Genesi e sviluppo dell’arsenale nucleare israeliano

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Genesi e sviluppo dell’arsenale nucleare israeliano

 

di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico

 

Recentemente, Amichai Eliyau, ministro del Patrimonio Culturale israeliano inquadrato nel partito Otzma Yehudit ha definito lo sganciamento di un ordigno nucleare sulla Striscia di Gaza come “una possibilità”. Un’uscita che ha prevedibilmente suscitato grande sgomento in tutto il mondo costringendo il suo primo ministro Benjamin Netanyahu a sospenderlo dall’incarico di comune accordo con gli altri membri del governo. Ma soprattutto, l’esternazione di Eliyahu ha fornito un’ulteriore conferma di una realtà ormai nota praticamente a tutti, anche se mai formalmente riconosciuta dalle autorità di Tel Aviv, vale a dire il possesso dell’arma atomica da parte di Israele. Una storia che risale al 1952, quando, ad appena quattro anni di distanza dalla nascita dello Stato israeliano, prese avvio il programma nucleare di Tel Aviv, grazie soprattutto agli sforzi profusi in proposito dal chimico di fama internazionale Ernst David Bergmann. Bergmann aveva affinato le proprie competenze presso l’istituto di chimica organica Emil Fischer di Berlino, dove aveva avuto modo di stringere rapporti con professionisti di settore molto vicini a personalità di spicco della scienza come Ernest Rutherford e Marie Curie. Suo padre era uno dei più influenti rabbini di tutta la Germania, nonché amico intimo del biochimico Chaim Weizmann che qualche decennio dopo sarebbe diventato il primo presidente israeliano.

Stando alle ricerche di alcuni studiosi, fu proprio Weizmann a reclutare Bergmann per conto dell’Haganah (organizzazione paramilitare terroristica ebraica operante in Palestina durante il mandato britannico), che nel 1936 lo aveva incaricato di assoldare uno scienziato in grado di fornire supporto tecnico per la messa a punto di una nuova tipologia di esplosivo da impiegare per la guerra contro gli arabi e le forze colonialiste britanniche. In seguito alla fondazione di Israele, Bergmann fu posto alle dipendenze del Ministero della Difesa, a capo della commissione per l’energia atomica creata per volontà del premier David Ben-Gurion e del suo giovane braccio destro Shimon Peres dopo che Robert Oppenheimer, John Von Neumann ed altri scienziati connessi al Progetto Manhattan avevano declinato la proposta di dedicarsi alla ricerca in Israele. All’epoca, Ben-Gurion e Peres erano fermamente convinti che il neonato Stato ebraico non sarebbe riuscito a garantire le propria sicurezza in assenza di un formidabile deterrente strategico. Conformemente a questa impostazione, Bergmann manifestò le proprie preoccupazioni riguardo la sicurezza nazionale attraverso una lettera in cui si diceva convinto «che lo Stato di Israele ha bisogno di un programma di ricerca per l’autodifesa rivolto a impedire che qualcuno ci trasformi nuovamente in agnelli destinati al mattatoio».

Lo stesso gruppo di lavoro guidato da Bergmann, di cui facevano parte “mostri sacri” della scienza del calibro di Niels Bohr, Amos Deshalit e Aharon Katchalsky, fu incaricato dal Ministero della Difesa di Tel Aviv di avviare le prime prospezioni nel Deserto del Negev per verificare l’eventuale presenza di uranio. Riuscirono a reperire solo alcuni minerali contenenti questa sostanza radioattiva, per estrarre la quale fu escogitato uno speciale procedimento chimico che andava ad appaiarsi al nuovo metodo di produzione dell’acqua pesante, che funge normalmente da stabilizzatore nei reattori nucleari. Gli scienziati israeliani misero a punto questa tecnica di fabbricazione dell’acqua pesante basandosi sull’esperienza maturata in Francia, dove avevano collaborato con personale locale alla costruzione di un reattore e di un impianto di trattamento presso Marcoule; un’esperienza poi rivelatasi molto utile per la messa a punto della force de frappe.

Tel Aviv pensò quindi di far valere i buoni rapporti con Parigi maturati grazie alla cooperazione nucleare dei primi anni ‘50 per chiedere alle autorità francesi di fornire un reattore ad acqua pesante. L’Eliseo comunicò il proprio assenso nell’autunno del 1956, dopo aver  concordato con Tel Aviv l’operazione militare contro l’Egitto del colonnello Gamal Abdel Nasser. Nonostante l’operazione militare si fosse risolta in una clamorosa débâcle, Parigi decise comunque di protrarre la cooperazione con Tel Aviv inviando propri scienziati a lavorare fianco a fianco con i loro colleghi israeliani per la costruzione di un reattore nucleare di 24 megawatt in un bunker sotterraneo edificato presso Dimona, nel deserto del Negev. Le componenti necessarie alla realizzazione del reattore furono reperite sul mercato nero tramite alcuni contrabbandieri di fiducia su ordine diretto di alti funzionari del governo di Parigi, che per far arrivare il materiale in Israele senza destare troppi sospetti dichiararono alle dogane che si trattava di parti di un impianto di dissalazione da costruire in America Latina.

