Fulvio Grimaldi - Si riscalda l’altro fronte: una Palestina nei Balcani?
In Romania, con il vincitore delle elezioni, Calin Georgescu, neutralista e antiguerra, a cui hanno annullato il voto popolare e negato il ballottaggio, è andata come NATO e UE hanno voluto. In Serbia, dall’altra parte dei Balcani “normalizzati”, ci si sta dando da fare.
di Fulvio Grimaldi
Si avvicina il 26° anniversario dell’aggressione NATO alla Serbia, fase culminante della disgregazione della Jugoslavia programmata e condotta, sotto supervisione USA, da Germania e Vaticano, con supporto di forze fascistoidi locali in Croazia, Bosnia e Kosovo. Gli eventi che stanno sconvolgendo la Serbia a partire dal novembre scorso rappresentano l’ennesimo episodio di una strategia che, a partire dalla fallita “normalizzazione” postbellica della Serbia, non ha mai cessato di puntare all’obiettivo già mancato dalla Germania nazista: Serbia delenda est. Strategia UE-USA che si dipana in forma di pressioni diplomatiche, ricatti economici, conflittualità tra le entità statali o pseudostatali fabbricate dagli aggressori e, come in questi giorni, innesco di fenomeni eversivi basati su qualche settore insoddisfatto, o manipolabile, della popolazione.
Permettetimi un ricordo personale che, nel suo piccolo, è comunque indice di come, già sul finire del secolo scorso, il sistema mediatico si era compattato intorno al progetto dell’eliminazione, a fini di euro-colonizzazione, di questa anomalia politico-ideologico-sociale rappresentata, prima, dalla Jugoslavia comunista di Tito e, poi, da quella di Slobodan Milosevic, già a brandelli, ridotta a Serbia-Kosovo-Montenegro, ma pur sempre socialista e non allineata. L’occasione di disfarsi di questo presidio avanzato del mondo slavo, intimamente connesso alla Russia, la offrì l’URSS eltsiniana degli anni ’90.
18 o 24 marzo 1999? Non so precisare chi sbaglia tra chi fissa sull’una o sull’altra data l’inizio dei bombardamenti NATO su Belgrado Una guerra in cui si propone come comprimario, grazie alla posizione geografica e ad Aviano, il governo D’Alema-Mattarella con dentro il Partito Comunista di Marco Rizzo. Una triade che si può assegnare il vanto criminale di aver rotto, con la prima guerra di europei contro europei. una pace post-conflitto mondiale giurata eterna. Guerra e spese sempre per conto degli USA e a spese nostre, oggi in Ucraina, ieri in Libia, l’altro ieri in Serbia.
La mattina dopo la notte dal 18 al 19 marzo che, nei miei ricordi, fu quella del primo dei 78 giorni di bombardamenti a tappeto sulla Serbia, solita riunione di redazione del TG3. Si scorrono i dispacci delle agenzie, si avverte che la guerra è iniziata e, direttore Ennio Chiodi, ci si duole dell’accaduto, ma ci si deve convincere tuttavia che sia da giudicare un intervento umanitario, dunque, giusto e irrinunciabile, “date le atrocità compiute dai serbi nel Kosovo”, paese solo colpevole, al di là delle brighe secessioniste di George Soros e dell’albanese Madre Teresa, di ricerca di indipendenza e libertà”
Ed è così che avremmo, noi cronisti e analisti, dovuto proiettarlo al pubblico. Sul modello di come le cose ci erano state raccontate dalla nostra inviata nel Kosovo contestato al controllo serbo dalle brigate di tagliagole, con supporto NATO, di Hashim Thaci (poi, molto più tardi processato e condannato per crimini contro l’umanità e crimini di guerra, tra cui traffico di droga e organi). Ma che fa, conta che intanto gli USA avevano potuto stabilire in Kosovo Bondsteel, la propria più grande base militare in Europa. L’inviata del TG3 era la mia collega Giovanna Botteri. Per questi suoi meriti, poi assurta alle posizioni apicali della RAI all’estero: prima New York, poi Pechino, ombelichi del mondo, per chiudere Parigi, dolce dormire.
