I 90 anni mancati dell'IRI
Il 24 gennaio del 1933 nasceva ufficialmente l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, meglio conosciuto come IRI.
A un anno dalla sua nascita, nel gennaio 1934, l’IRI già deteneva circa il 48,5% del capitale azionario in Italia.
Nel marzo 1934, rilevò anche il capitale delle principali banche (Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banco di Roma) e, alla fine del 1945, controllava 216 società con oltre 135.000 dipendenti. Negli anni 80, moltiplicò le sue quote e raggiunse il numero di 600.000 dipendenti.
L’IRI fu protagonista della ricostruzione industriale postbellica, lavorò per la progressiva indipendenza energetica del Paese, contribuì allo sviluppo della rete autostradale, del trasporto in genere e delle telecomunicazioni, fu determinante per il sostegno dell’occupazione.
L'IRI realizzò inoltre grandissimi investimenti nel Sud Italia, come la costruzione dell'Italsider di Taranto e quella dell'AlfaSud di Pomigliano d'Arco e di Pratola Serra in Irpinia; altri furono programmati senza mai essere realizzati, come il centro siderurgico di Gioia Tauro.
Per evitare gravi crisi occupazionali, l'IRI venne spesso chiamato in soccorso di aziende private in difficoltà: ne furono esempi i "salvataggi" della Pignone, della Motta e dei Cantieri Navali Rinaldo Piaggio e l'acquisizione di aziende alimentari dalla Montedison. Strategia che portò a un incremento progressivo di attività e dipendenti dell'Istituto
Poi arrivò la combinazione mortale della nascita dell’Unione Europea e della Seconda Repubblica. E con la presidenza di Romano Prodi arrivarono:
- la cessione di 29 aziende del gruppo, tra le quali la più grande fu l'Alfa Romeo, privatizzata nel 1986;
- la trasformazione IN SPA e la privatizzazione dell’ENI;
- la privatizzazione dell’intero settore bancario;
- la diminuzione dei dipendenti, grazie alle cessioni e a numerosi prepensionamenti, soprattutto nella siderurgia e nei cantieri navali;
- la liquidazione di Finsider, Italsider e Italstat;
- lo scambio di alcune aziende tra STET e Finmeccanica;
- la tentata vendita della SME al gruppo CIR di Carlo De Benedetti
Le entrate della privatizzazione degli anni 90 in l'Italia sono state pari a 121,05 miliardi di dollari (contro i 64,8 miliardi della Francia, i 48 della Germania e i 44 della Spagna), l'importo più elevato in Europa in termini assoluti e tra i più alti in percentuale al PIL: 13,3%. Siamo quelli che più degli altri si sono fregati con le proprie mani.
Prima dell’inizio della grande svendita nel 1992, l’IRI era il sesto più grande gruppo industriale al mondo con 67.557 milioni di dollari di fatturato e più di 400.000 dipendenti. Appena due anni dopo l’inizio del processo di svendita, l’IRI era già scesa al 16° posto con 50.488 milioni di dollari di fatturato e 366.471 dipendenti.
Oggi nel mondo rispetto all’Italia il peso delle aziende di Stato, delle controllate e delle partecipate è molto più alto. Sia in termini di forza lavoro, sia per numero, sia in termini di PIL.
Nel 2021 nell’elenco delle migliori imprese stilato ogni anno da Fortune (Fortune Global 500), troviamo 143 imprese cinesi, 11 in più rispetto al 2020. Di queste, ben 82 sono imprese statali.
Nella sola Cina, il governo centrale possiede 51.341 imprese di Stato, valutate a 29,2 trilioni di dollari e danno lavoro a circa 20,2 milioni di persone.
La Cina è il più grande Paese per numero di aziende di Stato. Seguono Ungheria (370), India (270), Brasile (134), Repubblica Ceca (133), Lituania (128), Polonia (126) e Repubblica Slovacca (113).
Stando all’ultimo report OCSE (che è del 2017), per quanto riguarda l’Europa, in Germania le aziende interamente pubbliche sono 71, in Francia 51, in Svezia 49, in Finlandia 47, in Danimarca 21. In Italia sono 20.
Anche andando a vedere i dati di altri rapporti che hanno raccolto e aggregato i dati in maniera differente da quelli OCSE, i risultati non cambiano di molto.
Molti Paesi hanno una partecipazione (parziale o totale) dello Stato superiore al 10% nelle prime 10 aziende per dimensione e importanza. Così non è per l’Italia
Per quanto riguarda il valore di controllate e partecipate pubbliche, l’Italia si colloca dietro a Francia, Germania e Spagna.
Nonostante questo, secondo gli ultimi dati ISAT, l’Italia tra il 2018 e il 2019 ha tagliato il numero di controllate e partecipate del 3,9%. In particolare è stato tagliato il numero di partecipate pubbliche attive nei settori dell’industria e dei servizi (-5%) e di quelle partecipate direttamente da almeno un’amministrazione pubblica regionale o locale (-6%). Se si vanno a vedere i dati tra il 2012 e il 2019, il taglio è stato del 23,8%.
Insomma mentre molti Paesi, Cina in primis, hanno costruito la loro fortuna copiando più o meno direttamente il modello IRI, noi invece ce ne siamo liberati per entrare nell’Unione Europea e adottare l’euro.
Probabilmente l’operazione più autolesionista che si sia vista in epoca moderna. Insieme al divorzio tra Banca d’Italia e tesoro del 1981.
Un'operazione per cui dobbiamo ringraziare una classe politica, quella degli ultimi 30 anni, composta prevalentemente da venduti e da incapaci.