Gianni Minà - Hebe de Bonafini, una madre senza compromessi

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di Gianni Minà*

Qualche giorno fa è scomparsa Hebe de Bonafini, una madre che ha trasformato la sua vita in pietra di inciampo per i collusi con la dittatura argentina. A fine anni ‘90 la intervistai per un programma televisivo che andava in onda nel cuore della notte, ma che mi lasciava molto tempo a disposizione per affrontare la complessità delle persone che hanno segnato un’epoca. Non fu un’intervista facile davanti a questa donna argentina con un carico di dolore immenso.

Le Madri di Plaza de Mayo davanti alla Casa Rosada sono una delle immagini più angosciose del secolo scorso per chi ha una vera coscienza democratica. Fu dal 30 aprile 1977, da quando una feroce dittatura sottrasse loro e mai più restituiti un figlio, un nipote, un fratello, che queste donne si riunivano ogni giovedì della settimana. Donne che volevano sapere che fine avevano fatto i loro cari e che questo atto più crudele di un assassinio dichiarato sia rimasto impunito anche con il ritorno della democrazia.

Con il ritorno e il fallimento di Peron e del suo regime, con l’uscita di scena di Isabel Peron prese il potere Videla il capo dell’Esercito che, insediandosi alla Casa Rosada, fece scattare, lo stesso giorno in una repressione selvaggia, una dittatura sanguinaria durata 7 anni. Le forze di repressione arrivavano, bloccavano il traffico, creavano una zona proibita, poi arrestavano o torturavano. I vicini tenevano la radio accesa per non sentire le urla. Si seppe ben presto che i desaparecidos erano più di 30mila, due generazioni di ragazzi. Spesso era sufficiente il numero di telefono trovato sull’agenda di un compagno di scuola per condannarli al nulla: “Non pianga signora, lo prendiamo per interrogarlo, poi glielo rendiamo” erano soliti dire.
I due figli di Hebe de Bonafini non gliel’hanno più resi:

“I miei figli sono in Africa, in America Latina, ovunque stiano lottando. Loro sono tutti miei figli. Non importa i loro nomi, tutti lottavano e volevano la stessa cosa. Io li ricordo sempre allegri, ricordo i loro canti, i sogni, le loro speranze, quelle risate, quel “ciao mamma” la mattina, quel “come stai”? Eravamo una famiglia molto allegra. Mio figlio Jorge lo presero a casa, all’una del pomeriggio. La scomparsa è una cosa orribile: non si trova da nessuna parte. Io ho sperato per molto tempo, sapevo che qualcuno era nei campi di concentramento. In Argentina ce n’erano più di 300. Lasciavamo sempre la casa aperta, ma poco a poco abbiamo preso coscienza che non sarebbe più ritornato nessuno perché la repressione era brutale e gli assassini non erano soli, erano appoggiati da parte della Chiesa, dai grandi imprenditori. L’abbiamo saputo poco a poco, non ce ne rendevamo conto, non capivamo, sbattevamo la testa al muro, non sapevamo cosa succedeva, ma poi lo abbiamo saputo con tanto dolore. Quando è sparito Raul, il mio secondo figlio, non avevo ancora perso la speranza, anche se due giorni dopo si presero pure le mogli e alcune madri, tre tra cui Azucena Villaflor, nel ’77, la fondatrice delle Madri di Plaza de Mayo. Lei, con alcune di noi, aveva firmato un esposto rivolto a Videla dove c’era un elenco di tutte le persone scomparse. Un giornale di destra lo pubblicò, ovviamente a pagamento e quando Azucena andò a comprare il giornale, la sequestrarono e non la vedemmo più. Volevano distruggere il Movimento. Abbiamo discusso molto se continuare a uscire nelle piazze o restare a casa, ma dato che continuavano a sequestrare i nostri figli, era difficile stare con le mani in mano. Il movimento è nato quando scomparve il primo figlio, ma il 30 aprile del ‘77 con quell’esposto, nacque l’attività politica del Movimento stesso”.

