidenziali. Non solo, la California, con la sua Silicon Valley, è il cuore pulsante delle Big Tech, a conferma che tante aziende tecnologiche, in precedenza legate a filo doppio al partito democratico, ora guardano a Trump (BBC).

Infine, anche Usa Today, quarto giornale per diffusione in America, ha deciso di non schierarsi, al contrario di quando appoggiò Biden. Novità si registrano anche sui social media, con X, già twitter, di Elon Musk (che ha appoggiato decisamente Trump) e facebook di Mark Zuckerberg non più ingaggiati nella crociata anti-Trump.

Si potrebbe continuare, ma a dare l’idea del nervosismo che circola nel partito democratico è l’eterno ritorno dell’associazione del nemico a Hitler. Da quando il gioco è iniziato con Saddam viene riproposto ogni pié sospinto. E ora è il turno di Trump di incarnare il Male assoluto.

Mark Zuckerberg’s election-season gift to Republicans

Trump e le guerre

In attesa, è interessante cercare di capire se Trump potrà o meno mutare la politica estera americana, oggi impelagata in due guerre aperte e altre occulte, con la Harris destinata a proseguire su tale scia, anzi a incrementarla dal momento che non ci sarà più il recalcitrante/impotente Biden a tentare di frenare.

Per quanto riguarda Trump, è noto che vuole chiudere il conflitto ucraino. Più problematico un suo eventuale approccio al Medio oriente, che secondo tanti sarebbe devastante data la sua asserita aggressività rispetto all’Iran e il suo legame con la destra israeliana.

In altre note abbiamo accennato che in realtà sarebbe tutt’altro, sempre che riesca a governare (tante e aspre le insidie che incombono su una sua eventuale vittoria). Se torniamo sull’argomento è per quanto su legge su Indianpuchline: “Una presidenza di Donald Trump potrebbe aprire un difficile periodo di 4 anni, ma […] dovrebbe essere preso in considerazione anche che la vicinanza tra il presidente russo Vladimir Putin e Trump potrebbe placare le tensioni tra Washington e Teheran”.

Israel’s ‘zugzwang’ moment with Iran

“Né si può escludere un cambio di paradigma. Trump è un pragmatico per eccellenza, come ha dimostrato quando ha ignorato le critiche e ha coinvolto il leader nordcoreano Kim Jong-Un in una svolta repentina [cioè la via della pace ndr] né è noto come devoto del sionismo”.

Sul punto è di interesse anche quanto dichiarato dal suo Vice, J. D. Vance, che in precedenza aveva manifestato certa aggressività verso Teheran: “Non è nel nostro interesse fare una guerra all’Iran”. Sul tema, vedi anche Raviv Drucker su Haaretz, articolo dal titolo: “Netanyahu pensa che una vittoria di Trump gli darebbe carta bianca, ma rimarrà deluso”.

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