Harris o Trump? Le elezioni Usa viste da Mosca

Per le elezioni presidenziali Usa potrebbe valere il vecchio detto russo, volutamente sgrammaticato, del “oba khuže”, entrambi peggiori....

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Harris o Trump? Le elezioni Usa viste da Mosca

 

La vittoria di quale candidato è preferibile per Mosca? Quella di Kamala Harris o quella di Donald Trump? Oppure, alla lunga, varrà il vecchio detto russo, volutamente sgrammaticato, del “oba khuže”, entrambi peggiori?

Su Komsomol'skaja Pravda, il politologo Malek Dudakov pronostica che Trump, in caso di vittoria, non si affretterà a introdurre nuove sanzioni anti-russe, sia per problemi economici interni, sia per distanziarsi, almeno in questo, dalla precedente amministrazione, in particolare sulla questione ucraina. Più probabile che Trump cercherà invece di proporre a Mosca un nuovo “piano di pace”, del tipo di un congelamento del conflitto sull'attuale linea del fronte e lo status di paese neutrale per l'Ucraina. Ma non è detto che quanto proposto possa risultare accettabile per la Russia, tanto più se, nel “piano”, si chiederà anche di ridurre la collaborazione russa con Cina e Iran. Ma soprattutto, afferma Dudakov, non c'è da attendersi da Trump un «radicale miglioramento dei rapporti Washington-Mosca: la Casa Bianca continuerà a considerare la Russia un nemico».

In ogni caso, c'è da attendersi che le decisioni trumpiane sull'Ucraina dipendano molto dalla situazione al fronte: il sempre più evidente tracollo ucraino potrebbe convincere i padrini atlantici di Kiev a venire a patti con gli obiettivi russi. E, dal momento che Zelenskij non è disposto a seri negoziati, ciò potrebbe irritare a tal punto Trump da decidere di interrompere dimostrativamente ogni sostegno militare e finanziario all'Ucraina. Anche perché indubbie priorità di Trump in politica estera saranno la competizione con la Cina e la situazione in Medio Oriente.

Per Mosca, non ci sarebbero però motivi di ottimismo nemmeno con la vittoria di Kamala Harris, sostiene l'economista Ghevorg Mirzajan: per cercare di normalizzare i rapporti USA-Russia, dice, Mosca ha bisogno non semplicemente della vittoria militare in Ucraina; ha bisogno di attestare «giuridicamente tale vittoria in un documento vincolante, che sancisca chiaramente lo status dei nostri territori russi», oltre ovviamente al ritiro delle sanzioni. Dunque, dato che Harris è stata partecipe di tutte le decisioni di Biden che hanno portato al conflitto armato, difficilmente potrebbe convincere, sia democratici che repubblicani, sul perché lei, negli ultimi due anni e mezzo, abbia sostenuto la necessità della vittoria in Ucraina e su dove siano finiti i 100 miliardi di dollari spesi dai contribuenti per sostenere il regime di Kiev. Harris non avrebbe risposte a quelle domande e, quindi, i rapporti USA-Russia non cambieranno: gli USA continueranno a sostenere appieno la junta golpista, «almeno a parole, anche se in realtà il livello di coinvolgimento USA nel conflitto diminuirà».

In effetti, l'americana Politico scrive che a Bruxelles si teme che la vittoria di Trump porti veramente a una brusca riduzione del sostegno a Kiev. Così, la visita del 4 novembre a Kiev della Ministra degli esteri tedesca Annalena Baerbock, proprio alla vigilia delle elezioni americane, con la prospettiva di vedere ridotto in ogni caso l'impegno yankee sull'Ucraina, sia che vinca l'uno o l'altro dei due candidati, viene interpretata come l'estremo tentativo di assicurare alla Germania il merito di spingere la junta alle trattative con Mosca, anche se ufficialmente Berlino continua a dichiarare che sosterrà Kiev tanto quanto necessario a raggiungere una “pace giusta”, proprio in contrasto col presunto disimpegno yankee.

In realtà, su Ukraina.ru ci si chiede se a Mosca ci sia veramente accordo tra quanti propendono per un “accordo di pace sulla base dei colloqui di Istanbul” e quanti chiedono di “completare tutti gli obiettivi della Operazione speciale”. Questo, mentre si affievolisce a vista d'occhio l'impegno euro-atlantico verso Kiev, tanto che Zelenskij ha dichiarato che l'Ucraina ha ricevuto appena il 10% degli aiuti votati dal Congresso USA nel 2024, pur se, a detta del Kiel Institut für Welwirtschaft, USA e UE hanno già speso circa 220 miliardi di dollari in aiuti all'Ucraina.

La ragione sta nel fatto che Washington, pur temendo un conflitto mondiale, punta piuttosto a rendere permanente la contrapposizione militare ai diretti confini russi, non tanto per ottenere una vittoria completa sulla Russia, quanto per indebolirla militarmente e finanziariamente. È così che si riducono gli invii di armi a Kiev, soprattutto di quelle più moderne e di precisione, mentre si preme sui nazigolpisti perché mandino al fronte uomini sempre più giovani, fino a chiedere la mobilitazione dei quattordicenni ucraini. Il fato è che, a forza di mobilitare e mandare al macello, privi di preparazione, giovani e meno giovani accalappiati a forza nelle strade, Kiev si trova a corto, oltre che di armi occidentali, anche di propria carne da macello, sacrificata in “offensive” inutili e dispendiose in uomini e mezzi.