Italo Moretti e Arrigo Levi furono i giornalisti di punta della Rai che avevano realizzato dossier su quanto avveniva in Argentina: raccontavano di giovani donne incinte fatte partorire in ospedale e case di cura e subito dopo riportate nelle tanti prigioni clandestine che Esercito, Marina, Aviazione e Esercito federale avevano allestito negli anni della repressione. Si sa che molti bambini furono dati in adozione a molte famiglie di militari in una sorta di meccanismo perverso. Arrigo Levi, per capire la loro logica, intervistò nel ’90 il generale Domingo Bussi che spiegò: “Noi affrontammo la guerra, l’aggressione marxista su due fronti contemporaneamente: quello militare e quello politico. Miravamo cioè alle cause della sovversione, così abbiamo fatto nella regione di Tucuman che era stata scelta dai delinquenti marxisti leninisti come epicentro della loro azione e abbiamo vinto. Del resto abbiamo usato gli stessi metodi che personalmente ho visto applicati in Vietnam. Bisogna capire una cosa: il successo in una guerra va a chi compie maggiori violenze, chi fa più morti ha più possibilità di vincere. Parlare di eccessi non ha perciò senso, noi d’altronde siamo incapaci, anche per la nostra formazione cristiana, di superare certi limiti morali”. E il governo Menem all’epoca scelse proprio Bussi come governatore della provincia di Tucuman ed è per questo che Hebe de Bonafini si è sempre considerata dura e implacabile contro di loro e contro chi si è voltato dall’altra parte ho ha accettato compromessi.

Guadagnarono l’attenzione della stampa mondiale quando decisero di andare a parlare con un funzionario americano e quel giorno occuparono la piazza. I militari volevano convincerle a non andare, non volevano che l’Argentina facesse una brutta figura, e invece, in venti, si aggrapparono a un palo della luce e rimasero lì, accerchiate dagli uomini in divisa. Uno urlò: “puntate!” e le Madri gridarono insieme: “fuoco!”.

In quell’urlo di disperazione i media si resero finalmente conto che cosa era la repressione in Argentina. La stampa cominciò così a proteggere le loro vite.
Il loro primo copricapo è stato un pannolino, poi un vero e proprio fazzoletto bianco con il nome dei propri figli, fino ad arrivare alla scritta “Aparicion con vida”. Erano diventate, con quella scritta, le madri di tutti, non solo dei loro figli. Molte di loro si sono ammalate, altre hanno trasformato il dolore in lotta: “E’ difficile ma non impossibile. Questo ci ha fatto sentire più forti e più unite e siamo madri radicalizzate perché riconosciamo i nostri figli come rivoluzionari. Con il tempo li abbiamo capiti meglio, più profondamente, sapevamo cosa volevano, perché lottavano, perché amavano il loro prossimo. Le mamme che sono rimaste nell’associazione sono quelle che hanno capito cosa i nostri figli volevano insegnarci. Noi veniamo da famiglie comuni, ma a volte molto egoiste, individualiste. Mio figlio mi diceva: “No mamma, bisogna condividere tutto quello che abbiamo, bisogna dare il meglio che abbiamo, il migliore letto, il mio cibo, il miglior vestito”. Quando uno impara ad ascoltare i propri figli, soprattutto dopo queste atrocità, mi dico no, non posso essere egoista, non posso lottare solo per mio figlio, non posso andare per strada solo in suo nome, mio figlio deve essere tutti. Ogni figlio rappresenta gli altri, i bambini di strada e quelli morti di fame o per malattia, i disoccupati, i diseredati e questo per una madre ha un valore enorme e riuscirci è molto importante”.

