"Generazione Antidiplomatica" - Colpi bianchi nell'ombra: quando il Diritto sopprime la sovranità
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Articolo di Vincenzo Pellegrino, laureato in Giurisprudenza di Perugia
La democrazia europea vive una contraddizione significativa: il diritto, nato come strumento di tutela delle libertà, si trasforma sempre più spesso in un mezzo di coercizione. Le cosiddette "trasformazioni istituzionali" – manovre in cui il rispetto formale della legalità maschera una limitazione della volontà popolare – si moltiplicano, assumendo forme silenziose e difficilmente riconoscibili. Parlamenti in scadenza prendono decisioni vincolanti per il futuro, tecnocrati non eletti influenzano le politiche nazionali e le corti avallano scelte controverse, contribuendo a un’erosione progressiva della sovranità popolare. Quattro episodi emblematici – l’inchiesta Mani Pulite in Italia, la lettera della BCE a Berlusconi, il referendum greco del 2015 e il recente riarmo tedesco – offrono uno spunto per comprendere questa tendenza, mostrando come il diritto possa diventare uno strumento per consolidare assetti di potere senza il necessario consenso democratico.
Il primo caso ci conduce in Italia, dove un intervento giudiziario ha segnato una svolta epocale. Tutto ha inizio con l’inchiesta Mani Pulite: tra il 1992 e il 1994, i magistrati milanesi, guidati da Antonio Di Pietro, avviano un’ampia indagine sulla corruzione, portando al crollo della Prima Repubblica e al ridimensionamento di partiti storici come la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista Italiano. Presentata come un necessario intervento di risanamento etico, l’inchiesta solleva però interrogativi sulla selettività delle indagini: Bettino Craxi subisce un duro attacco giudiziario, mentre altri attori politici riescono a evitare conseguenze rilevanti. Se da un lato la corruzione era un problema concreto – il sistema Tangentopoli drenava circa il 2% del PIL annuo – dall’altro, l’operato della magistratura non si limita a perseguire reati, ma incide direttamente sugli equilibri politici. Questa dinamica, in cui il diritto si trasforma in uno strumento di ridefinizione del potere, non resta confinata all’Italia: un’eco si ritrova nell’inchiesta Lava Jato in Brasile, dove l’esclusione di Lula favorisce indirettamente l’ascesa di Bolsonaro. Episodi come questi rivelano come la giustizia, se non adeguatamente bilanciata, possa alterare l’assetto democratico di un Paese, una tendenza destinata a riproporsi in successive vicende europee.
Questa intersezione tra diritto e potere riemerge con forza nel 2011, quando l’Italia torna al centro di una dinamica simile, questa volta sotto la pressione di istituzioni sovranazionali. La Banca Centrale Europea, guidata da Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, invia una lettera al governo italiano, ponendo condizioni stringenti per il sostegno ai titoli di Stato. Con uno spread a 575 punti e un debito pubblico al 120% del PIL, l’Italia versa in una situazione economica critica. La BCE interviene richiedendo riforme strutturali immediate – tagli alla spesa pubblica e liberalizzazioni – pena la perdita del supporto finanziario. La caduta del governo Berlusconi e la successiva nomina di Mario Monti, figura tecnica non eletta, sollevano dubbi sull’influenza delle istituzioni finanziarie sovranazionali sulla sovranità politica italiana. Se alcuni difendono tali misure come necessarie per scongiurare una crisi più grave, altri vi scorgono un esempio di come strumenti finanziari possano condizionare governi democraticamente eletti. Un’ombra analoga si proietta pochi anni dopo sulla Grecia, dove la volontà popolare viene nuovamente messa alla prova.
Il meccanismo osservato in Italia si ripresenta infatti nel 2015 in Grecia, amplificando il ruolo delle istituzioni finanziarie nel piegare le scelte democratiche. Il governo di Alexis Tsipras indice un referendum per decidere se accettare un nuovo piano di austerità proposto dalla Troika – BCE, FMI e Commissione Europea. Il 61% dei cittadini respinge le misure, ma la BCE limita l’assistenza di liquidità d’emergenza (ELA) alle banche greche, costringendo Atene a chiudere gli sportelli bancari e a introdurre controlli sui capitali. Dopo pochi giorni, sotto una pressione economica crescente, Tsipras accetta un accordo ancora più severo di quello precedentemente rifiutato.
