Guerra “igiene” del capitale. Il conflitto in Ucraina nell’attuale fase imperialista

Guerra “igiene” del capitale. Il conflitto in Ucraina nell’attuale fase imperialista

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di Carla Filosa – Enzo Gamba – Francesco Schettino

 

Nazione, classe, democrazia

La necessità di affrontare il fattore guerra, non solo nei suoi passaggi cronologici, ma soprattutto nel suo significato di fase imperialistica mondiale, non può disattendere una riflessione ulteriore almeno sui concetti di nazione, classe e democrazia, il cui senso risulta prevalentemente confuso o proprio ormai sconosciuto.

Nell’accezione moderna di nazione (F. Chabod, 1943-44)[1] si affermava un principio romantico di unità dell’individualità storica, dalle caratteristiche di tradizione e di pensiero non solo etniche e linguistiche, di un particolare quindi, di contro a tendenze livellatrici, cosmopolitiche, universalizzanti, quali quelle ereditate dall’Illuminismo, mentre la direzione specificamente politica era lasciata allo stato. Pertanto, non solo elementi naturalistici (clima-terreno), ma tendenze politiche e religiose nei costumi e usanze, anima, spirito, libertà che nulla avevano a che fare con il successivo sviluppo nazionalistico connotato dal razzismo, come comunità di sangue, del suolo, congiuntamente a una preminenza aggressiva in antitesi all’unitaria idea di Europa. A tale concezione liberale, che non facciamo fatica a riconoscere oggi quale involontaria base della destra nostrale e non solo, si contrapponeva un’altra visione nazionale, sorta sempre in Europa, non già idilliaca ma interna alla consapevolezza della conflittualità della realtà materiale e storica.

Che la “fratellanza delle nazioni” di cui scriveva Engels nel 1845[2] si sia dispersa - proprio ad opera dell’ipocrita “cosmopolitismo egoistico-privato della libertà di commercio” allora così definito - sembra oggi un’ovvietà o addirittura una condizione mai esistita. Quella prospettiva di “fratellanza”, successiva alla Rivoluzione francese e predisposta dal progressivo avanzare del socialismo europeo ottocentesco, aveva lasciato intravedere, allora, che: “la democrazia, al giorno d’oggi, è il comunismo”.  

La democrazia quindi come principio proletario, delle masse, quale collante egualitario delle nazioni divise in classi, nella prospettiva della realizzazione del comunismo. “Le masse possono avere una coscienza più o meno chiara di questo significato della democrazia, ma tutti hanno almeno l’oscuro sentimento dell’eguaglianza dei diritti sociali nella democrazia. Le masse democratiche possono essere tranquillamente incluse nel novero delle forze che combattono per il comunismo. E se i partiti proletari di diverse nazioni si uniscono, hanno tutto il diritto di scrivere sulle loro bandiere la parola “democrazia” perché nel 1846 tutti i democratici europei, ad eccezione di quelli che non contano, sono più o meno chiaramente comunisti.”[3]

A soli 176 anni di distanza, nel 2022, sembra siano passati miliardi di anni luce da quel concetto di comunismo inscindibilmente legato a quello di democrazia, in cui l’eguaglianza politica di classe era tutt’uno con l’eguaglianza sociale ed economica. Il proletariato inoltre – sempre dalle parole di Engels - esprimeva una cultura priva di divisivi pregiudizi nazionali e con obiettivi umanitari, capaci di fraternizzare con le varie nazioni. In quella fase del capitale, il proletariato provava a considerarsi erede così della Rivoluzione francese del 1789, che aveva posto le basi per la distruzione dell’ineguaglianza, cui Wilhelm Weitling aggiungeva anche: “per la distruzione della tirannide”. Questa, infatti era correttamente individuata nel potere del denaro (egualmente operante in regime autoritario o democratico, diremmo noi oggi!), i cui possessori erano considerati nemici dei lavoratori in tutti i paesi e nemici del genere umano. I poveri, prodotti dal processo di immiserimento parallelo a quello dell’arricchimento, quindi, ridotti a “strumenti costretti e inconsapevoli”, erano residui oggetti di manipolazione ideologica il cui maggior numero era stato già definito quale indice della prosperità o “Ricchezza delle Nazioni”.

