Fu vero golpe? Il déjà vu dell'agosto 1991

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Fu vero golpe? Il déjà vu dell'agosto 1991


di Fabrizio Poggi 

La situazione verificatasi con la sollevazione dei caporioni della “Wagner” è intricata. Inutile e controproducente azzardare ipotesi: di regola, non ci si azzecca mai. Più prudente attenersi ai fatti. E i fatti sono ormai a conoscenza di tutti, mentre sui media liberal-atlantisti si sprecano le “interpretazioni”, tutte giocate sul tema “la fine di Putin”.

Per quanto ci riguarda, però, molto ma molto rimpiattato in un angolino della mente, risuona un qualcosa di déjà vu: per la precisione, l’agosto del 1991. Trentadue anni fa, nei tre giorni che l’acume liberale continua tutt’oggi a definire “golpe”, non venne sparato un solo colpo.

A quanto pare nemmeno il 24 giugno 2023, se si escludono gli episodi di scontri tra “wagneriani” e esercito nel periodo precedente la “sollevazione”. Sicuramente, così come nel 1991 si venne a sapere del “gioco delle parti” tra Mikhail Gorbacëv e gli otto “gekaepisti” soltanto diversi mesi dopo le giornate d’agosto, anche questa volta la realtà dei fatti farà capolino solo tra un po’ (o molto) di tempo.

Nessun fatto testimonia della verosimiglianza di una tale ipotesi; e, però, è dura da scacciare la sensazione che Evgenij Prigožin abbia reso un servizio a Vladimir Putin e il presidente, che ancora al mattino prometteva una «dura punizione» per i rivoltosi, nel pomeriggio ha consentito all’uscita indisturbata del wagneriano verso la Bielorussia.

Un po’ presto anche per definire con esattezza quali diverse cordate del capitale russo (e non solo) siano dietro agli uni e agli altri protagonisti delle attuali vicende e quali obiettivi strategici perseguano.

Ora, nel 1991, ammessa la cosiddetta buona fede dei “gekacepisti” di voler salvare la sopravvivenza dell’URSS con un tentativo quantomeno goffo, e ammessa anche l’abitudine di Gorba?ëv a non decidere un bel nulla, mandando avanti gli altri per vedere come va a finire, il risultato fu quello che tutti si conosce, con Boris Eltsin, autentico golpista, proclamato “eroe della democrazia”.

Per il 2023, il “terzo incomodo” non è al momento visibile e non è assolutamente detto che esista; e lasciamo alla “coscienza” di redattori e direttori in giacca e cravatta di raccontare altre storie. Non facciamo gli indovini sui fondi di caffè.

Di fatto, è difficile ricordare segnali di clamorosi conflitti tra il presidente e il Ministro della difesa Sergej Šojgu, bersaglio dichiarato, insieme al Capo di stato maggiore Valerij Gerasimov, delle ripetute invettive di Prigožin; anzi, la cronaca li ha più volte ritratti insieme, anche in occasioni di vita privata, forse di più e più spesso rispetto a quasi tutti gli altri Ministri.

Ed è vero anche che varie fonti hanno invece ipotizzato (quando non addirittura dato per certo) accordi tra il capo wagneriano e l’Intelligence USA, come hanno fatto, ad esempio Scott Ritter o Rebekah Koffler. Dunque, la nostra sensazione di déjà vu ha tutte le probabilità di rimanere tale e nient’altro.

Tralasciando un attimo quanto detto finora, sembra che, nella vicenda attuale – a meno di non aver fatto cilecca nelle letture – il precipitare degli avvenimenti abbia fatto sì che sia rimasto abbastanza trascurato l’intervento di Evgenij Prigožin del 23 giugno.

Ora, per quanto obbrobrio possano suscitare una compagnia di mercenari e il suo capo ufficiale, alcuni spunti del suo discorso appaiono non privi di significato; allo stesso modo di come nient’affatto privi di significato sono stati i “parallelismi” evocati da Putin tra il «colpo alla schiena» dei “wagneriani” e quello «inflitto al nostro paese nel 1917, quando il paese conduceva la Prima guerra mondiale. Ma la vittoria gli fu rubata».

Le recriminazioni su “colpo alla schiena” e “vittoria rubata” attraversano buona parte della storia del novecento: fascisti e nazisti ne hanno dette e ridette al proposito.

Ma da chi fu “rubata” la vittoria in Russia? «Intrighi, zizzanie, politicantismo alle spalle dell’esercito e del popolo si risolsero in un grandissimo sconvolgimento. Crollo dell’esercito e disgregazione dello stato, perdita di un immenso territorio e infine la tragedia della guerra civile».

