I big di Wall Street non seguono la crociata contro Pechino... anzi!

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I big di Wall Street non seguono la crociata contro Pechino... anzi!


di Giacomo Marchetti  - Contropiano

 

La Cina sta divenendo un centro d’attrazione per il settore finanziario statunitense, e i big di Wall Street sembrano seguire più l’adagio finanziario follow the money che le indicazioni dell’amministrazione nord-americana.
 

Quest’aspetto rende certamente più complesso il quadro delle relazioni sino-statunitensi, ormai inserite in una cornice da guerra fredda di nuovo tipo  in cui i due Paesi, lottando per l’egemonia, cercano di primeggiare su differenti fronti: dallo scontro spaziale a quello sulle risorse, dal conflitto monetario a quello sull’informazione.


Questo flusso di investimenti dei big di Wall Street, che prende la strada dei fondi d’investimento e della gestione patrimoniale, è il risultato della coniugazione di due fattori: la sete di capitale della finanza USA e la parziale apertura cinese a questo tipo d’investimenti, in un settore comunque rigidamente orientato, per usare un eufemismo.
 

Ovunque si guardi, ci sono molti soldi e in quale altro posto al mondo c’è un’opportunità come questa per andare a prendersi questa quantità di denaro per il management? Afferma un manager di una società legata a Citigroup nell’articolo del «Financial Times» che abbiamo qui tradotto.
 

Non si potrebbe essere più chiari.


Dove reperire risorse, se non dove sono ancorate ad una solida base economica piuttosto che al sentiment dei mercati?


Così i grandi nomi della finanza USA – BlackRock, Vanguard, Citigroup e JP Morgan, per non citarne che alcuni – vedono una prospettiva d’investimento nel settore in Cina.


Alcune branche di questo settore – secondo quanto sostenuto da alcuni analisti – potrebbero ben presto superare la piazza di Londra.


Che il baricentro di questo tipo di investimenti si sposti dalla City a Pechino  è un fatto di per sé epocale per il lungo XX secolo.


Che questi big leghino i propri destini all’economia cinese non è un fatto secondario per gli Stati Uniti. Perché sarebbe difficile convincere il management di queste aziende a tagliare il ramo su cui si sono posate, come del resto abbiamo già visto succedere con alcuni aziende dell’high Tech connesse alla Repubblica Popolare. Il che non rende certo facile – al di là del tipo di amministrazione che governerà gli Stati Uniti – il “decoupling” da parte nord-americana.


Se è il capitale privato a dettare legge, è sempre abbastanza problematico sbarrargli la possibilità di profitto. Più facile per la Cina separarsi dagli USA, perché potrebbe decidere di favorire alcuni capitali al posto di altri nel complicato risiko delle relazioni internazionali, giocando per esempio l’UE contro gli USA.


In sintesi, le scelte politiche della Cina potrebbero avere conseguenze sugli investimenti finanziari nord-americani in uno dei settori chiave: quello che regge la baracca nell’economia statunitense drogata dalla finanza.


Allo stesso tempo potrebbe essere una breccia, per i settori del capitale finanziario USA in grado di legare a sé la parte di élite economica cinese che ha maggiormente beneficiato della globalizzazione neoliberista, con tutto quello che potrebbe conseguirne nella ridefinizione dei rapporti di classe nella Repubblica Popolare e non solo tra le varie componenti della classe dirigente.


I potenziali di crescita sono enormi, anche se il mercato cinese è tutto meno che de-regolamentato, con un ruolo decisivo giocato dalla gestione pubblica dell’economia – a partire dal settore bancario – che ha fatto tesoro delle turbolenze finanziare già dalla prima crisi asiatica.


L’industria cinese dei fondi comuni di investimento”, recita l’articolo di Hale, Riding e Xuequiao, “è ancora agli iniziGoldman Sachs stima che solo il 7% del patrimonio delle famiglie del Paese sia in azioni e fondi comuni di investimento, rispetto al 32% negli Stati Uniti. Due terzi dei beni delle famiglie cinesi sono in proprietà e quasi un quinto è detenuto in contanti e depositi.”


I beni delle famiglie cinesi sono dunque per un terzo economia reale, quindi; ed anche il 20% in risorse cash e depositi bancari aono assicurati da un sistema che, fino a qui, è riuscito a sterilizzare le tossine ed estromettere la “corruzione sistemica” portata dal mondo della speculazione finanziaria. Mentre un buon terzo del patrimonio delle famiglie Usa è qualcosa che può improvvisamente tramutarsi in carta straccia, come ha dimostrato la crisi dei sub-prime.


Ciò che traspare è una certa resistenza al buttarsi a capofitto nella scommessa finanziaria – per ciò che concerne i risparmiatori cinesi – a causa delle fluttuazioni connesse a questo tipo di investimenti, che hanno nell’incertezza uno delle caratteristiche fondamentali: ovvero quelle crisi “allogene” che hanno contribuito a dare una percezione più corretta di cosa sia il capitalismo occidentale.


Sarebbe comunque auto-consolatorio pensare che la legge del valore, per certi versi, si “sospendesse”, invece che fagocitare tutto ciò trova davanti, a meno di non incontrare ostacoli solidissimi.


Buona lettura.

*


Wall Street sorpassa le tensioni politiche per scavare più a fondo in Cina


di T. Hale, S. Riding, W. Xueqiao (Financial Times)


Alcuni degli istituti finanziari più potenti di Wall Street stanno intensificando gli sforzi per stringere accordi in Cina anche se le relazioni fra Pechino e gli Stati Uniti si stanno inasprendo sempre più.
 