 Quale memoria rimane oggi di tale realtà storica?

Nessuna memoria del concetto di comunismo, considerato definitivamente sepolto nell’abisso che ha inghiottito l’URSS, dunque nella potenzialità rivoluzionaria storica sempre aperta, ma ora saldamente (?) controllata dal digitale o dall’Intelligenza Artificiale.

Non ci si è dimenticati però dell’eguaglianza, ironicamente riservata ai lavoratori atomizzati per il solo loro sfruttamento come massa divenuta ormai mondiale, asservita e sempre più ricattata nell’ulteriore impoverimento preordinato.

Non è stato nemmeno rimosso il concetto di classe, solo quella che conta però, ovviamente padrona e sicura nel sostenere che, come affermato poco tempo fa dal ricchissimo Warren Buffet, la guerra di classe non solo esiste, ma la sta vincendo la classe dei ricchi. Le classi sono modo di esistenza delle forze produttive nel loro sviluppo[4]. Gli esseri umani, cioè, lavorano su una base tecnica relativa a un determinato stadio del modo di produzione, in un processo le cui leggi interne regolative sono peculiari. La specificità del modo di produzione capitalistico è la produzione di valore, una prima forma di movimento i cui fenomeni sono i salari, i profitti, l’interesse, ecc. L’eguagliamento poi tra la “circolazione delle merci” prodotte e il denaro – sulla falsariga dell’analisi marxiana – è la prima determinazione concettuale del valore che: eguaglia i lavori, scarta l’inutile o il non comprato, riduce permanentemente la quantità di lavoro a “lavoro necessario”, è alla base della formazione dei prezzi, ecc.

Rimasto infine saldo il termine democrazia, ovviamente deviandolo a partire dalla stessa base etimologica per il suo uso ideologico al servizio del potere istituzionale, delegato a riprodurre accumulazione, monopolio dei mercati, gestione finanziaria delle risorse energetiche e delle zone di guerra, ove acquisire profitti e/o distruggere capitali altrui. La democrazia così capovolta e denaturata permette la gestione oligarchica di capitali transnazionali, liberi di competere tra loro o farsi continue guerre anche per procura, nell’indifferenza di masse travolte nell’impotenza della sottomissione alla mancanza di lavoro o alla sua inadeguata remunerazione precarizzata. Quella democrazia agognata nell’800 come comunismo avrebbe significato partecipazione, autogoverno, discussione razionale dei problemi comuni, nel presupposto dell’eguale accesso allo sviluppo individuale entro e mediante la vita associata. Il permanere di questo termine nella successiva fase imperialista ha spaccato e confuso invece la consapevolezza comune: nella realtà capovolta del proprio presente a negazione culturale dei suddetti obiettivi, è rimasta un’eco concettuale indelebile di questi, che induce a non dare corpo all’evidenza dell’arbitrio padronale internazionale che sottrae la ricchezza prodotta, proprio attraverso l’uso privatizzato delle nazioni mondiali. Non la democrazia è in crisi, come da molte parti si ritiene, ma solo il suo maquillage storico che ne ha fatto un valido schermo per affari impresentabili alla vista di un consenso sociale da conseguire con ogni mezzo: inganni, raggiri, promesse, illusioni, circenses, algoritmi, ecc.