La segretezza era un punto fondamentale dell’accordo di collaborazione franco-israeliano, al punto da indurre le autorità di Tel Aviv a incaricare, nel 1957, il funzionario dello Shin Bet Benjamin Blumberg di creare una sezione dei servizi di intelligence apposita, il Lekem. A questo “ufficio per le relazioni scientifiche” era stato affidato anche il compito di mettere le mani sulle tecnologie e i materiali necessari a fabbricare armi atomiche “in maniera discreta”. Un compito che il Lekem eseguì in maniera magistrale, dapprima ottenendo circa 200 tonnellate di ossido di uranio di origine congolese acquistate in Belgio da una società milanese di facciata, e successivamente sottraendo 266 kg di uranio altamente arricchito – sufficiente a fabbricare 11 ordigni nucleari – dai depositi della compagnia statunitense Numec. L’azienda fu sottoposta a una serie di indagini dell’Fbi per via dei numerosi ospiti francesi e soprattutto israeliani – tra cui il futuro direttore del Lekem Rafi Eitan e il futuro direttore dello Shin Bet Avraham Bendor – che arrivavano a visitarne gli stabilimenti. Va evidenziato il fatto che la Numec era di proprietà di Zalman Shapiro, il chimico ebreo dell’Ohio collocato su posizioni ardentemente filosioniste che aveva fornito un contributo cruciale allo sviluppo del primo sottomarino a propulsione nucleare (lo Uss Nautilus).

Il Lekem, la cui costituzione era sfuggita persino alla Cia, suggerì al governo di Tel Aviv di mentire agli Stati Uniti riguardo alle intenzioni israeliane circa la tecnologia nucleare. I dirigenti dello Stato ebraico seguirono il consiglio, spiegando agli interlocutori statunitensi che il grande dispiegamento di mezzi quali escavatori, trivelle e autotreni nel bel mezzo del Negev che un U-2 statunitense aveva fotografato durante una ricognizione, era in realtà finalizzato alla costruzione prima di una fabbrica di materiale tessile, poi di una fattoria agricola e infine di un centro di ricerca metallurgica. Parallelamente, Tel Aviv contattò con estrema discrezione le autorità norvegesi, che nel 1959 accettarono di vendere sottobanco notevoli quantità di acqua pesante nel quadro di un contratto che obbligava Israele ad impiegare il materiale solo ed esclusivamente a scopi civili e autorizzava personale norvegese ad ispezionare anche a sorpresa le strutture israeliane per verificare il rispetto di tutti i vincoli concordati.

Il presidente De Gaulle, cercando di evitare di esporsi ad attacchi interni ed esterni mentre portava avanti il delicatissimo processo di decolonizzazione che sarebbe culminato con la concessione dell’indipendenza all’Algeria, intimò al primo ministro David Ben-Gurion di rivelare pubblicamente l’esistenza del programma nucleare israeliano minacciando di interrompere la consegna del materiale necessario per completare la costruzione del reattore di Dimona e di un impianto d rigenerazione in caso di rifiuto di Tel Aviv. Di fronte alla tenacia dell’Eliseo, fu concordata una soluzione di compromesso, in base alla quale la Francia avrebbe fornito tutto l’occorrente al completamento della centrale e Israele, come contropartita, avrebbe rivelato apertamente i dettagli relativi al proprio programma nucleare impegnandosi al contempo ad arricchire l’uranio a scopi strettamente civili. Con ogni probabilità, il governo di Parigi era però consapevole che Tel Aviv avesse già varcato il limite che separa la ricerca civile da quella militare, giocando anche sulla estrema labilità di questo confine. «Occorre comprendere che sviluppando l’energia atomica a scopi pacifici si compie un passo decisivo verso la definizione dell’opzione nucleare. Non esistono due tipi distinti di energie atomiche», affermò Ernst David Bergmann dopo aver abbandonato il proprio incarico al Ministero della Difesa israeliano.

L’annuncio di David Ben-Gurion che rivelava l’esistenza del programma nucleare israeliano e del reattore da 24 megawatt, che in realtà erano ormai 70, suscitò grande clamore, spingendo gli Usa, che in precedenza avevano rifiutato la proposta israeliana di includere lo Stato ebraico nel proprio ombrello nucleare e imposto una sorta di embargo sulle forniture militari a tutti gli Stati del Medio Oriente, a richiedere ufficialmente a Tel Aviv di sottoporre l’impianto di Dimona a ispezioni internazionali. Il governo israeliano accolse la proposta, a patto che la centrale fosse stata ispezionata solo ed esclusivamente da personale Usa, che avrebbe poi comunicato al pubblico generale i risultati. L’accordo favorì la successiva sottoscrizione del programma congiunto a scopi civili denominato Atoms for Peace, nell’ambito del quale il governo Eisenhower fornì supporto tecnico agli specialisti israeliani per la costruzione di un mini-reattore per la ricerca presso Nahal Soreq, a sud di Tel Aviv. Nell’arco di sette anni di ispezioni (1962-1969), gli osservatori statunitensi, tra i più autorevoli esperti in materia a livello mondiale, si rivelarono «così ignoranti o disonesti da non accorgersi che i locali che visitavano sono una messinscena, con false strumentazioni che mimano processi inesistenti del nucleare civile, e che sotto il pavimento c’è un enorme bunker a otto piani dove si costruiscono le armi nucleari. In base ai risultati delle ispezioni, sia il presidente Lyndon Johnson che il presidente De Gaulle assicurano ufficialmente che l’impianto viene usato solo a scopi pacifici […]. L’impianto di Dimona viene così completato e, probabilmente nel 1966, comincia a produrre armi nucleari […]. Nel 1967, Israele ha già probabilmente almeno due bome nucleari, che schiera segretamente nella Guerra dei Sei Giorni».