Quello stesso giorno lasciai la RAI per sempre. Presi una telecamera e arrivai a Belgrado. Giusto in tempo per visitare un ospedale dove i neonati stavano morendo nelle incubatrici private della corrente da rete elettrica distrutta dalle bombe in tutto il paese. Poi sarebbero venute le bombe a grappolo, con relativo sterminio nel mercato di Nis, gli stabilimenti petrochimici disintegrati a Pancevo, la pioggia da geoingegneria fatta rovesciare su quella zona, tanto da far uscire il Danubio dagli argini, alluvionare la piana e, così, spargere i veleni fatti fuoruscire da fabbriche e depositi, a perenne effetto contaminante del suolo e della vita.
Non poterono mancare le bombe e i missili all’uranio impoverito, con gli effetti desiderati perenni nei secoli e già conseguiti in Iraq, dove, se ne avete lo stomaco, ne potete constatare gli effetti in un paio di miei documentari: “Genocidio nell’Eden” e “Chi vivrà Iraq”.
Dalla Serbia scrissi per il quotidiano “Liberazione”. E gli mandai la riproduzione di un titolo che un quotidiano serbo aveva dato a una mia intervista: “Meglio serbi che servi”. Non piacque al segretario del partito di cui il giornale era l’organo. Fu cestinato. Come anche, un anno dopo, l’intervista che mi diede Milosevic, tre giorni prima del suo arresto e del suo trasferimento al Tribunale yankee dell’Aja: “Non ci si può appiattire su Milosevic”, spiegarono, con grande sensibilità deontologica. All’Aja, poi, presidente del tribunale yankee il professore Fausto Pocar, non essendo riusciti a dichiararlo colpevole, lo fecero morire. Meglio sarebbe servita, più tardi, a criminalizzare la Serbia in perpetuo e a discolpare del crimine la NATO, la gigantesca false flag di Srebrenica.
Veniamo a quest’altro dunque. Uno, dotato di un residuale senso di umanità che tempora et mores ci hanno lasciato, si sarebbe immaginato che dopo quanto inflitto alla Jugoslavia e poi alla Serbia, suo vero cuore storico e culturale, la “comunità internazionale” avrebbe rinunciato a infierire su quel grumo di resistenza nei Balcani. Nossignore. Tito o non Tito, Slobo o non Slobo, la Serbia, insistendo a fare di testa sua in un’area tutta bell’e sistemata, come fosse un qualsiasi Stato di diritto. E questo non gli deve spettare.
Rifiuta le sanzioni alla Russia, non sostiene in armi, e neppure a parole o soldi, l’Ucraina, ha chiesto anni fa l’adesione alla UE ma rifiuta di accettarne la condizione primaria: il riconoscimento del Kosovo, paese indipendente, NATO e narcotrafficante. Si ostina a sostenere i 70.000 serbi, su 350.000 cacciati (insieme ai 250.000 serbi dalle Krajine croate), rimasti nel Kosovo e periodicamente angheriati, aggrediti, sabotati, dal regime di Pristina, con il concorso della spedizione KFOR (NATO). Le infrastrutture, nuove o da ricostruire, gliele fa, ohibò, la Cina, come le realizza anche nello Stato satellite, strappato alla madrepatria, la Repubblica Srbska, incastrata a forza dagli accordi di Dayton nel mostro a tre teste della Bosnia-Erzegovina (coacervo croato, bosniaco, serbo in costante, voluto attrito: una miccia da accendere quando conviene).
E che viene accesa periodicamente in Kosovo e in Bosnia Erzegovina, sempre col pretesto di qualche manifestazione di indisciplina serba, ultimamente perché il governo della Srbska si è rifiutato di riconoscere e celebrare la truffa di Srebrenica (presunto eccidio di 8.000 civili bosniaci per mano dei comandanti serbi Mladic e Karadzic. Entrambi a processo al tribunale yankee dell’Aja).
Ora la miccia è arrivata direttamente in Serbia. Segno che siamo alla resa dei conti? Che la strategia della palestinizzazione, o sirizzazione, della Serbia refrattaria, qui a lungo covata ed episodicamente sperimentata, proprio come in Medioriente, sia arrivata al barile della polvere da sparo?