 Il necessario consenso al mantenimento di questa gerarchia sociale dev’essere però continuamente riconquistato, e questo deve inevitabilmente colpire non più la sola classe lavoratrice tradizionalmente intesa, ma tutto il processo di incessante proletarizzazione mondiale, con l’attacco alla percezione di sé, allo sviluppo delle facoltà, sensibilità, emotività, ecc. nel conseguimento di un’auspicata paralisi e atrofia delle capacità umane primarie. In questa realtà di preminente distruttività planetaria, data l’evidenziata razzia delle risorse naturali e umane, entrambe oggetto di predazione illimitata, sempre più indispensabile diviene allora la lotta di classe anche culturale, in cui il concetto di classe non può più restringersi al suo uso comune di intuizione o rappresentazione ricco/povero, alto/basso, ecc., ma deve esprimere un universale in quanto “classe sociale”.

Il denaro divenuto pertanto “signore”, equivalente generale di ogni merce, in grado di dominare nel mercato mondiale come vediamo da oltre un secolo nella sua dimensione imperialistica di esportazione di merci e capitali, poggia però sulla condizione di mercificazione costante e rinnovabile del lavoro vivo, che solo nell’attività entro il processo di capitale in cui è integrato diviene capacità produttiva e base per l’accumulazione di capitale. E tale capacità, solo se attuata, viene scambiata con un salario, con una figura di parvenza, nel senso che costituisce solo una quota di lavoro erogato, un “acconto” – con le parole di Engels – rispetto a tutto ciò che è stato sottratto al corpo collettivo o sociale. L’accumulazione è quindi possibile solo all’interno di questo scambio asimmetrico, progressivamente diseguale, incrementato dalla crisi di capitale tuttora irresolubile dalla seconda metà degli anni ’60 dello scorso secolo. Se poi l’accumulazione mondiale complessiva dovesse mostrarsi stabilmente in una fase decrescente, potenzialmente trascinerebbe con sé anche l’evoluzione tendenziale della base del conflitto.

Il conflitto “democratico” nei confronti del lavoro è stato invece reso quasi invisibile dalle controparti sempre sfuggenti e al riparo dietro o dentro le istituzioni cosiddette democratiche, sempre sul punto di cedere anche nella facciata a forme autoritarie in continuo corso di sperimentazione. Ciò che emerge sono solo i danni sociali, ma non per tutti: la dislocazione lavorativa, il licenziamento, la cassa integrazione, l’aumento delle tasse, i tagli ai servizi pubblici, gli ostacoli all’immigrazione, l’inflazione, ecc., contro cui si riesce a contrapporre una risposta sempre parziale e indebolita da una contrattazione di fatto carente di reale rappresentanza politico-sindacale.


Le democrazie del dollaro e le inevitabili conflittualità

Il tentativo di ricondurre l’attuale conflitto all’interno di una inesistente dimensione di scontro tra nazioni o tra capi di stato (spesso riconosciuti come “pazzi” o comunque responsabili nella loro dimensione esclusivamente soggettiva), attribuendo persino in maniera esclusiva alla loro prematura dipartita un’eventuale conclusione dello stesso (Meloni, 14/12/2022), è stato evidente sin dalle prime operazioni militari. La cortina di fumo, innalzata per obnubilare uno scontro che invece è ormai evidentemente planetario e che affonda le radici nel passato, si sta progressivamente rarefacendo.

Del resto, gli interventi esterni sul territorio ucraino erano “invadenti” già poco meno di dieci anni fa. Nel 2014 la politica estera europea si era inequivocabilmente schierata a fianco del rovesciamento del governo ucraino eletto di Janukovy?, chiamata “politica di vicinato” o nei corridoi brussellesi “spillover”, alla stregua di un anticipato malaugurio, che solo ora abbiamo sperimentato attraverso il coronavirus.

I finanziamenti da parte del Fmi, Bei, Ue, immediatamente prestati all’attore-presidente insediato al suo posto dagli interessi Nato per svendere le risorse nazionali (si veda anche il ruolo della famiglia Biden)[5] e foraggiare forniture militari necessarie a prospettive belliche, hanno predisposto l’uso dell’Ucraina come teatro di un conflitto in cui la popolazione, con i suoi morti e sofferenze, sarebbe diventata un ulteriore “danno collaterale” rispetto agli interessi in campo in termini di vendita di armi e tecnologie, e di indebolimento dell’imperialismo russo ancora grande alleato della Cina, entrambi creditori del debito nazionale Usa. 