Più di mille giovedì alle 15,30, con il sole più spietato o le piogge più fredde, le madri sono andate in piazza affrontando il carcere, i pestaggi dei militari e il cinismo dei loro complici. Qualcuno ha detto: “Tempo di carnefici come Suárez Mason, Astiz, Masera, Videla, tempo di prigionieri lanciati vivi nei mari o bruciati nei pozzi profondi, tempo di intellettuali ipocriti che serbarono il silenzio finché non arrivò il tempo della democrazia, di medici che assistevano alla tortura e di sacerdoti che chiedevano collaborazione ai prigionieri”. Era come se l’Argentina, in quel periodo, era entrata in un girone dell’inferno: “ Ma i nostri figli hanno sofferto di più, la cosa più tragica l’hanno subìta loro, perché speravano di trasformare l’oppressione e il dolore di un popolo in un mondo solidale e più giusto. Questo era quello che volevano e noi abbiamo innalzato le loro bandiere. E quando abbiamo un’idea chiara come la nostra, non importa il tempo o in quale mondo staremo, però l’assassino deve essere chiamato assassino e il complice, complice. Le denunce che abbiamo sempre fatto sono contro la politica sindacale, le imprese, i politici che furono complici, contro i militari che si prepararono in America Latina per reprime opprimere e annientare l’oppositore politico, essi stessi servi del sistema capitalista che non perdona il popolo che resiste, si ribella, che non vuole più essere povero e emarginato.
Ci sono molti figli dei nostri figli scomparsi che si sono riuniti in un’organizzazione per lottare, Hijos (por la Identidad y la Justicia contra el Olvido y el Silencio) nata nel 1995, e che, come noi mamme, stanno cercando di rivendicare i loro genitori e si sono inventati, come metodo di lotta, lo “sputtanamento”, l’hescrache. Organizzano manifestazioni che si fermano proprio davanti alle porte degli assassini rimasti impuniti, lì davanti vengono lette le accuse ad essi rivolte, oppure vengono diffuse in tutto il quartiere tramite l’affissione di manifesti. Lo scopo è quello non solo di sopperire alle mancanze della giustizia, ma anche quello di avvertire i vicini che un uomo del ex regime vive tra loro e quindi che si senta in una prigione grande quanto tutta l’Argentina, una prigione fatta del disprezzo e della condanna di tutta la società (1).

Oggi siamo felici che i nipoti stiano bene, e siamo tristi quando vediamo che alcuni figli vogliono stare nelle famiglie adottive, ma le Mamme, noi, abbiamo una posizione diversa rispetto alle Nonne, che lavorano con il governo di Menem. Noi pensiamo che i figli, una volta cresciuti come esseri umani, hanno diritto di scegliere, anche se sarà doloroso per noi. Il fatto è che sono stati molto esposti, tirati di qua e di là. Sono feriti, quasi nudi e si sono ribellati a una disgrazia nella disgrazia più grande di loro. Bisogna dare loro tempo per scegliere e sono convinta che se si dà loro del tempo, faranno la scelta giusta.”
Hanno detto di lei che era una donna esagerata, maleducata, che ha usato parole di disprezzo contro la Chiesa e il Papa di allora, Giovanni Paolo II: “Inizialmente decidemmo di riunirci in chiesa e pregare, ma ci spegnevano le luci e ci cacciavano. Alcuni preti non ci volevano. Non avevano paura, no, erano complici, perché quando i militari ci correvano dietro, tentavamo di rifugiarci nella cattedrale, ma il vescovo di allora faceva chiamare la polizia perché ci cacciasse via. Da quel luogo ci hanno portate via e arrestate molte volte. Se noi chiedevamo una messa per i defunti la dicevano, ma per i desaparecidos non hanno mai accettato di dirla, perché se la Chiesa avesse detto messa per i nostri figli scomparsi avrebbe riconosciuto quello che ha sempre negato. Quando andavamo per aiuto e per un po’ di pietà, i preti ci “rassicuravano” con le stesse parole offensive dei militari e cioè che i nostri figli erano andati a spasso con le donne o scappati da casa. Pio Laghi era il nunzio apostolico di allora, il delegato del papa e sapeva tutto. Molti hanno tentato di giustificare parte del clero, c’è chi ha detto che è stato ordinato loro di comportarsi in questa maniera, in realtà, sapevano benissimo cosa succedeva e hanno permesso che tutto avesse luogo”.