La desecretazione di alcuni documenti testimonia in realtà che il presidente Kennedy, consapevole che le autorità israeliane – Shimon Peres in primis – mentivano riguardo alla natura del programma nucleare, avesse esercitato fortissime pressioni sul primo ministro Ben-Gurion per indurlo a desistere dall’intento di dotarsi di un’arma atomica. Fece notare al capo del governo israeliano che la Cia aveva scoperto l’accordo segreto tra Tel Aviv e la Dassault in base al quale l’avanzata azienda francese era stata incaricata di realizzare 25 missili a media gittata in cambio di 100 milioni di dollari. Il presidente sapeva che questa tipologia di missile, denominato Jericho-1, era in grado di trasportare una testata nucleare miniaturizzata a 500 km di distanza.

Di fronte all’evidenza, Ben-Gurion smise di negare e assunse posizioni molto più equivoche, conformemente alla dottrina della “utile ambiguità”, che consisteva essenzialmente nel non confermare né smentire l’esistenza dell’arsenale nucleare israeliano. Un concetto sintetizzato nella celebre formula coniata da Shimon Peres – e sistematicamente utilizzata da tutti i successivi governi israeliani – per rispondere a Kennedy: «non saremo i primi a introdurre armi atomiche in Medio Oriente». Sul piano operativo, le autorità israeliane cercarono di convincere Kennedy ad autorizzare Israele a dotarsi della bomba atomica sulla base di ragioni legate alla difesa del Paese da aggressioni straniere. «Signor presidente, il mio popolo ha il diritto di esistere e questa esistenza è in pericolo», scrisse Ben-Gurion in una nota diretta a Kennedy. Il presidente Usa continuò tuttavia a tenere la propria linea di ferma contrarietà, arrivando a rifiutare la proposta di Ben-Gurion di sottoscrivere un trattato di sicurezza con Israele e, soprattutto, a invitare nella sua tenuta in Florida il ministro degli Esteri israeliano Golda Meir allo scopo di delegittimare il premier, specialmente alla luce della forte acredine che c’era tra quest’ultima e il premier; un’acredine di cui Kennedy era perfettamente al corrente. Assieme a Pinchas Sapir, Golda Meir era la leader dell’ala del partito Mapai – lo stesso di Ben-Gurion – che contestava il programma nucleare israeliano, considerandolo il principale fattore d’intralcio nei cruciali rapporti con gli Stati Uniti. È probabilmente in forza di ciò che Kennedy si mostrò molto più aperto e conciliante con la Meir, assumendo un impegno di enorme importanza per Israele: «gli Stati Uniticonfidò Kennedy al ministro degli Esteri israeliano – hanno in Medio Oriente un rapporto speciale con Israele, paragonabile solo a quello intrattenuto con la Gran Bretagna in un ampio ambito di questioni internazionali […]. Penso sia chiaro che, nell’eventualità di una invasione, gli Usa interverrebbero in aiuto di Israele. Ne abbiamo le capacità e le stiamo potenziando».

Si tratta di un’assicurazione che le autorità di Tel Aviv non erano mai riuscite ad ottenere da Eisenhower, che per di più assumeva una valenza particolare con la fornitura a Israele degli Hawk – missili difensivi terra-aria fabbricati dalla Raytheon – autorizzata dallo stesso Kennedy. Il successo diplomatico capitalizzato da Golda Meir spinse nell’angolo il primo ministro Ben-Gurion, il quale decise di dimettersi e ritirarsi a vita privata. L’opinione pubblica israeliana attribuì il gesto di Ben-Gurion ad alcuni contrasti insanabili con le potenti organizzazioni sindacali e con l’establishment del partito Mapai per ragioni squisitamente interne, ma, secondo alcune ricostruzioni, a fare la differenza erano state le manovre diplomatiche di Kennedy, le quali avrebbero indotto al ritiro quello che molti abitanti dello Stato ebraico consideravano, al pari di Chaim Weizmann, un eroe nazionale.

