I mondiali in Qatar e il (vergognoso) washing mediatico

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I mondiali in Qatar e il (vergognoso) washing mediatico

 

Proseguono senza sosta, anche in Italia, gli acquisti da parte del Fondo sovrano del Qatar (450 miliardi di dollari)  di aziende, grattacieli, alberghi, compagnie aeree …  Anche di giornalisti? Si direbbe di sì davanti allo spazio riservato dai media al premio alla carriera e alla clamorosa confessione di amore gay con Valentino rilasciata in un Qatar dove l’omosessualità è, ancora oggi, passibile di pena di morte. Washing mediatico realizzato da blasonate agenzie di pubbliche relazioni per lanciare la  Coppa mondiale di Calcio (che si terrà in Qatar a partire dal 20 novembre al 18 dicembre) e che, oltre a far spendere alla Rai  più di 200 milioni di nostri euro, farà, certamente, dimenticare i tanti crimini di questo dittatoriale emirato; ad esempio la fornitura di fuoristrada Toyota servite ai tagliagole dell’Isis per i loro massacri in Siria e in Iraq. Ma perché mai i campionati mondiali di Calcio si tengono in un paese privo di tradizione calcistica e, a differenza di tutti gli altri, alle soglie dell’inverno? La storia, verosimilmente costellata da mazzette, della sbalorditiva scelta da parte della FIFA la trovate in questo articolo. Occupiamoci ora del whashing mediatico.

Con questo termine (whashing, dall’inglese “lavaggio”) si intende un prodotto offerto oggi da innumerevoli agenzie di pubbliche relazioni (tra le più famose, la Bell-Pottinger che, nel 1998, riuscì a bloccare l’estradizione di Pinochet dalla Gran Bretagna verso il Cile) per costruire una patina di rispettabilità a regimi dittatoriali o a criminali. Il caso più eclatante è quello dell’Arabia Saudita (vedi anche il servizio realizzato da “Le Iene”) che, negli Stati Uniti, riversa, ogni anno, alle agenzie di pubbliche relazioni, circa due miliardi di dollari (oltre a finanziare campagne elettorali, come quella di Hillary Clinton) e che collabora con Facebook per estirpare le fake news da Facebook. Soldi spesi bene considerando che l’attuale capo della dinastia Saud – Mohammed bin Salman – viene, oggi, considerato un “progressista”, nonostante la sua guerra allo Yemen, (100 mila morti e tre milioni di sfollati), e nonostante abbia commissionato (anche secondo Biden) l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, poi fatto a pezzi nel consolato saudita di Istanbul il 2 ottobre 2018.

Ma come si fa a “migliorare l’immagine” di un Paese? Il modo più efficace è sponsorizzare eventi sportivi come fu per il Giro d’Italia del 2018 partito da Gerusalemme. Ma perché mai il Giro d’Italia è partito da Israele? Grazie a 30 milioni di euro pagati dallo stato di Israele e altri 16 milioni di euro versati dal miliardario israelo-canadese Sylvan Adams. Ma, soprattutto grazie ad una colossale fake news, e cioè che il campione del ciclismo italiano Gino Bartali avrebbe salvato ebrei altrimenti destinati ai campi di sterminio. Una storia assolutamente falsa, ma che, nonostante la smentita di don Aldo Brunacci (l’incaricato del Vaticano per il soccorso agli ebrei) e di  Michele Sarfatti, (storico, già direttore del Centro di documentazione ebraica contemporanea) è diventata, nel 2019, addirittura, una delle tracce per i temi dell’esame di Stato

Oltre al washing mediatico dei regimi, quello dei guerrafondai. Ad esempio quello realizzato per ripulire l’immagine di Tony Blair basato sul Rapporto della Commissione Chilcot, voluto dal Parlamento britannico (ma, secondo alcuni, da Alastair Campbell, già spin doctor di Tony Blair) per “accertare i motivi che spinsero la Gran Bretagna ad entrare in guerra contro l’Iraq”. Una Commissione che, dopo sette anni di lavori, la consultazione di 150 mila documenti e l’audizione di centinaia di testimoni, consegnò nel 2014 un Rapporto di 12 volumi, la cui conclusione è così sintetizzabile: la guerra all’Iraq per impedire a Saddam di usare le sue “armi di distruzioni di Massa” si fondava su informazioni sbagliate dell’intelligence che nessuno (in primis, il premier laburista Tony Blair) si preoccupò di vagliare.

A leggere i media di allora si direbbe che questo rapporto sia stato una gogna per Tony Blair (che difatti, si scusò pubblicamente chiedendo una “severa punizione” per i vertici dei servizi di intelligence che lo avevano “ingannato”) ma nessun giornalista si chiese come sarebbe stato possibile, senza il placet di Tony Blair, uccidere David Kelly, il batteriologo dei Servizi segreti britannici che aveva relazionato sulla inconsistenza delle “armi di distruzioni di Massa” di Saddam e che fu trovato “suicidato”, il 17 luglio 2003, due giorni prima di essere convocato da una commissione parlamentare. 

Un altro guerrafondaio che beneficiò di un washing mediatico (realizzato con modalità davvero subdole) fu John McCain, senatore USA. Nel 2015 fa venne fuori la storia di video su CD trafugati da fantomatici “hacker ucraini anti-NATO (Cyber Berkut) dalla borsa di un componente dello staff del senatore repubblicano statunitense John McCain durante un viaggio in Ucraina. Video che “documentavano” come le decapitazioni dell’Isis non fossero altro che sceneggiate riprese in set cinematografici. In realtà una pur sommaria analisi dei video “trafugati”, e finiti su Internet e su tante TV, evidenziava che quel set cinematografico mai avrebbe potuto realizzare i video di decapitazioni (tragicamente “veri”) messi on line dall’Isis. Nonostante ciò i media garantirono a quegli sciatti video notorietà e un ancora più grande scalpore quando furono “ufficialmente” dichiarati falsi. Perché questa operazione? Verosimilmente per porre in dubbio ogni accusa contro   John McCain che proprio in quel periodo cominciava ad essere additato, anche da importanti media, come il burattinaio Usa dell’Isis.

Ma su questa storia delle “false fake news” messe in giro dai media avremo modo di soffermarci.

 

Fonte: Avanti.it

 

Francesco Santoianni

Francesco Santoianni

Cacciatore di bufale di e per la guerra. Autore di "Fake News. Guida per smascherarle"

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