E di fronte alle disastrose cifre sulle perdite umane, alle diserzioni in massa, alle fughe oltre frontiera, di fronte a tutto ciò, a essere sempre più sfiduciati sono gli stessi comandanti sul campo ucraini: «Qualsiasi guerra viene condotta non per il territorio, ma per le persone», dichiara Dmitrij Kukharchuk, comandante di un battaglione d'assalto, rispondendo così indirettamente alla diatriba su quali confini debba ottenere Kiev da un eventuale trattativa con Mosca; «non importa dove siano i confini dell'Ucraina, se là non ci saranno più ucraini» e a suo parere o il fronte crollerà e la Russia occuperà l'Ucraina, o ci sarà un congelamento lungo la linea del fronte e l'Ucraina avrà qualche anno per prepararsi alla prossima guerra, proprio come pare essere l'obiettivo più probabile del fronte euro-atlantico.

Insomma, tutti e dappertutto, in Occidente, sembrano darsi un gran daffare per non farsi trovare impreparati al crollo rovinoso di Kiev: «La prospettiva che l'Ucraina accetti un compromesso con la Russia, cedendo il territorio in cambio di alcune garanzie di sicurezza occidentali, sta diventando sempre più realistica» scrive The Washington Post, dato che «Trump sembra favorevole a un accordo di questo tipo e i suoi consiglieri parlano apertamente della necessità di dare priorità agli asset strategici USA contro la Cina».

Il Financial Times cita fonti secondo cui, in caso di vittoria, Trump intende “agire a rotta di collo” per porre fine alla guerra sull'attuale linea del fronte: Kiev non verrà ammessa nella NATO, ma ci sarà qualcosa di simile a un “Minsk-3”, per cui sarà l'Europa a garantire la sicurezza dell'Ucraina. Ovviamente, resta a vedere quanto una tale prospettiva sia opportuna per Mosca.

D'altra parte, nella stessa Ucraina ci si dice abbastanza sicuri che il tempo a disposizione della junta nazi-golpista sia prossimo alla scadenza. L'ex deputato della Rada (e terrorista in Donbass all'epoca di Petro Porošenko) Igor Mosijchuk afferma che la ragione del crollo del fronte risiede in tutto ciò che è accaduto nelle retrovie nell'ultimo anno e mezzo: mobilitazione forzata, corruzione nei distretti militari, situazione ai confini, dove si fanno soldi chiudendo gli occhi sulle fughe all'estero degli uomini. Tutto questo ha fatto sì, dice Mosijchuk, che le persone cessassero di vedere ciò che difendevano, ne frantumasse le motivazioni e influisse sulla situazione al fronte: è sotto gli occhi di tutti la divergenza tra élite, ricchi, e gente comune, i cui figli, non potendo pagarsi la fuga o la diserzione, finiscono al fronte.

Per quanto riguarda la cerchia ristretta della junta, questa, secondo quanto scrive Iarex.ru,  sta cercando fino all'ultimo di barcamenarsi tra Harris e Trump, in attesa che l'una o l'altro abbiano compassione, in qualche modo, in qualunque modo, della sorte dei nazi-golpisti di Kiev. E si arriva a puntare su una sorta di “ultimatum” che Trump, secondo i golpisti, potrebbe cercare di imporre a Mosca per metter fine al conflitto. Così, su The Hill, il britannico-ucraino Aleksandr Temerko, suppone che The Donald, il quale, a suo dire, vede nel conflitto uno strumento per trasformare l'Ucraina in avamposto occidentale, potrebbe lanciare ultimatum a Kiev e a Mosca, spingendo Zelenskij a negoziare e, se Mosca rifiutasse di fermarsi sull'attuale linea del fronte, trasformandola in un nuovo confine, prometterebbe a Kiev un maggiore sostegno e a Mosca una guerra economica. Grossi miraggi, verrebbe da dire, per Temerko e per la junta golpista: sia nei riguardi di Mosca, ben lontana dal sentirsi così indebolita tanto dal dover cedere a simili “ultimatum”, sia nei riguardi dei nazisti di Kiev, non più in grado di “premere” sui propri padrini, che siano democratici o repubblicani.

Oltretutto, ricorda opportunamente Iarex.ru, certi “analisti” ucraini dimenticano la cronistoria dei rapporti Trump-Zelenskij, per cui all'ex presidente era quasi toccato un secondo impeachment «per pressioni su un capo di Stato straniero» nel caso “Burisma”: Trump stava cercando informazioni compromettenti su Biden, ma Zelenskij si era rifiutato di fornirgliele, facendo invece trapelare ai democratici le voci sulla conversazione con Trump. È improbabile che The Donald se ne sia scordato.

Insomma: tempi davvero grami per i nazi-golpisti, ma anche al di là dell'Oceano, dove le prospettive parlano di possibile “guerra civile”; all'americana, naturalmente, con le conseguenze che dovranno esser pagate dai più prossimi “alleati”.

 

Fabrizio Poggi

Fabrizio Poggi

Ha collaborato con “Novoe Vremja” (“Tempi nuovi”), Radio Mosca, “il manifesto”, “Avvenimenti”, “Liberazione”. Oggi scrive per L’Antidiplomatico, Contropiano e la rivista Nuova Unità.  Autore di "Falsi storici" (L.A.D Gruppo editoriale)

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