Gli USA restano in Iraq come consiglieri
L’incontro tra il premier iracheno Mustafa al-Kadhimi e Biden alla Casa Bianca, avvenuto giovedì, dovrebbe portare a un cambiamento nella presenza militare americana in Iraq, secondo Politico.
La missione delle forze Usa, in Iraq dal 2003, ha ad oggi un mandato anti-terrorismo, per combattere l’Isis, cosa che hanno pure fatto quando hanno attaccato e coventrizzato Mosul, anche se tante restano le ambiguità del caso.
Il voto del Parlamento iracheno
Ma dopo il voto unanime del Parlamento iracheno, che chiedeva il ritiro delle forze Usa, i militari americani hanno ufficialmente indossato la veste di forza d’occupazione, data la noncuranza con cui è stata accolta la risoluzione, pure decisa in ambito parlamentare, cioè secondo dinamiche proprie di quella democrazia che essi avevano detto di voler instaurare nel Paese al posto del regime pregresso.
Un voto espresso nel gennaio 2020, all’indomani della strage perpetrata dagli Stati Uniti all’aeroporto di Baghdad, che era costata la vita al generale iraniano Qassem Soleimani, capo dei Guardiani della rivoluzione e di Abu Mahdi al-Muhandis, capo delle forze di mobilitazione popolare irachene, e degli otto uomini di scorta.
Un eccidio in violazione delle norme internazionali, non solo per le modalità, caratterizzandosi come una missione di guerra in un Paese terzo senza previa autorizzazione, ma anche per gli obiettivi, dato che il generale era ospite delle autorità irachene e le forze di mobilitazione popolare sono un’articolazione dell’esercito di Baghdad (1).
Dopo il voto sono iniziate incessanti le pressioni sul governo iracheno perché dia seguito alla risoluzione e si sono registrati una serie di attacchi delle forze di mobilitazione popolare contro la missione americana.
La trattativa
Una situazione insostenibile per al-Kadhimi, ma anche per l’amministrazione Usa, che non vuole un’altra guerra irachena, ma che, allo stesso tempo, non può resistere alle pressioni interne le quali, a ogni attacco contro i militari Usa, si alzano a chiedere una risposta durissima.
Inoltre l’America non può permettersi di proporsi come faro della democrazia globale e, allo stesso tempo, conservare una presenza militare tanto palesemente illegittima in Iraq, frutto avvelenato dell’intervento del 2003.
Probabile che si sia svolta una trattativa segreta tra l’amministrazione Biden e Baghdad per uscire dall’impasse, accompagnata dal tacito consenso delle milizie di mobilitazione popolare che, pur continuando nei loro attacchi, del tutto dimostrativi, hanno però chiarito più volte che obiettivo degli stessi non erano le sedi diplomatiche, ma solo le forza occupanti (al Manar). Non quindi, un attacco all’America, ma ai militari stanziati in loco.
Una trattativa che probabilmente sta correndo in parallelo con quella sul nucleare iraniano, dato che l’occupazione dell’Iraq è avversata da Teheran, e che, almeno a stare a Politico, potrebbe aver portato a un primo compromesso.
Compromesso solo di facciata, sembra, dato che gli Usa non ritirerebbero le truppe. Cambierebbe, infatti, solo la loro missione: non più forza di combattimento sul campo in funzione anti-terrorismo, ma a supporto dell’esercito iracheno, al quale le forze americane fornirebbero “consigli”, logistica e appoggio aereo.
L’attentato a Baghdad
Insomma, non cambia nulla, si potrebbe dire con certa verosimiglianza. L’occupazione si perpetuerebbe in forma più “democratica”, con un’operazione di pulizia della pregressa brutalità.
Vero, ma anche no, come dimostra l’attentato di lunedì scorso a un mercato di Baghdad, che ha causato 30 morti e 80 feriti. Una strage rivendicata dall’Isis (nel silenzio dei media internazionali…), proprio alla vigilia del vertice tra al-Kadhimi e Biden, che nelle intenzioni dei suoi ideatori avrebbe dovuto dissuadere il presidente americano a cambiare volto alla missione.
Perché all’Isis serve che gli Usa restino sul campo, ché le loro guerre infinite gli hanno generato migliaia di militanti e l’instabilità che esse producono a ritmo continuo gli offre sempre nuove opportunità.
Convergenze parallele tra Terrore e ambiti consegnati all’anti-Terrore, che vede questi ultimi restare abbarbicati alle loro guerre senza fine e pronti a sabotare ogni iniziativa che va nella direzione di una loro chiusura. Ambiti che avranno usato anche dell’attentato per cercare di convincere Biden a non mutare la natura della missione irachena.
Non sappiamo se siano riusciti a far svaporare tale prospettiva, che a stare a Politico doveva essere annunciata subito dopo il vertice tra al-Kadhimi e Biden, o solo a rimandarla, dato che non ci sono informazioni in proposito.
Come detto, la modifica non cambierebbe granché nell’immediato, anche se avrebbe un effetto propagandistico enorme per la Casa Bianca, scopo non secondario dell’iniziativa, dato che essa potrebbe dichiarare di aver chiuso un’altra pagina delle guerre infinite e risolto la controversia col Parlamento iracheno.
Cambiamento minimo, ma anche no
E, però, nonostante l’insignificanza reale di tale mutamento, rappresenterebbe un primo allentamento della presa di Washington sul Paese e potrebbe dar vita a un primo ritiro di truppe.
Ma soprattutto andrebbe a moderare l’attivismo dei soldati Usa sul territorio, la cui sicurezza sarebbe demandata all’esercito legittimo, con i generali Usa costretti a guardarsi da possibili conseguenze per eventuali violazioni del mandato.
Insomma, non sarebbe una pagina da scrivere sul libro dei sogni, ma un piccolo, seppur minimo, passo, nella direzione giusta. D’altronde è facile iniziare una guerra, difficile uscirne, come ben sanno i bellicosi neocon, che hanno intrappolato il mondo nelle loro guerre infinite.
(1) Sulla totale illegittimità e immoralità dell’omicidio del generale Soleimani resta storico, e commovente, l’intervento di Benjamin B. Ferencz, che fu giudice a Norimberga contro i nazisti (New York Times).