In quegli anni, Shimon Peres segnalò a Benjamin Blumberg un giovane rampante di nome Arnon Milchan, titolare di una piccola impresa specializzata in prodotti chimici che sarebbe divenuto successivamente un famoso produttore di Hollywood. Milchan accettò subito di entrare a far parte del Lekem, per conto del quale mise in piedi una fitta rete di società di copertura attraverso cui furono trafugati svariati progetti delle centrifughe per l’arricchimento dell’uranio dal consorzio europeo Urenco – stessa cosa avrebbe fatto, anni dopo, lo scienziato Abdul Qadeer Khan, padre dell’atomica pakistana. Questo primo impotente successo consentì a Milchan di accreditarsi ad intermediario per la vendita di armi a Tsahal, nonché di ottenere lucrose commissioni su conti stranieri che sarebbero state messe quasi subito a disposizione sia del Lekem che del Mossad.

Una volta indossate le vesti di stimato businessman, Milchan ebbe modo di stringere un’alleanza strategica con Richard Kelly Smyth, vicepresidente della società Rockwell (poi confluita nella Boeing), che pose le basi per la fondazione della Milco, una società con sede in California incaricata di acquistare tecnologie da inviare in Israele. La Milco divenne istantaneamente uno dei principali fornitori della Heli Trading, principale compagnia di copertura del Lekem. La penetrazione della Milco nei settori nevralgici dell’industria bellica Usa e nei grandi centri di ricerca militare disseminati in tutto l’Occidente consentì al Lekem di acquisire tecnologie fondamentali per il programma nucleare e missilistico israeliano, tra cui il progetto originale del missile Pershing-2, la cui testata sarebbe stata riprodotta e sviluppata per le versioni più avanzate del missile Jericho. Parallelamente, il Lekem ebbe modo di acquisire, tramite una società di copertura, una cospicua partita di ossido di uranio (conosciuto come yellowcake) presso la città portuale belga di Anversa, facendo risultare la vendita come una normale transazione tra Italia e Germania. Lo yellowcake fu stipato in contenitori recanti l’etichetta plumbat (un innocuo derivato del piombo) e imbarcato su una nave presa a noleggio da una società liberiana di facciata. Secondo alcuni documenti declassificati statunitensi e britannici, in quel periodo (prima metà degli anni ‘60) Israele avrebbe inoltre ottenuto un secondo carico di ossido di uranio  dall’Argentina, nonché istituito un fruttuoso rapporto di collaborazione con Nyman Levin, un brillante fisico ebreo che si era imposto come responsabile di altissimo livello del programma nucleare britannico e che godeva di solidi agganci presso la comunità scientifica che aveva lavorato al Progetto Manhattan. Stando alla dettagliata ricostruzione di «Haaretz», Levin avrebbe passato a Israele una ragguardevole mole di informazioni sensibili circa le tecnologie sviluppate dalla Gran Bretagna e dagli Usa in campo nucleare a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, riuscendo a eludere la sorveglianza degli investigatori dell’Mi5 preoccupati di evitare che si ripetesse un caso analogo a quello di Klaus Fuchs, il dotatissimo fisico teorico tedesco naturalizzato inglese arrestato nel 1950 per aver passato dati cruciali riguardanti il nucleare britannico e statunitense (Fuchs aveva preso parte al Progetto Manhattan) all’Unione Sovietica. Da alcune piste investigative sono inoltre emerse prove relative a un possibile coinvolgimento in attività spionistiche a favore di Israele di altre grandi personalità della comunità scientifica internazionale. Spicca in particolare il nome del fisico teorico ungherese naturalizzato statunitense Edward Teller, il principale artefice della bomba all’idrogeno portatore di una concezione politica iper-oltranzista (Stanley Kubrick si ispirò a lui per caratterizzare il celebre Dottor Stranamore) e favorevole allo Stato ebraico, nonché dotato di contatti diretti con l’influente scienziato israeliano Yuval Ne’eman – che in seguito avrebbe fondato il partito Tehiya. Grazie ai suoi ricorrenti viaggi a Tel Aviv, dove risiedeva la sorella, e ai suoi altolocati contatti negli ambienti scientifici e militari israeliani, Teller fu in grado di prevedere già verso la metà degli anni ‘60 che l’arsenale atomico israeliano era ormai un dato di fatto con cui gli Usa avrebbero dovuto fare i conti. Lo confidò al vicedirettore del Dipartimento di Scienza e Tecnologia Usa Carl Duckett, il quale dichiarò di averlo visto molto preoccupato per i passi da gigante compiuti dallo Stato ebraico in ambito nucleare. Osservazione che contrasta palesemente con quanto asserito dallo stesso Ne’eman, secondo cui Teller aveva fornito un contributo tanto entusiastico quanto sostanziale a convincere le autorità Israeliane a non aderire al Trattato di Non Proliferazione nucleare. Non a caso, il comportamento, tipico dei doppiogiochisti, tenuto da Teller in quelle fasi cruciali è ancora fonte di forti sospetti circa la sua lealtà agli Stati Uniti.