Questo episodio dimostra come gli strumenti finanziari possano influenzare decisioni politiche, mettendo in discussione la reale capacità di un Paese di autodeterminarsi nel quadro dell’Unione Europea. La tensione tra legalità formale e legittimità popolare, già emersa in Italia, si ripropone qui con maggiore evidenza.
Questa stessa tensione riaffiora oggi in un contesto diverso, quello tedesco, dove una decisione parlamentare solleva interrogativi simili. Nel marzo 2025, il Bundestag uscente approva un ambizioso piano di riarmo voluto da Friedrich Merz, con un ingente investimento nella Bundeswehr. La scelta avviene mentre il nuovo Parlamento, espressione di elezioni che hanno visto crescere Verdi e SPD, non si è ancora insediato. Sebbene la procedura sia formalmente corretta – il Parlamento in carica conserva piena legittimità fino alla fine del mandato – la decisione pone domande sulla rappresentatività di un atto che vincola il futuro del Paese. I sondaggi di marzo 2025 rivelano che il 60% dei tedeschi avrebbe preferito un dibattito pubblico sul riarmo, un confronto mai avvenuto. Questo episodio richiama il processo di ratifica del Fiscal Compact nel 2012, quando i Parlamenti nazionali furono spinti a decisioni cruciali sotto la pressione delle istituzioni europee, con scarso margine per la discussione pubblica. Se alcuni analisti giustificano il riarmo tedesco alla luce delle tensioni geopolitiche in Ucraina, Taiwan e Medio Oriente, il nodo centrale resta il ruolo della volontà popolare. La Corte Costituzionale tedesca, confermando la legalità della manovra per garantire continuità istituzionale, alimenta però un dibattito più ampio: le corti devono essere custodi della stabilità o rischiano di legittimare decisioni prive di consenso reale? La prontezza a benedire una scelta controversa senza valutarne il deficit democratico suggerisce che tali istituzioni, lungi dall’essere arbitri neutrali, possano agire come garanti di un ordine prestabilito, sacrificando la voce dei cittadini.
Il filo conduttore che unisce queste vicende – dall’Italia degli anni ’90 alla Germania del 2025 – invita a una riflessione profonda sul rapporto tra diritto e democrazia. La legalità, principio cardine delle istituzioni, non può essere slegata dalla legittimità, ossia dal riconoscimento democratico delle decisioni. La magistratura italiana, la BCE, le istituzioni europee e la Corte Costituzionale tedesca hanno agito nel rispetto delle norme, ma le loro scelte hanno spesso inciso sul principio di sovranità popolare. Il cuore della questione non è la conformità alla legge, ma l’equilibrio tra stabilità istituzionale e partecipazione democratica. Le corti, troppo spesso pronte a sigillare decisioni che scavalcano il popolo, si rivelano complici silenziose di questa deriva, rinunciando al ruolo di contrappeso per sostenere un sistema che privilegia l’élite.
Eppure, questo non è un destino ineluttabile. La democrazia non è condannata a soccombere sotto il peso delle sue istituzioni. Il diritto può ancora essere strappato a chi lo usa come arma e restituito ai cittadini come scudo. Serve una rivolta silenziosa, fatta di consapevolezza, pressione popolare e rifiuto dell’apatia. Ogni colpo bianco è un invito a reagire, a pretendere che le regole servano il popolo, non lo soffochino. Il confine tra legalità e legittimità, fragile ma non spezzato, spetta a noi trasformarlo in un campo di battaglia, dove la voce dei molti diventi un’onda inarrestabile, capace di travolgere i tiranni mascherati da burocrati e di aprire le porte a un’era di vera sovranità.
Che il sussurro dei molti si levi in un canto selvaggio, abbatta le mura di carta dei tiranni e semini nei solchi della storia un’alba di sovranità indomita.