Etiopia. La sfida della pace dopo le guerre politiche

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Etiopia. La sfida della pace dopo le guerre politiche

 

di Francesca Ronchin*

 

Se vi fosse ancora qualche dubbio sul fatto che i conflitti finiscono spesso per essere oggetto di regie esterne che, a seconda degli interessi in gioco, le possono ignorare o cavalcare in modo più o meno evidente, potrebbe essere utile dare un’occhiata a quello che sta accadendo in Etiopia, una delle economie africane in più rapida crescita (+ 13,5% secondo il Fondo Monetario), e sulla strada di un ambizioso programma di riforme tese anche ad attrarre investimenti stranieri.

Il conflitto nella regione del Tigray, provocato dal TPLF (il Fronte popolare di liberazione del Tigray) che ha attaccato l’esercito federale, è ormai chiuso ma per quasi due anni è stato distorto dai media di mezzo mondo che hanno, trasformato l’aggressore nell’aggredito come se il governo etiope stesse scatenando un’operazione di pulizia etnica contro la popolazione tigrina. Non solo. Oggi continua a consumarsi un’altra crisi, con al centro una delle etnie più popolose del Paese, quella degli Amhara, eppure in questo caso, i media e l’onnipresente comunità internazionale dedicano all’argomento non più di qualche sporadico cenno.

Al di là delle specificità di contesto, le due etnie presentano una differenza fondamentale. I tigrini del TPLF hanno alle spalle una potentissima lobby esterna al paese con ramificazioni nella politica americana, europea, nelle organizzazioni umanitarie e nei media. Introduzioni maturate nei 27 anni in cui la leadership tigrina ha guidato l’Etiopia in un rapporto di grande sintonia con le amministrazioni USA da Clinton a Obama, con molti dei politici di allora che oggi siedono al tavolo di Biden. Partnership di vecchia data che hanno fatto sì che sul conflitto in Tigray si imponesse un’unica narrazione, quella del TPLF. Dal segretario di stato americano Antony Blinken al rappresentate UE per gli Affari esteri Josep Borrell, fino ai principali media internazionali a trazione USA, il Primo Ministro etiope, premio Nobel per l’accordo di pace con Eritrea e Somalia, è stato accusato di genocidio contro la popolazione tigrina e addirittura di bloccare gli aiuti umanitari. Una narrazione evidentemente utile a Washington interessata a indebolire un governo, quello di Abiy Ahmed che fin dalla sua nomina nel 2018 ha mostrato di essere poco permeabile a ingerenze esterne.

Tra i propri supporter, il TPLF vanta nomi del calibro di Tedros Adhanom Ghebreyesus, numero uno della Sanità Mondiale ed ex Ministro in forze alla vecchia leadership targata TPLF il quale per due anni ha sfruttato il proprio ruolo per dirottare l’attenzione dei media sul Tigray amplificando le accuse dei ribelli contro Addis Abeba. Ben diversa la situazione dell’élite Amhara che non gode di grosse sponsorhip internazionali in grado di dirottare l’attenzione dei media sulle violenze subite dalla loro etnia. Può contare però su importanti organizzazioni nella diaspora americana come l’Amhara Association of America che da qualche tempo sta cercando di portare la propria causa davanti alla Corte Penale Internazionale e che chiede che l’attuale crisi a danno degli Amhara venga classificata come un vero e proprio genocidio a danno.

Nel caso del conflitto in Tigray, le accuse riportate contro il governo etiope, considerato responsabile di una crisi umanitaria, sono state smentite anche dal World Food Program, ente di certo non di parte, che ha inviato costantemente aiuti nella regione raggiungendo almeno 3 milioni di persone a partire dallo scorso marzo. “La 'carestia' in Tigray è stata una palese politicizzazione”, ha ammesso anche l'ex funzionario del WFP Steven Were Omamo in un libro-verità uscito lo scorso gennaio che rivela come nessun blocco è stato imposto al Tigray da parte di Abiy Ahmed e che le accuse fossero mera propaganda. Quella tentata fino all’ultimo anche dallo stesso Direttore dell’OMS che fino al 4 novembre 2022, quando è stato firmato a Pretoria l’accordo di pace, ha continuato a imputare al governo anche il taglio della corrente elettrica e delle telecomunicazioni, compromesse invece proprio dagli stessi ribelli.