Negli Stati Uniti, intanto, l’assassinio di Kennedy aveva consacrato l’ascesa del suo vice Lyndon Johnson, senatore texano da sempre molto sensibile alla causa israeliana. Fu infatti il primo presidente ad inaugurare una sinagoga, dopo essersi adoperato negli anni ‘30, quando era congressista, per accogliere in Texas un cospicuo numero di ebrei in fuga dal “vecchio continente” aggirando la normativa che proibiva di accordare il permesso di soggiorno ai profughi europei negli Stati Uniti. Sotto l’amministrazione Johnson, gli Usa fornirono inoltre a Israele non solo 200 carri armati M-48, ma anche i vettori in grado di trasportare le testate atomiche che venivano fabbricate a Dimona, come i caccia Skyhawk e Phantom. Seymour Hersh, celebre giornalista investigativo, nota a questo proposito che «i forti legami emotivi tra Johnson e Israele, e la sua convinzione che le armi sovietiche stessero alterando l’equilibrio di potere nel Medio Oriente, lo indussero a diventare il primo presidente americano ad avere rifornito Israele di armi offensive ed il primo ad aver coinvolto pubblicamente l’America in sua difesa». Non stupisce quindi che, una volta messo al corrente dal direttore della Cia Richard Helms che Israele si era ormai dotato di armi nucleari ed aveva anche effettuato esercitazioni aeree per mettere a punto adeguate tecniche di sganciamento, Johnson comunicò a Golda Meir l’intenzione di mantenere questa scoperta segreta, anche per evitare che il Trattato di Non Proliferazione appena approvato dalle Nazioni Unite venisse rigettato dai Paesi arabi nemici dello Stato ebraico.

Questo salto di qualità nelle relazioni israelo-statunitensi nasce soprattutto dalla necessità degli Usa di controbilanciare la fornitura di armi sovietiche all’Egitto di Nasser, il quale, fiutata l’aria che tirava, cercò a sua volta di dotarsi di armi atomiche rivolgendosi a Mosca, che però rifiutò la proposta in conformità all’obiettivo di evitare di favorire una corsa agli armamenti nucleari in Medio Oriente. L’Egitto si rivolse allora a scienziati tedeschi che avevano lavorato al programma missilistico varato dai nazisti, riuscendo a reclutare Heinz Krug, che aveva svolto un ruolo di primo piano nella messa a punto dei micidiali missili V-1 e V-2. Secondo «Haaretz», Krug si mise alle dipendenze di Nasser dopo aver declinato l’offerta del suo ex eminente collega Werner Von Braun di lavorare per gli Stati Uniti, e riuscì a mettere insieme una squadra di tecnici (Wolfgang Pilz, Hans Kleinwachter, ecc.) con cui aveva lavorato in precedenza con il fine di realizzare un moderno programma missilistico per conto dell’Egitto. Venuto a conoscenza delle manovre di Nasser, il Mossad inviò al Cairo, con l’incarico di scoprire l’identità degli scienziati tedeschi, un commando formato da Yitzhak Shamir, Zvi Malkin e nientemeno che Otto Skorzeny, l’ex pupillo di Hitler che aveva svolto molte operazioni segrete dietro ordine esplicito del Führer. Passato alle dipendenze degli israeliani per vedere il proprio nome depennato dalla lista di Simon Wiesenthal ed evitare così di incorrere nello stesso destino toccato ad Adolf Eichmann, Skorzeny e la sua unità non solo rapirono e uccisero Krug, ma passarono anche al Mossad la lista completa di tutti i tecnici implicati nel programma nucleare egiziano, puntualmente eliminati da sicari israeliani nell’ambito dell’Operazione Damocles. Alcuni dei tecnici che lavoravano al progetto furono uccisi dallo stesso Skorzeny, attraverso un pacco bomba recapitato presso il sito militare noto come Factory-333. Il “patto con il Diavolo” aveva evidentemente dato i suoi frutti.

Una volta sabotato il programma egiziano, il primo ministro Golda Meir e il ministro della Difesa Moshe Dayan concordarono di schierare missili Jericho-1 e di tenere pronti al decollo i bombardieri strategici consegnati dagli Stati Uniti per colpire con non meno di 13 testate atomiche da 20 kilotoni l’Egitto e la Siria in caso di un eventuale peggioramento del complicato scenario bellico del 1973. La Guerra dello Yom Kippur favorì l’accelerazione del programma nucleare di Israele, che nel giro di pochi anni riuscì a mettere a punto una molto più rapida procedura di arricchimento dell’uranio e a sfornare testate miniaturizzate adattabili ai cannoni da 175 e 203 mm messi a disposizione dagli Usa.