Ora, a dirla tutta, con quelle parole può darsi benissimo che Putin volesse riferirsi agli intrighi ministeriali e di corte che precedettero la rivoluzione borghese di febbraio; ma, è risaputo che la concezione borghese del 1917 mette in un tutt’uno febbraio e ottobre e i monumenti innalzati in Russia ai generali bianchi lasciano pochi dubbi.

Comunque sia, non sembra poi così profonda la differenza tra le afflizioni nazionaliste di Putin e “l’impeto” nazionalista del suo ex “cuoco”: la disgregazione dell’esercito nel 1917 pare fare il paio con la situazione non rosea delineata dal secondo per il 2023.

Dunque, in quella mezz’ora di intervento in solitaria, Prigožin parte da lontano, dal 2014 e afferma che dopo il golpe a Kiev, nemmeno in autunno furono rafforzati i confini tra L-DNR e Ucraina: da parte dell’esercito «non ci fu volontà di farlo».

Nel periodo 2014-2022, dice il “wagneriano”, il Donbass è diventato «terra di rapina, sia da parte di elementi dell’amministrazione presidenziale e del FSB russi, sia da parte di oligarchi della cerchia prossima al potere».

Dopo alcuni accenni a storie di “lucro”, su quelle che lui ha paragonato alle “anime morte” gogoliane, di alcuni reparti delle milizie, che esistevano solo sulla carta, Prigožin passa all’attacco vero e proprio dei vertici militari che, dopo il 2012, proseguendo sulla malefica strada del precedente Ministro della difesa, Anatolij Serdjukov, ha continuato a ridurre l’esercito in uno stato decrepito, assolutamente non in grado di condurre alcuna operazione su larga scala.

Un gran numero di generali, ha detto «si sono addobbati di medaglie, come alberi di natale, anche senza esser mai stati al fronte. Si sono attribuiti le stelle di “Eroe della Russia” , ridendosela alle spalle del Ministro della difesa».

Il risultato è stato la totale assenza di preparazione nell’esercito, con cui si è arrivati al 24 febbraio 2022, e gli stessi generali che «non hanno mai tenuto in mano un’arma, ma che presentavano a Šojgu graziose e colorate carte militari», hanno dato il via a una «operazione pianificata con inettitudine».

Sin qui, una tirata di nazionalismo che non ha nulla da invidiare alle medesime tirate udite in altre sollevazioni attuate in giro per il mondo nel nome della “salvezza dello stato e del popolo”.

Nello specifico delle operazioni in Ucraina, è vero che Prigožin accenna a una non meglio definita «disponibilità di Zelenskij ad accordarsi allorché fu eletto presidente». Ma, detta così, l’affermazione, se da una parte rievoca indirettamente le promesse elettorali di Zelenskij, che nel 2019 gli assicurarono la vittoria su Petro Porošenko, di metter fine alla guerra in Donbass, dall’altra tralascia completamente, come accade spesso nella “letteratura” liberale, il ruolo di padrini e padroni esterni che decidono il ruolo dei nazi-golpisti ucraini.

Ad ogni modo, la «bella storia della de-nazificazione e de-militarizzazione dell’Ucraina, sarebbe andata bene se si fosse presa Kiev in tre giorni», come era possibile fare, mentre invece «si pesticciò sul posto, intorno a Kiev, per qualche giorno, perché a Šojgu mancarono gli attributi per decidere», afferma il “Tejero” russo.

Se quando arrivammo a Kiev, continua, avessimo proposto «a quelli che là avevano il potere di decidere: o ci accordiamo, oppure andiamo avanti anche oltre Kiev, avremmo potuto creare un “comitato di crisi”, anche con nostri rappresentanti e avremmo messo le carte in tavola sulla situazione dei cittadini russi d’Ucraina.

E invece, quella feccia del Ministero della difesa, decise di mandare al macello altri soldati russi: la guerra era necessaria solo a Šojgu, per aggiungersi un’altra stella di “eroe” e al clan oligarchico che di fatto comanda in Russia».

Altro scopo della guerra era quello di insediare a Kiev, quale presidente, Viktor Medved?uk, con cui dividere asset miliardari, come è avvenuto poi con «decine di apparecchiature nelle regioni di Kherson, Zaporož’e, che avrebbero potuto servire per riattivare le attività industriali di quelle regioni e che invece sono state semplicemente portate in Russia».