Il 1. Novembre, a Novi Sad, crolla una tettoia di cemento e uccide 15 persone. Serpeggia e poi scoppia una rivolta. Si parla di lavoro malfatto, di mazzette, di corruzione specifica, ma anche diffusa. L’ambiente è propizio. Novi Sad è la capitale della provincia della Vojvodina, alberga una minoranza di lingua magiara che potrebbe integrarsi alla sommossa aggiungendo sue rivendicazioni.
Per la verità lo spirito del territorio non lo indicherebbe: nei mesi successivi ai bombardamenti che distrussero in Vojvodina tre ponti sul Danubio considerati una meraviglia ingegneristica e architettonica, furono proprio i vojvodini a patriotticamente rimettere in piedi la propria parte del paese. Si rimboccarono le maniche e ricostruirono in tempi considerati miracolosi ponti, fabbriche, ospedali, case, raffinerie che, solo sei mesi prima avevo visto incenerite. Scarsa, evanescente fu anche la partecipazione di questa regione alla sedizione di Otpor, organizzazione addestrata a Budapest da generali USA, che portò alla caduta di Milosevic.
Le proteste per il massacro della tettoia divennero un fuoco di fila, fino ad allargarsi a incendio nazionale. Ne divennero protagonisti gli studenti universitari e delle scuole superiori. Dalla pubblicazione dei documenti relativi alla costruzione della tettoia e di altre, per qualche verso sfortunate, strutture pubbliche, si passò alla richiesta di maggiori stanziamenti per l’istruzione, la liberazione di studenti fermati nei tumulti, la de-gerarchizzazione del sistema scolastico, la rimozione di politici e funzionari.
Dopo i primi giorni di spontaneismo emotivo, le manifestazioni si strutturano in organismi permanenti, articolati per territorio, grazie anche al massiccio intervento delle immancabili ONG, molte con i noti referenti occidentali. Ed è qui che c’è motivo per pensare a una nuova rivoluzione colorata che, approfittando di un disagio parzialmente motivato, punti alla normalizzazione completa dei Balcani Occidentali. Il premier, segretario del partito Progressista, Milos Vucevic, dimettendosi a seguito di una serie di aggressioni contro membri del suo partito, ha denunciato questo aspetto e ha puntato il dito sui noti euro-manovratori contro la Serbia e a rafforzamento del ruolo atlantista delle altre componenti dell’ex-Jugoslavia, in particolare del Kosovo.
Certi slogan e simbolismi che richiamano i moti che portarono alla caduta di Milosevic dopo l’aggressione NATO, tipo il pugno nero, allora, e la ”mano Rossa”, oggi,msembrano dargli ragione.
A questo punto la prospettiva dell’ingresso nella UE pare non essere più presa in considerazione da nessuna delle due parti. Il presidente Alexandar Vucic, dello stesso Partito Progressista di Vucevic e capo dello Stato dal 2017, ha ripetutamente invocato la composizione delle tensioni e ricordato di aver accolto tutte le istanze degli studenti. A dispetto di un atteggiamento di disponibilità al dialogo, viste le porte sbattute in faccia alla Serbia da Bruxelles e l’evidente manina occidentale nel sommovimento in corso, ha ribadito l’assoluta neutralità del paese (dunque ciao ciao NATO) e il diritto del paese di scegliersi i partner che meglio ne sostengono gli interessi. Implicito: russi e cinesi.
Dal lato orientale di questa regione balcanica, da sempre in sommovimento e matrice di eventi epocali che coinvolgono altre parti del mondo, la Romania vive un’esperienza che, per ora, in Serbia non si è realizzata. Con Calin Georgescu, candidato vincente alla presidenza, neutralista e antiguerra, cui è stato negato dalla Corte Suprema, con l’annullamento delle elezioni, il diritto al ballottaggio in cui risultava largamente favorito, si è visto quali esiti si propone l’Occidente nel caso che la democrazia non produca il risultato voluto. Vucic e la Serbia stiano in guardia. Di quanto ci si possa fidare degli amici ce lo dice la Siria.
Meno male che noialtri si viva nella parte di mondo dove sono le democrazie.