La guerra in Ucraina non è di certo iniziata il 24 febbraio scorso, bensì già ai primi del 2000, preordinata entro il carattere estorsivo della politica Usa sempre intenta a realizzare “guerre preventive”, che avrebbero impedito l’emancipazione dal prelievo parassitario, garantito dagli scambi internazionali incentrati sul predominio del dollaro[6]. Il concetto liberale di nazione, tuttora credibile, svanisce infine definitivamente dietro la preminenza del diktat valutario, schermo del potere armato a sua difesa, e soprattutto a minaccia reale e operativa di accompagno alle transazioni aggressive del dispotismo imperialista.

È innegabile che la configurazione storica degli attuali blocchi imperialistici, antiteticamente determinatisi anche sulla gestione creditoria o debitoria con l’estero, stenti a trovare un accordo anche sul rinvio egemonico dal piano armato a quello diplomatico. Apparentemente la guerra in Ucraina, senza contare tutte le altre guerre più distanti dall’Europa, è più chiaramente il perno del conflitto egemonico Usa/Russia/Cina, con tutte le inerenti prospettive di estensione conflittuale dalle conseguenze per ora inimmaginabili. È la regolazione di rapporti di forza tra capitali incentrati su stati e alleanze di stati, la cui stabilità di politica estera non è mai scontata. Ciò che sembra non contare in questo sforzo tra titani è la trasformazione continua del modo di esistenza delle forze produttive, ovvero come le classi-base risentano del moto di capitale proprio nel suo specifico processo di produzione.  

In altri termini, la polarizzazione sociale che ne consegue mette in primo piano la modalità con cui le classi dominanti, pur nelle loro non indifferenti varietà di posizioni, producono e riproducono sé stesse, mentre le classi subalterne appaiono disperse e incapaci di rimuovere le loro condizioni di esistenza in una sorta di paralisi inerziale senza prospettive. Tale preminente visibilità non legittima però una visione corretta del reale, nonostante la lamentazione idealistica dei cosiddetti progressisti, in quanto non sfugge alla sua condizione di assoluta parzialità. Il modo di produzione capitalistico, su cui anche lo sforzo bellico si sostiene, non può scindere il nesso dialettico identitario capitale-lavoro, soggetto tendenzialmente a un identico destino autodistruttivo quale forma di transizione a un altro modo di produzione e sistema sociale. Tutte le forme di controllo introdotte dalle nuove tecnologie sulle masse esautorate del pianeta potrebbero diventare controproducenti, qualora l’accaparramento delle risorse materiali del pianeta determinasse uno sconvolgimento naturale insostenibile e dalle conseguenze imprevedibili.

Al momento maggior chiarezza sembra aversi quando le forme di controllo del capitale mostrano una tendenza all’“equilibrio” di guerra, più vantaggioso di un permanere pacificato tra competitors, che dai capitali richiedono di risalire agli stati che maggiormente li rappresentano innescando forme di protezionismo finanziario (friend-shoring). Il circuito militar-monetario internazionale, finora unilateralmente gestito a guida Usa, sembra debba subire un mutamento radicale proprio nell’ottica dell’attuazione di quest’ultima guerra, o comunque come necessità scaturita dai mutati equilibri del credito asiatico nei confronti dell’indebitamento occidentale[7].

L’equilibrio bellico, inoltre, già rende visibile per i proletarizzati un aumento della precarietà e intensificazione lavorativa, che si traducono in incremento generalizzato di tassi di sfruttamento e diminuzione del salario sociale, oltre a dispersione territoriale o migrazione di popolazioni “occupabili”, cioè di inoccupati forzati senza più diritti né sociali né umani.