Una svolta resa possibile dai legami strategici che Israele aveva intessuto nel corso degli anni precedenti con il Sud Africa, che nel 1969 aveva lanciato un proprio programma nucleare rifiutandosi al pari di Israele di sottoscrivere il Trattato di Non Proliferazione. Il processo di avvicinamento al regime di Pretoria, motivato dall’esigenza di rompere l’isolamento internazionale in cui Israele era piombato in seguito alla Guerra dello Yom Kippur, culminò nel 1976, quando il primo ministro laburista Yitzhak Rabin ricevette con tutti gli onori il premier sudafricano John Vorster passando con grande disinvoltura sul comprovato passato filo-nazista di quest’ultimo. La visita di Vorster, che aveva ricevuto un invito formale da Tel Aviv, spianò il terreno per una proficua collaborazione, in base alla quale gli scienziati israeliani fornivano assistenza tecnica ai loro colleghi sudafricani per la realizzazione di armi nucleari in cambio della consegna di qualcosa come 600 tonnellate di uranio allo Stato ebraico. La cooperazione sottobanco proseguì senza intoppi, portando Tel Aviv persino a riconoscere l’indipendenza del bantustan del Bophuthatswana e a permettere ai suoi rappresentanti di aprire una sorta di ambasciata a Tel Aviv.

Oltre all’appoggio israeliano, il regime sudafricano al poteva contare sul supporto degli Usa e – nonostante l’uscita di Pretoria dal Commonwealth decisa nel 1961 – della Gran Bretagna, i quali misero in piedi di una complessa triangolazione che consentì a Pretoria di aggirare l’embargo sulle forniture militari imposto dall’Onu nel 1977 e ricevere materiale e assistenza di tipo bellico da tecnici israeliani. Nel 1975 vennero così effettuati i primi test congiunti sotto la superficie del Deserto del Kalahari, seguiti da almeno un’altra sperimentazione che ebbe luogo il 22 novembre del 1979 al largo delle Isole del Principe Edoardo, dove un satellite statunitense di tipo Vela rilevò un lampo improvviso “di origine sconosciuta”. In realtà, le immagini satellitari mostravano un doppio flash tipico delle esplosioni nucleari, come rilevò fin da subito Leonard Weiss, matematico ed esperto di fisica atomica che all’epoca lavorava come consulente del Senato Usa. Sia l’amministrazione Carter che quelle successive guidate da Reagan si mobilitarono per impedire a Weiss di rendere pubbliche le sue conclusioni riguardo all’episodio, in quanto ciò «avrebbe creato un gravissimo problema di politica estera per gli Stati Uniti». Conseguenza diretta del proficuo lavoro svolto in maniera congiunta tra i tecnici israeliani e sudafricani fu il ragguardevole potenziamento dell’arsenale nucleare dello Stato ebraico e l’entrata di Pretoria nel club atomico, da cui il Sud Africa sarebbe uscito nel 1990, dopo la caduta del regime dell’apartheid, con lo smantellamento dei sei ordigni che costituivano l’arsenale atomico israeliano.

Nel 2010, il «Guardian» ha pubblicato, suscitando forti proteste israeliane, alcuni documenti declassificati dal governo di Nelson Mandela negli anni ’90 che dimostrano i frequenti incontri tenutisi tra i rappresentanti dei due Paesi per tutti gli anni ‘70. Dalla massa di materiale declassificato è saltato fuori, grazie al lavoro di archivio del ricercatore statunitense Sasha Polakow-Suransky, un documento di particolare interesse che fa riferimento a un vertice del 21 marzo 1975, nel corso del quale il comandante delle forze armate sudafricane Raymond Fullarton Armstrong aveva espresso un certo interesse per i missili Jericho-1. L’interessamento aveva posto le basi per un colloqui faccia a faccia, tenutosi il 4 giugno 1975, tra il ministro della Difesa israeliano Shimon Peres e il suo omologo sudafricano Pieter Willem Botha tenutosi il 4 giugno successivo, durante il quale venne elaborato il Progetto Chalet, che prevedeva la vendita al Sud Africa di alcuni Jericho-1 e delle relative testate di tipologia sia convenzionale, che chimica che nucleare. Il fallimento dell’affare a causa di divergenze sui costi non guastò tuttavia le relazioni bilaterali, che rimasero sufficientemente solida da portare i due ministri a firmare, nel medesimo periodo, un’intesa che sanciva un cospicuo allargamento della collaborazione militare. I rapporti con il Sud Africa hanno cominciato a deteriorarsi con il nuovo corso imposto dall’African National Congress (Anc), il partito di Mandela represso per decenni dal regime boero alleato di Israele, legato all’Olp e sostenitore della campagna di boicottaggio e sanzioni contro lo Stato ebraico.

Un altro duro colpo al “muro di gomma” eretto da Tel Aviv fu assestato nel 1986 dal tecnico israeliano Mordechai Vanunu, che dopo essere scappato dalla centrale di Dimona in cui lavorava rivelò al «Sunday Times» che Israele era ormai da tempo in possesso di un arsenale nucleare segreto, nonostante le autorità di Tel Aviv avessero ripetutamente smentito le voci che circolavano a questo riguardo. I redattori del giornale britannico, consapevoli di avere tra le mani uno scoop esplosivo destinato a suscitare l’ira di Tel Aviv, si erano cautelati consultando i più autorevoli esperti in materia prima di pubblicare la notizia. Avevano quindi chiesto a Frank Barnaby, un autorevole fisico britannico che aveva lavorato al programma nucleare di Londra, e a Theodore Taylor, altro esperto di altissimo profilo coinvolto direttamente nel Progetto Manhattan, di parlare con lo scienziato israeliano per verificare l’attendibilità tecnico-scientifica del resoconto di Vanunu. Dopo un lungo colloquio, i due scienziati scrissero un rapporto in cui si certificava la validità della versione fornita dal tecnico israeliano e il «Sunday Times» ritenne a quel punto di aver raccolto sufficienti conferme per pubblicare tutta la storia. Nel rapporto citato dal giornale britannico, Barnaby affermava che «la testimonianza di Vanunu è assolutamente convincente», mentre Taylor rilevava  che «il programma nucleare israeliano è molto più avanzato di quanto suggerito da qualsiasi rapporto precedente».

