I negazionisti sono loro

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I negazionisti sono loro

In tempi di comunicazione social c’è sempre meno voglia di approfondire ed analizzare i problemi, c’è solo la volontà di affibbiare etichette. Nel caso della tematica Covid-19 il problema di una semplificazione e dell’etichetta si è ancora più aggravato. I media mainstream in cattiva fede hanno definito senza mezzi termini come “negazionisti” e “complottisti” coloro che hanno organizzato e partecipato alle manifestazioni dello scorso fine settimana a Parigi, Londra e Berlino. Nell’analisi di Bianca Bonavita si cerca proprio di approfondire, evitando ogni generalizzazione, le problematiche sociali, economiche causate dalla gestione della pandemia. Istanze e problematiche portate avanti, è vero da un universo politico variegato, ma occultati dai media di regime semplicemente come “negazionisti” e “complottisti”.
 
di Bianca Bonavita
 
Dopo le manifestazioni di Berlino, Parigi e Londra del 29 agosto scorso la parola “negazionisti” pare aver sostituito nel servilismo dei media di regime quella non meno infamante, nelle loro intenzioni, di “complottisti”. 
 
Come è noto la parola è usata nella storiografia per indicare alcune teorie “revisioniste” estreme, aventi nel saggista britannico David Irving uno dei suoi esponenti di spicco, che arrivano a negare l'esistenza stessa della Shoah. La vicinanza tra queste teorie e alcune organizzazioni neonaziste è un fatto acclarato. Va da sé a questo punto l'immediata e anche esplicita assimilazione dei manifestanti del 29 agosto al neonazismo.
 
La parola è andata dunque assumendo, negli ultimi trent'anni di dovere di memoria istituzionalizzato, un carattere infamante verso coloro a cui è diretta, poiché viene considerato negazionista chi ha negato e nega un crimine verso l'umanità di immani proporzioni come lo sterminio degli ebrei durante il terzo Reich.
 
L'assimilazione delle manifestazioni europee del 29 agosto al negazionismo è pertanto doppiamente fuori luogo e pretestuosa: in primo luogo perché non si nega l'esistenza del virus Sars-Cov-2, in secondo luogo perché i dubbi sulla narrazione ufficiale del grande evento Covid-19 non possono in alcun modo essere assimilati alla negazione di un crimine contro l'umanità.
A ben vedere, restando all'interno dell'abuso di memoria banalizzante e generalizzante operato dai media di regime, si potrebbe rivoltare contro di loro, e molto più a proposito, l'accusa di negazionisti.Sono loro che continuano a negare ostinatamente, occultandolo, che un crimine contro l'umanità sia in corso.
 
Un crimine che, a prescindere da ciò che si pensi della gravità del virus, non ha a che fare con la sua letalità, ma con l'uso politico ed economico che se ne sta facendo. Un crimine che ha a che fare con la riprogrammazione antropologica dell'umanità che la vuole fondata, ancora più di prima, sulla separazione e sulla paura, un crimine che ha a che fare con la ridefinizione del paradigma governamentale in chiave di dittatura tecno-sanitaria con relative costanti minacce di sospensioni di libertà fondamentali, un crimine che ha a che fare con la trasformazione della scuola in una clinica diagnostica e in uno strumento di addestramento (con tanto di contenzioni e punizioni) al nuovo regime, un crimine che ha a che fare con l'ospedalizzazione e la digitalizzazione del mondo e con la progressiva traslazione della realtà sulla Rete che forse, come ha suggerito Julian Assange, è tempo di iniziare a considerare come  nemica dell'umanità, in quanto strumento principale di sorveglianza e governo dell'élite transnazionale che la controlla.
 
La colpevole cecità o l'ancor più colpevole malafede dei media di regime di ogni colore, che taccia di negazionismo e di neonazismo la marea umana di Berlino, dimostra ancora una volta l'inutilità, o forse ancor peggio la sua funzionalità, del dovere di memoria della Shoah imposto con l'istituzionalizzazione della giornata della memoria il 27 gennaio, il giorno in cui l'Armata Rossa aprì i cancelli di Auschwitz. Se a qualcosa poteva servire la memoria della Shoah, ma ancora più la sua storia, era proprio a riconoscere, laddove si fossero ripresentati, gli stessi dispositivi e meccanismi che quello sterminio hanno preparato e reso possibile: tra gli altri la sospensione delle garanzie costituzionali, l'instaurazione di uno stato di polizia, il controllo dei mezzi di informazione, l'uso della paura come strumento di propaganda, il conformismo, l'individuazione di un capro espiatorio, la demonizzazione dei dissidenti.
 
Ben lungi dal favorire lo studio e l'analisi della storia della Shoah, la memoria pubblica banalizzante e sacralizzante dell'evento, ridotto a icona monolitica,  è servita proprio a rendere irriconoscibili questi dispositivi qualora non si ripresentino nella stessa identica maniera.  

Purtroppo, la storia della sopraffazione e del dominio non si ripresenta mai uguale a sé stessa: spetta a noi saper smascherare i suoi travestimenti.
 
Forse dovremmo allora ascoltare il grido di Berlino del 29 agosto; forse non è un caso che la città che più di tutte porta in sé le cicatrici del Novecento e la memoria di due grandi sistemi totalitari abbia intravisto per prima il sorgere di una nuova forma di totalitarismo.
 
Contrariamente all'Italia, ancorata al proprio ruolo di vittima e di colonia inconsapevole, e dove continua intimamente a predominare la rimozione del passato fascista e l'auto-narrazione del mito “italiani brava gente”, pare che a Berlino il ricordo del proprio “anno zero” sia davvero servito a qualcosa. 
 
 

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