Non si tratta di analizzare soltanto il processo di concentrazione e centralizzazione del capitale, unitamente alla sua potenziale autodistruttività che trascinerebbe Sansone e i filistei nel mitico crollo del tempio. Questa concezione a-dialettica e adusa alla preminenza del più forte tralascia il movimento interno del capitale, in cui è costante un processo di “rivoluzione materiale” che coinvolge la proletarizzazione crescente, la quale potrebbe trovarsi nelle condizioni di non poter più sostenere i capitali di cui è tuttora la fonte. Se a questo dovesse aggiungersi un lato anche soggettivo di contrasto al predominio degli attuali rapporti di forza, di sistema, evento per ora ravvisabile solo in forme separate e troppo minimali per lo scopo, sarebbe ancora più importante il ruolo dell’azione consapevole entro un processo di transizione epocale, di incommensurabile complessità.


Il conflitto e le insanabili contraddizioni

Quando, qui in Italia, ci rapportiamo a tutta la problematica della guerra russo-ucraina, uno degli aspetti che più ci colpisce nelle posizioni delle varie forze politiche liberal-borghesi, dei loro “think tanks” e della grande stampa e media che ne megafona le “analisi” e posizioni, è la banalizzazione semplicistica, parziale e unilaterale dei fatti, colti esulando dal complessivo contesto in cui sono inseriti. Il tutto connotato da un ipocrita doppiopesismo sull’intangibilità dei “principi riguardanti i diritti umani e democratici” e da una pervicace impostazione ideologica che, innanzitutto, diventa funzionale all’organizzazione al consenso degli strati popolari e alla loro irreggimentazione a sostegno del principale “protagonista” di questa decadente fase storica: la grande borghesia imperialistica finanziaria e della sua immutata propensione ad una politica imperialista guerrafondaia. Inoltre, manco a dirlo, ricaccia la sinistra di classe nella confusione e nell’incertezza di quale sia appunto una posizione di classe nella lotta per la pace contro la guerra.

Si sprecano “profondi” concetti, come la “guerra del bene contro il male”, della guerra da sempre “insita nella natura umana” e, in questo caso, nella “soggettività” di qualcuno in particolare, si rimarca la palese differenza tra “aggressori e aggrediti”, l’inconciliabilità tra “democrazia e autocrazia” e via discorrendo. Non rifugge da una impostazione di questo genere nemmeno la spiegazione, apparentemente più concreta e geopolitica, della guerra come risultato dello scontro tra le “superpotenze”. Superpotenza è un concetto ed etimo che, al pari di quell’altra “fortunata” e tautologica locuzione della sinistra, quella dei famosi “poteri forti”, ha l’incapacità di spiegare in profondità la realtà attuale e nulla ha a che fare con quello di “imperialismo”, concetto che potrebbe invece spiegarci qualcosa di più.

Se è scontato che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, è bene ricordare che la politica dominante in una società, pur contraddittoriamente, è sempre quella della classe dominante che esercita il suo dominio per garantirsi a livello strutturale-economico i propri interessi vitali e di sviluppo. Senza un’analisi complessiva del contesto socioeconomico nei suoi aspetti strutturali non è possibile comprendere le contraddizioni e le dinamiche che poi portano allo sviluppo bellico. Quindi una “spiegazione” della guerra in Ucraina non può che basarsi sulle dinamiche e modalità dello scontro economico e politico che internazionalmente è intervenuto tra le borghesie direttamente in gioco, quella ucraina e russa, ma anche delle contraddizioni che si sono scatenate al loro interno e della contrapposizione antagonistica con le rispettive classi popolari, ma soprattutto dello “scontro intra-classista” tra i vari capitali presenti più o meno egemonicamente sulla scena economico-politica europea di quest’ultimo trentennio, scontro che ha sovradeterminato il quadro complessivo nel quale si è scatenata la guerra.