Più complesso ora decifrare quali siano i veri attori dietro le violenze che continuano ad essere perpetrate nei confronti degli Amhara e che hanno le proprie radici nella leadership del TPLF che fin dal proprio manifesto del 1976 aveva messo nero su bianco come questi fossero il nemico numero uno da abbattere. A differenza dei circa 30 milioni di Amhara, profondamente nazionalisti e interessati all’unità del paese oltre ogni differenziazione etnica, il TPLF, ha governato per 27 anni con una linea etno-federalista tesa a rafforzare l’etnia tigrina e la regione di appartenenza del Tigray.

Una volta al governo infatti, il TPLF, ha sottratto agli Amhara le aree di Raya e Welkait (il cosiddetto Western Tigray) consegnandole al Tigray. Non solo, la regione tigrina, e i suoi 6 milioni di abitanti, è sempre stata privilegiata anche nella distribuzione delle strutture sanitarie e di carattere pubblico. Durante i due anni di conflitto in Tigray, nonostante i ribelli del TPLF gridassero al mondo di trovarsi in una crisi umanitaria, curiosamente hanno trovato le risorse e le energie per occupare per ben 2 volte le regioni circostanti Afar e ancora una volta quella Amhara che nelle prime settimane del conflitto era riuscita a tornare in possesso dei propri territori.

Oltre che del TPLF, da qualche tempo la popolazione Amhara è diventata il target anche dei gruppi armati afferenti alla più popolosa etnia del Paese, quella Oromo, e in particolare dell’OLF (Oromo Liberation Front) Shene, considerato “gruppo terrorista” dal Parlamento etiope. Non solo, in alcuni casi, gli Amhara sarebbero vittima anche delle rappresaglie delle forze speciali Oromo regolari. Oltre a velleità secessioniste e indipendentiste, TPLF e OLF condividono lo stesso scopo: cacciare gli Amhara dai propri territori.

E così, oltre a migliaia di sfollati interni costretti a rifugiarsi nell’omonima regione, sono ormai tristemente noti e oggetto di diversi report anche di Amnesty International, il massacro di Mai Kadra, in Tigray, dove nel novembre 2021 persero la vita almeno 600 Amhara o quello di Tole Kebele in Oramai a giugno 2022.

Violenze la cui regia, secondo i più critici dell’attuale governo etiope, dipenderebbe proprio da Abiy Ahmed, anch’egli Oromo, il quale starebbe perseguendo una sorta di “oromizzazione” del Paese. Un’accusa pesante che alcune dichiarazioni dello stesso Abiy hanno però contribuito ad alimentare. Dall’ormai famoso discorso di inizio mandato in cui rivelò come la madre avesse predetto che sarebbe diventato il settimo re d’Etiopia, alla laconica risposta data a chi lo accusava di piantare alberi mentre gli Amhara continuano a more.  “Gli alberi serviranno a fare ombra a quanti riposano in pace”, aveva detto di fronte al Parlamento.

Un atteggiamento “soft” ribadito più volte anche dal Consigliere per la Sicurezza Redwan Hussien e spiegato con il voler cercare un equilibrio tra il pugno di ferro e la mediazione, al fine di non provocare ulteriori escalation in un paese di 110 milioni di abitanti e più di 80 etnie che ta tempo cercano un difficile equilibrio. Linea portata avanti alla fine anche con lo stesso TPLF, che da terrorista con cui non scendere a compromessi è diventato, forse anche sulla scia di continue pressioni esterne, un partner con cui trattare e addirittura riconoscere come potenziale nuovo leader del Tigray vista l’ennesima candidatura alle prossime elezioni regionali. “Guanto di velluto” che il governo etiope avrebbe mantenuto anche nella recente crisi che ha coinvolto la leadership della Ethiopian Orthodox Tewahdo Church, la Chiesa ortodossa etiope, di fatto composta da diverse etnie e guidata da un patriarca, Abune Mathias, tigrino.