Hebe de Bonafini, la Madre di Plaza de Mayo, la pazza, come la chiamavano in troppi, la dura e l’implacabile come si è autodefinita, ma in realtà è stata una donna carica di sdegno e decisa a non accettare nessun compromesso per i troppi scomparsi che lei, nella sua vita, ha voluto ricordare e difendere dall’oblio e dalla ingiustizia per l’indulto, e l’impunità di cui hanno goduto in troppi: “I diritti umani si violano non solo quando si viene torturati, ma quando si perde il lavoro, quando si perde la casa, quando si vive emarginato, quando non c’è istruzione, quando aumenta l’analfabetismo, la povertà. Angela Boitano, che ha pure testimoniato al processo di Roma contro militari responsabili di sequestri, torture e uccisioni di cittadini italiani, si è allontanata dal movimento perché ha accettato il risarcimento economico del governo Menem. Noi abbiamo sempre la stessa linea: “aparicion con vida”, non abbiamo cambiato, non possiamo negoziare la vita, non possiamo contrattare il sangue con un governo che parla di impunità e di perdono e poi paga 100mila dollari per ogni desaparecido. Noi abbiamo detto no. Speriamo sempre che gli assassini possano essere condannati, senza però fare la lotta per l’indennizzo in denaro. A me pare profondamente giusto condannare gli assassini, la giustizia è un messaggio molto forte per un popolo, ma è triste che le stesse persone che chiedono giustizia poi chiedano un indennizzo economico. Noi Madri ci siamo separate come Movimento su questo tema: chi pensa che la vita di qualcuno vale denaro, chi invece pensa che invece vale vita perché loro l’hanno data per un popolo.”

Il 1985 in Argentina è stato l’anno dei processi che si fecero secondo il codice di giustizia militare nei tribunali civili senza l’assassino sul banco degli imputati. La legge “Punto final” sancì la prescrizione di ogni azione penale per i reati commessi dai membri del regime, mentre la legge di “Obediencia debida” scagionò tutti i militari che avevano commesso delitti durante la dittatura per il fatto che stavano ubbidendo a ordini ai quali non potevano opporsi. Hebe de Bonafini, sdegnata, in quel processo le fu richiesto di levarsi il suo fazzoletto dalla testa, e lei, prima di ritirarsi dal processo sdegnata, disse: “Perché non fate levare il cappello ai militari? Questo fazzoletto bianco sarà l’unica condanna in questo processo”.

Hebe de Bonafini non si è mai data pace, c’era in lei uno sdegno profondo che non si era mai sopito: “Ho molti momenti di serenità, quando sono con i miei figli che amo molto, quando sono con mia madre; a volte ci incontriamo con altre madri a casa, chiacchieriamo ma, per quando riguarda la politica e l’ingiustizia permanente e costante di questo mondo allora mi ribello. Non la tollero, non la sopporto. Non ho nessun rimedio se non diventare dura e implacabile, come dicono in tanti, però ci sono momenti di pace. Momenti molto teneri. I più bei momenti della mia vita, i più dolci, i più grandi li vivo con i miei figli adesso e li ho vissuti con i miei figli prima. E questo che mi dà la forza e mi dà l’amore verso gli altri. Quando si amano molto gli altri che soffrono bisogna essere implacabili e duri, non si può accettare nessun compromesso. Altrimenti tutto diventa mediocre”.

fonti citate:
1) Mariana E. Califano, “Escrache, resistenza non violenta nell'Argentina del dopo terrorismo di Stato”, Storicamente 1 (2005) , nr. articolo 65.
http://dx.doi.org/10.1473/stor294

*Tratto dalla pagina Facebook  di Gianni Minà

 
 

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