Per capire la situazione attuale, ciò che va analizzato è proprio la peculiare modalità con cui anche in Ucraina, oltre che in Russia (per non parlare di similari vicende che hanno interessato i paesi dell’ex Patto di Varsavia), è avvenuto lo smembramento e privatizzazione dell’economia pubblico/statale dell’ex URSS, l’accaparramento e il saccheggio che l’hanno contraddistinto nella formazione delle varie cordate finanziarie (“oligarchiche”) e la cruenta lotta di queste per la loro collocazione, nell’ambito di un imperialismo transnazionale, in un’area più legata a quella del rublo (e in generale “asiatica”) o a quella “occidentale” (UE e USA) dell’euro e del dollaro, le due “anime” imperialistico-valutarie che nel frattempo, sulle spoglie dell’ex “mercato economico sovietico” in Europa, si faranno la “guerra” l’una  con l’altra, con la vittoria ormai quasi assodata della seconda sulla prima.

In particolare, parallelamente a ciò che succedeva in Russia con Eltsin prima e Putin poi, in Ucraina lo scontro interno alla grande borghesia oligarchico-finanziaria tra le varie componenti, fin dai tempi di Julija Timoshenko e della “rivoluzione arancione” , ma in particolare nel primo decennio di questo secolo, si è connotato di marcati accenti nazionalistici: pro russi per coloro che inizialmente erano, per legami e ragioni storiche, dominanti nella nuova gestione economica liberista, antirussi e pro euroccidentali per coloro che tentavano di sostituirsi a costoro. Proprio questo dato è in grado di spiegarci due fondamentali aspetti della questione ucraina e della conseguente guerra che ne è scaturita, il primo di carattere economico strutturale e il secondo politico-ideologico di carattere sovrastrutturale, aspetti che si intrecciano e sovrappongono fino a confondersi e mascherare la realtà.

Il primo è inerente alla capacità del grande capitale transnazionale “occidentale” di compenetrare la struttura economica capitalistica ucraina in tutti i settori economici, dalle terre agricole alle miniere, dall’industria dell’estrazione e commercio degli idrocarburi a quella delle terre rare, dall’industria pesante all’high-tech, fino al settore bancario-finanziario (si veda anche di Michael Roberts “Ucraina: l’invasione del capitale”), promuovendo in stile iper-liberista privatizzazioni, liberalizzazioni e conseguente trasformazione e peggioramento del mercato del lavoro, del salario sociale e welfare-state. Il tutto non nella modalità colonizzatrice del “vecchio” imperialismo, con una Ucraina “colonia” con una sua borghesia “compradora” (per usare vecchie terminologie), ma nelle modalità della fase attuale dell’imperialismo transnazionale basato su una rinnovata capacità di centralizzazione e concentrazione del grande capitale finanziario transnazionale, sulla acquisizione e controllo delle filiere del valore, delle cordate internazionali, ecc. in cui la nuova grande borghesia ucraina è, a tutti gli effetti, parte della grande borghesia sovranazionale mondiale.

Il secondo aspetto, inerente alla sovrastruttura politico-ideologica e comune anche alle vicende di molti paesi dell’ex URSS, è quello del carattere reazionario neonazista che assumeva e assume lo scontro e la lotta verso il vecchio apparato statalista ucraino orbitante nell’area di influenza economico-politica russa. Tale lotta si dirigeva e tuttora si indirizza inevitabilmente anche verso quelle forze politico-sindacali, popolari e di “sinistra”, identificate allo stesso tempo, sia come contigue all’apparato statalista ereditato dal passato “comunista” e sia come russofile, forze che avevano la colpa e la responsabilità di difendere ancora quei rimasugli di diritti sociali e sindacali non ancora spazzati via dall’ondata “democratica neoliberista” e di essere un ostacolo al cambiamento in quella direzione. Per la nuova borghesia dominante ucraina, la necessità di costituire, per molti versi ex novo, una identità nazionale e patriottica antirussa, ha comportato, oltre ad una complessiva politica russofoba, la rivalutazione storico-politica di tutte quelle fasi che nella storia “recente” (si parla di un secolo) hanno visto la contrapposizione politico-culturale e sociale, fino alla contrapposizione bellica nella seconda guerra mondiale, tra le componenti “etniche” ucraine e russe, dalla tragedia dell’Holodomor fino alla riabilitazione del periodo nazista di Bandera e al pieno sdoganamento e sostegno di forze che a quelle esperienze ideologicamente si rifanno, quelle stesse forze che saranno determinanti nelle vicende del 2014. Appare a questo punto comprensibile come parallelamente e specularmente, da parte della grande borghesia oligarchico finanziaria russa e della cultura dominante che esprime, si formi e si sviluppi quella ideologia politica profondamente reazionaria e nazionalista grande-russa che sorregge e sostanzia la sua politica imperialistica e che, nel caso ucraino, si declina come “denazificazione” (che ironicamente potremmo definire come una variante della occidentale “esportazione della democrazia”).