Il Mossad, che nel frattempo era venuto a conoscenza delle intenzioni dell’ex tecnico di Dimona, decise di anticipare l’uscita dell’articolo del «Sunday Times» organizzando ed eseguendo il sequestro di Vanunu a Roma, il 30 agosto del 1986. Vanunu fu quindi trasferito in un carcere israeliano dove rimase rinchiuso per i successivi 18 anni. Nel corso di un’intervista rilasciata alla giornalista svizzera Silvia Cattori, Vanunu ha dichiarato che: «da nove anni lavoravo al centro di ricerche in armamenti di Dimona, nella regione di Beer Sheva. Poco prima di lasciare quel lavoro, nel 1986, avevo scattato delle fotografie all’interno dell’impianto per mostrare al mondo che Israele nascondeva un segreto nucleare. Il mio lavoro a Dimona consisteva nel produrre elementi radioattivi utilizzabili per fabbricare bombe atomiche. Sapevo esattamente quali quantità di materia fissile venivano prodotte, quali materiali erano utilizzati e quali tipi di bombe venivano fabbricate […]. Le autorità israeliane mentivano. Ripetevano che i responsabili politici israeliani non avevano nessuna intenzione di dotarsi di armi nucleari. In realtà, producevano molte sostanze radioattive che potevano servire a un solo fine: fabbricare bombe nucleari. Si trattava di quantità importanti: ho calcolato che all’epoca – nel 1986! – avevano già 200 bombe atomiche. Avevano anche cominciato a produrre bombe all’idrogeno».

Quella di Vanunu non è una voce isolata. Secondo il docente israeliano di storia militare Martin Van Creveld, la potenza dell’arsenale nucleare israeliano sarebbe di molto superiore rispetto a quanto suggeriscano le analisi più accreditate. «Noi – ha rivelato Van Creveld in un’inquietante intervista all’«Observer» – possediamo centinaia di testate atomiche e razzi, e possiamo lanciarli su bersagli in ogni direzione, magari anche su Roma. La maggior parte delle capitali europee è tenuta sotto tiro dalle nostre forze armate. Come diceva il generale Moshe Dayan, Israele deve apparire come un cane rabbioso troppo pericoloso da provocare. Abbiamo la capacità di trascinare giù il mondo con noi. E a Tel Aviv possono assicurarvi che ciò accadrebbe di certo prima dell’eventuale caduta di Israele». Nel 2006, il segretario alla Difesa Usa Robert Gates rivelò l’esistenza dell’arsenale nucleare israeliano durante un intervento di fronte al Senato, avallando in tal modo le esternazioni di Van Creveld. Pochi giorni dopo, il primo ministro israeliano Ehud Olmert confermò indirettamente la notizia durante una trasmissione andata in onda su un canale televisivo tedesco; una gaffe clamorosa che avrebbe istigato i partiti israeliani di opposizione a chiedere le sue dimissioni immediate. Nel marzo 2015, il governo Usa ordinò la declassificazione di un documento top secret del Pentagono risalente al 1987 e composto da 386 pagine. All’interno del rapporto, reso di pubblico dominio previa autorizzazione delle autorità israeliane ormai consapevoli che quello che si ostinavano a proteggere era diventato il “segreto di Pulcinella”, si valutava che «i laboratori nucleari di Israele sono l’equivalente dei centri statunitensi di Los Alamos, Lawrence Livermore e Oak Ridge». È interessante notare inoltre come già allora gli specialisti Usa fossero al corrente del progresso compiuto in campo atomico dallo Stato ebraico negli anni ’70 e ’80, come si evince chiaramente dalla sezione del documento in cui si legge che gli scienziati israeliani erano in grado di «sviluppare la tecnologia necessaria a realizzare bombe all’idrogeno».

