Giacomo Gabellini - La crisi tedesca entra nel vivo

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Giacomo Gabellini - La crisi tedesca entra nel vivo


di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico

 

Destatis, l’ufficio di statistica tedesco, ha segnalato che le insolvenze aziendali sono aumentate su base annua del 24,9% nei primi sei mesi del 2024.  Nello specifico, 3,36 milioni di lavoratori a tempo pieno figurano nella categoria dei percettori di bassi salari, caratterizzati il cui stipendio orario lordo è inferiore ai due terzi del salario mediano. Nel 2023, la soglia dei bassi salari era fissata a 13,04 euro, appena al di sopra del salario minimo di 12,41 euro. Quasi un lavoratore su sette in Germania guadagna così poco che il suo stipendio non è sufficiente per vivere.

Altri dati, raccolti dalla «Frankfurter Rundschau», attestano le crescenti difficoltà in cui un numero sempre più alto di lavoratori tedeschi si sta imbattendo nel vivere dignitosamente con il proprio salario. Un problema riscontrabile in tutto il Paese, ma il cui impatto si rivela particolarmente pesante nei Länder orientali. Secondo il governo di Berlino, 3,36 milioni di lavoratori a tempo pieno rientrano nella categoria dei percettori di bassi salari, cioè persone il cui stipendio orario lordo è inferiore ai due terzi del salario mediano. Simultaneamente, l’amministratore delegato di Volkswagen Oliver Blume ha dichiarato alla «Bild» che «l’intera industria automobilistica europea si trova in una situazione molto impegnativa, mai vista prima, e il contesto economico si è ulteriormente aggravato, soprattutto per il marchio Volkswagen […]. In Europa vengono acquistate meno auto. Allo stesso tempo, stanno entrando nel mercato con forza nuovi concorrenti dall’Asia. La torta si è ristretta e abbiamo più ospiti a tavola […]. La situazione è così grave che non si può continuare come prima». Per Blume, «i costi di produzione sono troppo alti, mentre i profitti sono troppo bassi».

Di qui la necessità di attuare un programma di “revisione della spesa” atto a garantire un risparmio di circa cinque miliardi di euro, che secondo Blume non comporterebbe licenziamenti di massa in Germania. L’amministratore delegato di Volkswagen ha tuttavia sottolineato che, come sede di produzione, la Germania sta rimanendo tragicamente indietro in termini di competitività. L’annuncio ha comprensibilmente suscitato grande preoccupazione nei rappresentanti sindacali tedeschi, che detengono quasi la metà dei seggi nel consiglio di sorveglianza dell’azienda (l’organismo che nomina i dirigenti esecutivi). Ig Metall, uno dei sindacati più potenti della Germania, ha attribuito i problemi dell’azienda alla cattiva gestione dell’apparato dirigenziale, e promesso di lottare per proteggere i posti di lavoro. «Il consiglio d’amministrazione – ha tuonato Thorsten Groeger, capo negoziatore di Ig Metall – ha presentato un piano irresponsabile che scuote le fondamenta stesse della Volkswagen, minacciando un numero elevatissimo di posti di lavoro».

Le dichiarazioni di Blume evidenziano come pressioni economiche e geopolitiche stiano mettendo a dura prova l’apparato industriale tedesco, alle prese con la penuria di investimenti produttivi e l’aumento degli oneri  connesso alle politiche “green”. Nonché con l’incremento dei prezzi dell’energia, strettamente collegato, al pari della disarticolazione delle consolidate catene di approvvigionamento di materie prime e componenti critici, con le dinamiche innescate dal conflitto russo-ucraino e dalle sanzioni irrogate contro la Federazione Russa. Misure punitive che, di concerto con la speculazione, hanno fornito un apporto determinante a sospingere verso l’alto la quotazione delle materie prime, assottigliando i margini di profitto delle aziende manifatturiere e minando così la competitività dell’Europa rispetto ad altre aree del mondo. La concorrenza sempre più intensa esercitata dalle case automobilistiche cinesi specializzate nella fabbricazione di veicoli a trazione elettrica sta per di più erodendo, come lamentato da Blume, la quota di mercato dei produttori europei, i quali si vedono così obbligati a ridefinire radicalmente i propri piani strategici. In tale quadro, la delocalizzazione degli impianti produttivi viene inesorabilmente a configurarsi come una tentazione a cui gli apparati dirigenziali di Volkswagen, Bmw, Audi e di tutte le imprese operanti nei settori altamente energivori (Basf, Siemens, ecc.) potrebbero cedere, in un’ottica di abbattimento di costi e riorganizzazione generale atta a preservare la competitività su scala globale. Il relativo impatto sul mercato del lavoro tedesco si rivelerebbe pesantissimo perché interesserebbe l’intero indotto industriale e la miriade di settori correlati, con ovvie ricadute sui livelli di disoccupazione e – a ricasco – su una stabilità sociale interna già pesantemente sotto stress. Prova ne sono gli ottimi successi elettorali conseguiti da compagini radicali come Alternative für Deutschland e Bündnis Sahra Wagenknecht, affermatesi come solide forze politiche in Turingia e Sassonia.

Per la popolazione tedesca, lo stato dell’economia rappresenta uno dei principali motivi di preoccupazione, secondo solo all’immigrazione massiccia e incontrollata. Lo rivela la rivista «Politico», all’interno di un durissimo editoriale vergato dal suo corrispondente da Berlino in cui si legge che «la Germania sta finalmente emergendo dalla prima fase del dolore economico: la negazione. Dopo anni in cui hanno chiuso un occhio su ciò che il resto del mondo poteva vedere chiaramente, i tedeschi stanno lentamente venendo a patti con la realtà di essere in guai seri mentre i quattro cavalieri della loro apocalisse economica diventano visibili: un esodo della grande industria; un quadro demografico in rapido peggioramento; infrastrutture fatiscenti; e una carenza di innovazione. Mentre negli ultimi anni i tedeschi si sono preoccupati dell’immigrazione e della guerra in Ucraina, la loro economia è implosa silenziosamente. Il malessere economico sta alimentando i timori che il paese possa vedere un’ulteriore sterzata verso gli estremi politici. La coalizione del cancelliere Olaf Scholz, ostacolata da limiti costituzionali di spesa che rendono quasi impossibile per il governo intraprendere un ambizioso stimolo economico, è stata afflitta da lotte intestine e sembra aver esaurito le idee su cosa fare. Mentre le difficoltà dell’economia sono state nella mente dei tedeschi per un po’ di tempo, sono improvvisamente passate alla ribalta a seguito di un’ondata di notizie economiche cupe che hanno coinvolto impianti con sede in Germania per aziende blue-chip, tra cui Volkswagen e Intel. Alla richiesta di classificare i "problemi più importanti" del paese, i tedeschi hanno messo l’economia al secondo posto dopo l’immigrazione in un recente sondaggio della televisione pubblica».

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