In relazione alle vicende ucraine del 2014, è stupefacente come la stragrande maggioranza delle forze politiche democratico-borghesi e dei media che le sostengono, si siano giustamente “stracciate le vesti”, sia di fronte al tentato golpe di Capitol Hill a Washington, sia di fronte all’assalto alla CGIL di Roma per la gravità politica antidemocratica che tali episodi hanno rappresentato. Ipocritamente però costoro, quasi fossero politicamente lobotomizzati, nulla dicono o ricordano dell’esito golpista di “Euro Maidan” e dell’assalto alla Casa dei Sindacati di Odessa nell’agosto 2014, con i suoi 46 morti! Eppure ciò che è successo in Ucraina dai primi mesi del ’14 ha determinato un profondo salto di qualità nei processi economico-sociali e politici che già nel decennio precedente si erano strutturati, consolidandoli e portandoli al livello “esplosivo” quali ora li conosciamo: piena integrazione economica dell’Ucraina nel grande capitale imperialistico transnazionale “occidentale” a scapito dell’imperialismo russo, aspetto materiale strutturale che sta alla base del voluto, da parte ucraina, e agevolato, da parte occidentale, possibile ingresso nell’UE e nella NATO; la piena fascistizzazione neo liberista della società ucraina e la guerra per la riconquista dei territori resisi autonomi dopo la rivolta di Maidan.

Lo sviluppo ultimo dell’invasione della Ucraina da parte della Russia quale continuazione della guerra economica tra l’imperialismo russo e quello ucraino-occidentale, principalmente usamericano, è l’ennesimo sviluppo e tassello di questo articolato e complesso quadro sociopolitico, dove agiscono e si intrecciano diverse contraddizioni che sono al contempo spiegazione materiale e mascheramento ideologico. Sicuramente però non è possibile comprendere quanto stia accadendo se, come dicevamo all’inizio, si esula dal contesto storico-sociale e si prende in esame in modo propagandistico, ideologico e puramente “di principio” solo ciò che è successo dal 24 febbraio di quest’anno.

A questo punto è bene ricordare e riepilogare quali siano le contraddizioni operanti nella situazione russo-ucraina in modo che sia più chiaro, anche per le forze popolari del nostro paese e per noi, come possa essere “declinata” la lotta per la pace e la lotta contro la guerra, chi sia il nostro nemico di classe e chi invece sia il nostro alleato.