Intorno al 2000, l’autorevole rivista militare britannica «Jane’s Defense Weekly» è scesa ulteriormente nei dettagli, stimando che Israele avesse accumulato fino a quel momento circa 400 testate nucleari, trasportabili con tutta una serie di vettori estremamente funzionali. Il più rilevante di essi è il missile balistico a medio raggio Jericho-2, dotato di motore a propellente solido, capace di coprire quasi 3.000 km di gittata e lanciabile da veicoli in movimento oltre che da appositi silos. La punta di lancia è però rappresentata dal missile Shavit (sviluppato sulla base tecnica del Jericho-2), che pur essendo stato utilizzato da Tel Aviv per lanciare in orbita i satelliti Ofeq potrebbe essere impiegato per trasportare testate nucleari a una gittata compresa tra i 6000 e i 7000 km, il che ne fa un vettore strategico in grado di estendere la capacità offensiva di Israele a vaste zone di Europa e Africa, oltre che all’intera macroregione mediorientale. Il Popeye rappresenta invece una fase preliminare di missile aria-terra, installato sui caccia F-151 Ra’am e F-161 Sufa, in dotazione all’aeronautica israeliana, da cui è stato sviluppato il Popeye Turbo, missile da crociera a testata nucleare dotato di sistema di guida a infrarossi e capace di coprire una distanza compresa tra i 200 e i 350 km. Tale missile è stato inoltre adattato ai lanciasiluri da 650 mm di cui sono dotati i Dolphin, sottomarini lunghi quasi 58 metri con 1.900 tonnellate di dislocamento in immersione capaci di raggiungere i 20 nodi di velocità e di coprire un raggio d’azione di 4.500 km. Tali sommergibili sono prodotti «secondo le specifiche israeliane» dalla società tedesca Hdw, nel quadro accordi specifici con il governo di Berlino – in  base ai quali la Germania copre il 30% della spesa – difesi a spada tratta dal Cancelliere Angela Merkel, secondo la quale la Germania avrebbe degli «obblighi speciali nei confronti di Israele» imputabili al macigno della Shoah. Sono proprio i sottomarini Dolphin, massimo risultato del rapporto speciale instaurato tra Israele e Germania, a garantire a Tel Aviv la possibilità di presidiare costantemente la porzione (strategicamente cruciale) di Golfo Persico che lambisce le acque territoriali iraniane. Nel corso del 2023, sempre in base agli “obblighi speciali” menzionati dalla Merkel, le esportazioni di armi di fabbricazione tedesca verso Israele sono cresciute a 303 milioni di euro, a fronte dei 32 milioni registrati alla fine del 2022: un aumento di dieci volte. Secondo il Sipri, la Germania ha fornito a Israele, oltre ai Dolphin, corvette Sa’ar e più di 1.000 motori per carri armati Merkava-4 e veicoli corazzati Namer ed Eitan. «Secondo le nostre stime, alcuni di questi motori sono probabilmente pronti per essere utilizzati a Gaza, così come alcune delle unità navali fornite dalla Germania», ha dichiarato a «Euronews» Zain Hussain, ricercatore del Sipri, aggiungendo poi che «la Germania ha finanziato parte degli acquisti israeliani di sottomarini e corvette come forma di aiuto militare a Israele, per sostenere il Paese nella sua difesa e in una sorta di compensazione per i crimini nazisti». La prassi indicata da Hussain si è applicata anche in riferimento all’Arrow-3, un sistema anti-missilistico sviluppato da Boeing in collaborazione con Israel Aerospace Industries che la Germania si sta preparando a trasferire in Israele previa autorizzazione degli Stati Uniti e approvazione delle commissioni Bilancio e Difesa del Bundestag. Si tratta di un’operazione da circa 4 miliardi di euro, finanziata integralmente dalla Germania attraverso il fondo speciale di 100 miliardi approvato dal governo di Olaf Scholz in seguito allo scoppio del conflitto russo-ucraino. Il ministro della Difesa israeliano Joav Gallant ha parlato di una “decisione significativa” dagli effetti positivi anche per l’economia di Israele. L’Arrow-3, ha quindi spiegato Gallant, integrerà l’Iron Dome rafforzando in maniera decisiva le capacità militari di Israele, trattandosi di un «sistema innovativo, il più avanzato al mondo nel suo genere, un moltiplicatore di forze per le difese aeree israeliane». Naturalmente, anche l’Italia fornisce il suo contributo, conformemente al Memorandum di cooperazione militare Italia-Israele siglato nel 2005 e rinnovato automaticamente di anno in anno.

A ennesima riprova del fatto che la potenza militare israeliana è stata realizzata grazie soprattutto ai solidi e altolocati agganci internazionali che le classi dirigenti di Tel Aviv sono state in grado di costruire nel corso dei decenni, e che pongono attualmente Israele nelle condizioni di tenere «200 bombe atomiche pronte al lancio su Teheran», come confidato dall’ex segretario di Stato Colin Powell al suo partner d’affari e grande finanziatore del Partito Democratico Jeffrey Leeds in una e-mail scovata e pubblicata dal sito DcLeaks. Gli consentono di produrre plutonio in quantità sufficienti a sviluppare ogni anno dalle 10 alle 15 bombe di potenza analoga a quella sganciata dalle forze aeree statunitensi su Nagasaki. Gli permettono di fabbricare trizio, gas radioattivo utile per le armi nucleari di nuova generazione come le mini-nukes impiegabili negli scenari bellici più ristretti, come ad esempio Gaza. O come gli ordigni neutronici, adoperabili in conflitti alle porte di casa perché capaci, grazie all’emissione di neutroni veloci, di garantire un elevatissimo livello di letalità pur provocando un contenuto livello di contaminazione radioattiva.

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