Crisi innescata lo scorso 24 gennaio quando tre sacerdoti Oromo, accusando le autorità religiose di discriminare la lingua Oromo e di favorire gli Amhara, si sono auto proclamati vescovi istituendo un nuovo sinodo. Uno “scisma” dai più considerato pretestuoso (le funzioni religiose sono da sempre in diverse lingue) e che ha portato a proteste e a decine di vittime in pochi giorni per mano delle forze governative.

In una trattativa al cospetto del Primo Ministro, dopo le scuse da parte dei religiosi “secessionisti”, la Chiesa ortodossa si è detta pronta a finanziare con più fondi e risorse le strutture religiose nella regione dell’Oromia. Un accordo che se da un lato vede riaffermarsi l’unità della Chiesa ortodossa va nella direzione di un ennesimo rafforzamento dell’etnia Oromo. Anche in questo caso, molto criticata è stata la mediazione di Abiy che anziché condannare il nuovo sinodo Oromo illegale, inizialmente lo avrebbe messo sullo stesso piano di quello ufficiale, sostenendo che “entrambi avessero le loro ragioni”. Fatto sta che dopo l’incontro del 16 febbraio con le massime autorità della Chiesa, il Premier, che ha poi riconosciuto il suo errore, è uscito come pacificatore di una crisi disinnescata soprattutto grazie alla resistenza pacifica della Chiesa ortodossa etiope e a milioni di fedeli.

Del resto, era stato proprio lo stesso Abiy, all’inizio del suo mandato a farsi portatore di un’importante operazione di riunificazione della Chiesa ricomponendo la sezione americana portata avanti dal patriarca Abune Merkorios costretto a fuggire all’estero a causa delle pressioni ricevute dalla leadership tigrina di allora. “Vogliamo l'unità della Chiesa ortodossa etiope perché la Chiesa è un Paese” aveva detto allora il premier.

Se davvero Abiy abbia intenzione di alimentare la divisione del paese favorendo l’oromizzazione dell’Etiopia o se dietro a questi conflitti su base etnica vi siano altri attori, sarà solo il tempo a dirlo. Di certo, la strategia del divide et impera è sempre stata una prerogativa del TPLF che già nel 1994, in una conversazione tra l'allora Primo Ministro etiope Meles Zenawi e il Presidente dell’Eritrea Isaias Afewerki, aveva messo ben in chiaro, come per governare l’Etiopia dovesse dividerla.

In tal senso, non stupirebbe che il TPLF, che con l’accordo di pace ha dovuto cedere le proprie armi alle forze federali e rinunciare alle proprie mire espansionistiche, abbia tutto l’interesse ad alimentare il caos nel paese proprio tramite i ribelli Oromo.

Intanto, la speranza è che l’esempio del Tigray non faccia scuola e che gli Oromo non si illudano che prendere le armi possa portare a ottenere almeno alcune delle rivendicazioni. Che il Primo Ministro, come promesso, porti avanti la promessa riforma della costituzione abolendo il federalismo etnico che sembra il vero cancro del paese. Ulteriori pretese etniche e un’ulteriore guerra rischia infatti di compromettere il percorso di pace che il premier Abiy ha ribadito anche in occasione dell’ultima conferenza dell’Unione Africana ad Addis Abeba e di interrompere programmi di cooperazione e sviluppo come quelli annunciati anche dall’Italia in occasione della visita a Palazzo Chigi tra il premier etiope e Giorgia Meloni. Una partnership che vede sul tavolo 180 milioni di euro e a breve, come annunciato dal Presidente del Consiglio, una vera e propria missione in Etiopia anche con imprenditori italiani al seguito.


*Giornalista indipendente. Ha collaborato, tra gli altri, con la Rai e Panorama. E' autrice di "Ipocrisea" (Compagnia Editoriale Aliberti)

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