Una prima contraddizione, che potremmo definire “intraborghese”, è quella che, nella borghesia ucraina, oppone i capitali delle varie cordate “oligarchiche” e non solo, e che si maschera come contraddizione tra borghesia “oligarchica” russofila e “libera” borghesia UE/occidentale, con il suo carico di propaganda ideologica della “libertà democratica neoliberista”. Una seconda contraddizione è quella che oppone la borghesia ucraina alle classi popolari di quel paese che però, dopo Maidan e i fatti di Odessa del ’14, oltre ad essere una “guerra di classe” della borghesia ucraina nei confronti delle classi lavoratrici e popolari, diventa, in piena ottica neocorporativa, la guerra “patriottica” ucraina contro il Donbass “filorusso” nel frattempo resosi indipendente. A tal proposito è bene ricordare come per le popolazioni del Donbass il doppio aspetto con cui si caratterizza tale contraddizione, russofobia da un lato e reazionario attacco neoliberista dall’altro, comporta che ci sia uno speculare atteggiamento nazionalista russofilo, da grande Russia, oggettivamente aggravatosi con l’annessione (per cui, per assurdo, a difendere il Donbass ci vanno anche i volontari nazifascisti che si rifanno al pensiero pro “eurasia” di gente come Dugin) e al contempo una impostazione da repubblica “tardo sovietica” con annessa ideologia che si rifà a valori e principi socialisti. Una terza contraddizione è quella intercapitalista tra borghesia ucraina e borghesia russa, che assume però i caratteri di una contraddizione interimperialistica tra l’imperialismo anglo-americano ed europeo legato all’area del dollaro e dell’euro e quello euro-asiatico russo -cinese. Il “campo di battaglia” principale di questo scontro, soprattutto per quanto riguarda la Russia, è il suo “ex giardino di casa”, quello delle ex repubbliche sovietiche: non a caso l’Ucraina era una di queste.

Tale coacervo di contraddizioni, dove l’aspetto strutturale di classe viene nascosto e falsato dall’aspetto ideologico sovrastrutturale, lascia poco spazio a soluzioni semplicistiche per ciò che riguarda la lotta per la pace che non può prescindere dall’essere una lotta alla guerra e alle politiche del riarmo dell’imperialismo. Quello che è indubitabile è il fatto che in ambedue gli schieramenti che si fronteggiano ci siano i nostri “nemici di classe” e che per i due popoli che sono stati trascinati nella guerra non è sufficiente combattere, sotto l’egida dei reazionari di turno, l’imperialismo straniero, ma è necessario combattere anche il proprio, pena essere carne da macello e sfruttamento per la propria borghesia. Purtroppo, tale autonoma coscienza di classe internazionalista è da decenni scomparsa, quantomeno nella realtà europea, ma proprio la sua assenza ci impone da subito di batterci almeno per il cessate il fuoco. L’inesistente autonomia teorico-politico-organizzativa della sinistra di classe, in Italia e in Europa, il “lato cattivo” mancante nelle contraddizioni sopra accennate, è il vero problema sia della ininfluenza e della subalternità delle classi popolari e del generale movimento per la pace verso l’imperialismo di guerra, sia della possibilità di praticare una reale politica di “internazionalismo proletario” che non ricada nell’adesione e nell’appoggio ad uno dei due schieramenti antipopolari, reazionari e imperialisti in campo.

Proprio l’acuirsi e il permanere delle contraddizioni di questo presente mostrano come “La democrazia al giorno d’oggi è il comunismo” sia ancora l’obiettivo da perseguire, registrata l’incompatibilità di questo sistema di capitale con la vita presente e futura.

[1] Federico Chabod, “L’idea di nazione”, Bari, Laterza, 1967.

[2] F. Engels, “La festa delle nazioni a Londra” in Rheinische Jahrbücher zur gesellschaftlichen Reform, 1846 vol.II pp. 1-19. Marx-Engels Opere, vol.VI p.3.

[3] F. Engels, ib.

[4] Alessandro Mazzone, “Le classi nel mondo moderno. Rappresentazione e concetto”. Proteo 2/2004, Jaca Book. Roma.

[5] https://www.agi.it/estero/figlio_biden_ucraina_trump-6258228/news/2019-09-28/

[6] Per quel che riguarda la caratteristica valutaria del conflitto rimandiamo a Schettino F (2022), https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-la_conflittualit_valutaria_e_lenigma_del_gas_valutato_in_rubli/11_45985/

[7] E. Brancaccio, R. Giammetti, S. Lucarelli “La guerra capitalista, competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista”, Mimesis Eterotopie, Milano 2022.


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