Il mese scorso BlackRock, la più grande società di gestione del risparmio al mondo, ha ricevuto l’autorizzazione per una partnership con una banca statale in Cina. Alcuni giorni dopo, Vanguard, una società concorrente, ha dichiarato che sposterà il suo quartiere generale della regione a Shangai e Citigroup è diventata la prima banca statunitense a ricevere un permesso per gestire i depositi. Inoltre, sono emersi dettagli sul piano di JPMorgan Chase per acquisire il suo partner locale per il business dei fondi cinesi.


Questo avviene mentre Pechino fa dei passi avanti verso la liberalizzazione del suo vasto ma altamente protetto mercato azionario. Questo dimostra che, dietro alle tensioni sino-americane nell’avvicinarsi delle presidenziali di novembre, i due paesi si stanno avvicinando in materia finanziaria.


“Ovunque si guardi [in Cina], ci sono molti soldi e in quale altro posto al mondo c’è un’opportunità come questa per andare a prendersi questa quantità di denaro per il management?” ha affermato Stewart Aldcroft, presidente per l’Asia di Cititrust, un braccio di Citigroup. “Non c’è da nessuna parte, francamente”.


La recente ondata di attività si è concentrata principalmente sul settore della gestione dei fondi del Paese, parte di una gamma più ampia di servizi che sono stati considerati un’opportunità per la “cooperazione e il vantaggio reciproco” nell’accordo commerciale della fase 1 tra Stati Uniti e Cina pubblicato a gennaio.


Le riforme cinesi entrate in vigore quest’anno hanno comportato il fatto che le società straniere possono per la prima volta possedere interamente le proprie attività in un settore in rapida crescita come quello dei fondi comuni di investimento del paese. Secondo una proiezione di Deloitte, i fondi registrati pubblicamente potrebbero detenere attività per 3,4 miliardi di dollari entro il 2023.


Casey Quirk, una società di consulenza, stima che la Cina supererà il Regno Unito come secondo mercato di fondi al mondo entro il 2023.


“Sapevamo che l’intenzione della Cina era di aprire il mercato e il motivo per cui lo stavano facendo non è perché erano magnanimi”, ha detto Peter Alexander, fondatore di Z-Ben Advisors, una società di consulenza con sede a Shanghai. “Piuttosto”, ha detto, “la Cina vuole beneficiare delle “best practices” statunitensi”.


Il signor Aldcroft ha citato una visita di sei anni fa di alti funzionari della China Securities Regulatory Commission a Citi e alla SFC, l’autorità di regolamentazione dei valori mobiliari di Hong Kong. “Vedono la concorrenza che le aziende straniere possono portare come uno sviluppo molto sano”, ha detto.


L’industria cinese dei fondi comuni di investimento è ancora agli inizi. Goldman Sachs stima che solo il 7 per cento del patrimonio delle famiglie del Paese sia in azioni e fondi comuni di investimento, rispetto al 32 per cento negli Stati Uniti. Due terzi dei beni delle famiglie cinesi sono in proprietà e quasi un quinto è detenuto in contanti e depositi.


Anche i mercati azionari cinesi sono sconvolti dalla volatilità, una questione su cui i media statali ufficiali hanno espresso preoccupazione quest’anno, poiché gli indici hanno registrato un forte rialzo. Le oscillazioni selvagge dei prezzi hanno alimentato i timori tra gli investitori ordinari che il mercato possa essere pericoloso.


“Per noi investitori retail che non abbiamo conoscenze finanziarie professionali, è difficile guadagnare”, ha detto Shen Jiahong, un investitore retail di Shanghai sulla quarantina. Piuttosto che acquistare singole azioni, acquista principalmente fondi comuni di investimento, che valuta in base alle classifiche su WeChat, un servizio di messaggistica.


L’interesse delle imprese straniere non si limita alla vendita di fondi comuni di investimento. BlackRock ha recentemente ottenuto il diritto di possedere interamente la propria attività di fondi comuni di investimento, ma la sua nuova partnership con la China Construction Bank e Temasek di Singapore le consentirà anche di svolgere un ruolo nel mercato della gestione patrimoniale del Paese, dominato dalle banche nazionali. La Cina questo mese ha approvato Citi come la prima banca che può offrire servizi di custodia come la tenuta dei registri, di accordi commerciali e l’elaborazione del reddito.


A marzo Morgan Stanley ha ricevuto l’approvazione per acquisire la maggioranza della sua joint venture in titoli cinesi. A JPMorgan è stato recentemente consentito di diventare la prima banca estera a possedere completamente un’attività di futures in Cina, oltre ad assumere il controllo della sua attività di fondi comuni di investimento cinesi attraverso il suo braccio di gestione patrimoniale.


Jamie Dimon, presidente e amministratore delegato della banca, ha dichiarato in un’intervista a Bloomberg a Pechino nel 2018 che la sua azienda “sta costruendo qui con una prospettiva di 100 anni”.


“Un giorno probabilmente ci sarà una torre qui che assomiglia alla torre che abbiamo a New York”, ha detto Dimon.


Prendere quote di mercato potrebbe non essere facile. Hugh Young, capo degli uffici in Asia per Standard Life Aberdeen, ha affermato che i gestori patrimoniali internazionali devono affrontare alcuni concorrenti nazionali “radicati”.


Ha aggiunto che molte aziende straniere stanno cercando di consolidare la loro presenza nel mercato per beneficiare di un’eventuale liberalizzazione dei flussi di capitali, quando le autorità cinesi allenteranno i controlli sulle quantità di denaro che famiglie e imprese possono trasferire all’estero.


Il signor Alexander ha convenuto che “gestire il denaro cinese a livello globale” è il “Sacro Graal” per le aziende straniere – ma che Pechino non permetterà loro di dominare questo processo. “I cinesi si compreranno qualcuno”, ha detto.

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