Non sarebbe stato male, ha detto il capobanda wagneriano, «dare il meritato castigo al regime di Zelenskij, agli americani per il golpe del 2014; ma fu perso troppo per pensare a dividersi i soldi. Hanno scambiato Medvedcuk con quelli di “Azov”, ma se davvero volevano de-nazificare l’Ucraina, che almeno li avessero scambiati con nostri soldati prigionieri»; per quanto mi riguarda, ha detto, «Medved?uk poteva anche finire fucilato» in Ucraina.

Come si vede, le sparate di Prigožin – nei confronti di generali e di massimi vertici del Ministero della difesa, adopera espressioni “molto forti”, per usare un eufemismo – paiono tutte rivolte a far decidere il presidente a “ripianare” una situazione delle Forze armate russe “non ottimale”.

Quanto in esse agiscano le egoistiche esigenze della stessa “Wagner”, è abbastanza evidente; ma non si coglie in esse un piano o una volontà di “far fuori” Vladimir Putin.

Anche per questo, forse, il 25 giugno, sull’agenzia REX, Roman Alëkhin, nazionalista e volontario in Donbass, scrive di non escludere l’esistenza di un “piano astuto” e che lo stesso Putin abbia potuto dare il via alla “Marcia della giustizia” per un «cambiamento sia di quelle élite che si oppongono allo sviluppo del paese e ad accelerare la vittoria, sia del ribelle ministro della difesa, che ha ridotto l’esercito in un tale stato e che, né come ufficiale, né come dirigente, intende ammettere i propri errori e farsi da parte docilmente. Ma, alla fine, se non vedremo la rimozione del ministro, allora ieri abbiamo perso tutti, presidente compreso». Chiaro, l’input dato a simili parole dalle esternazioni di Prigožin.

Ma, se Prigožin avesse veramente voluto attuare un colpo di stato e destituire il presidente, dice Alëkhin, non si sarebbe fermato. Però non lo voleva: Prigožin è «davvero stanco di quanto succede al fronte, che i combattenti russi muoiano senza senso per la carenza di munizioni, di blindati, di droni e anti-droni, come pure per gli stupidi ordini di comandanti non professionali, per la corruzione, la negligenza e l’abuso di potere».

Insomma, agli occhi di Alëkhin, con l’uscita di scena (per ora) del “wagner-capo”, la Russia ha perduto un “eroe” che si batteva per la giustizia e lo faceva, «come sempre accade quando le leggi, per di più volute proprio da oligarchi, burocrati e funzionari corrotti a misura di se stessi, non vengono eseguite nemmeno nei casi più eclatanti».

Il vincitore di sabato è stato Aleksandr Lukašenko: «non è forse questo è il piano astuto di Putin? Come spiegare altrimenti la comparsa del ”wagner” in Bielorussia? Il Batska ha salvato la grande Russia e si è rafforzato».

Anche Sergej Išcenko, su Svobodnaja pressa, che pure è lontanissimo dai panegirici di Alëkhin all’indirizzo di Prigožin, si chiede, nel caso in cui Šojgu e Gerasimov vengano lasciati ai propri posti, «come accoglierà la cosa l’esercito, che sta combattendo contro il nemico esterno? Dopotutto, la pericolosissima impopolarità di questi capi militari tra le truppe e la più che evidente riluttanza dei nostri soldati e ufficiali a difenderli, si è rivelata con la quasi totale mancanza di ostacoli nella marcia di Prigožin su Mosca».

Così anche Elena Panina, redattrice corrente della nazionalista Front News, scrive sull’agenzia REX che la «precedente tattica di evitare il conflitto e di eluderlo, fa sì che esso diventi distruttivo. Le contraddizioni non si dissolvono, ma esplodono, per la forza accumulata e portano a costi inaccettabili. I cambiamenti organizzativi devono aversi per tempo, e non post factum, quando la pressione nel calderone sociale è così alta che minaccia di far saltare il coperchio».

Insomma: che Vladimir Vladimirovic, novello Mikhail Sergeevic, abbia mandato avanti il “cuoco” a controllare le cucine, o meno, pochi dubbi che, giuramenti di fedeltà al Presidente a parte, anche i media ufficiali chiedano ora quello che la gente, in Russia, mormora da tempo: sulla Frunzeskaja naberežnaja, le glorie di Mikhail Frunze e dell’Esercito Rosso sovietico hanno da tempo lasciato il posto a nepotismo e arricchimenti personali di una qualsiasi armata d’affari.

Ma, probabilmente, non ci abbiamo azzeccato nemmeno questa volta, mentre lo scontro tra USA-NATO e Russia continua e i pericoli di conflitto mondiale si fanno sempre più gravi.

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