I veri ideatori dell'"autonomia differenziata" e l'opposizione di facciata del PD
di Leonardo Sinigaglia
L’immagine dei senatori piddini intenti a sventolare il tricolore in protesta contro l’approvazione del ddl Calderoli sull’autonomia differenziata non deve trarre in inganno. Questo progetto, per quanto faccia gola alle mal celate tendenze secessioniste di certe “signorie” regionali, ha una matrice ben precisa, che più che in Padania sta nell’Atlantico, tra Washington e Bruxelles.
Quello che si ha davanti è il progetto euro-federalista, che sin dai tempi dell’American Committee on United Europe e dell’European Recovery Program ha avuto l’unico scopo di unire il continente nella subordinazione all’egemonia statunitense, garantendo mercati di sbocco alle merci americane, ingenti flussi di capitale, il venir meno di imperialismi concorrenti e, cosa di non poco conto, una salda testa di ponte nel continente eurasiatico, elemento necessario per indebolire la posizione degli avversari strategici. Non a caso, i più decisi sostenitori del regionalismo in Italia furono gli appartenenti all’ala destra della Democrazia Cristiana, saldamente agli ordini di Washington almeno dal viaggio di De Gasperi negli USA nel ‘47, ma in stretta connessione con le forze d’Oltreoceano già da prima dell’armistizio.
Non si riuscirebbe a comprendere l’essenza politica dell’autonomia differenziata se non si tenesse conto del fatto che il ddl Calderoli è reso possibile solo ed unicamente dalla riforma del titolo V della Costituzione, portata avanti all’epoca dal governo Amato II, la quale, oltre ad aumentare le prerogative delle regioni e aprire spazi per più larghe concessioni di “autonomia”, stabiliva la necessità del rispetto dei vincoli comunitari da parte della legislazione sia statale che regionale. Nell’ambito dell’approccio funzionalista al federalismo europeo promosso da Jean Monnet ciò è perfettamente comprensibile: la progressiva erosione dei margini d’azione dello Stato nazionale è da condursi dall’alto, con un rafforzamento delle istituzioni comunitarie, e dal basso, con l’attribuzione di sempre maggiore grado di autonomia agli enti una volta puramente amministrativi. In questo contesto è immediatamente visibile la corrispondenza tra la riforma del titolo V e l’accelerazione che ebbe il processo d’integrazione europea all’indomani della caduta del blocco sovietico e dell’imposizione a livello planetario dell’egemonia imperialista statunitense.
Le spinte leghiste al secessionismo, così come i rigurgiti indipendentisti che dalle isole al Veneto continuano a serpeggiare tanto in ambienti “antagonisti” quanto nei palazzi del potere, conobbero non casualmente una certa riemersione proprio tra Anni ‘90 e 2000, utile strumento per favorire, se non altro nella coscienza comune e nell’opinione pubblica, un clima favorevole alla disarticolazione dello Stato unitario.
E cosa non si può vedere se non la disarticolazione dello Stato unitario nel ddl Calderoli, con le sue ventitré materie che, a richiesta, passerebbero di competenza alle regioni? Leggiamo: rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale; organizzazione della giustizia di pace; norme generali sull’istruzione; tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. In poche parole, con l’eccezione della difesa, comunque palesemente per indirizzi, spese e operatività ormai completamente estranea al di fuori della potestà nazionale, si può parlare a tutti gli effetti di veri e propri staterelli regionali, che, vista la primazia dei vincoli comunitari, altro non sono che elementi costitutivi del del federalismo europeo.
Ben si è fatto, e più si dovrebbe fare, per mettere al corrente la popolazione italiana sugli enormi costi sociali dell’autonomia differenziata, sull’incremento potenziale delle diseguaglianze e sugli immensi spazi che questa offre a privatizzazioni e speculazioni, soprattutto in campo scolastico e sanitario, ma occorre evitare la retorica volta a dipingere quanto sta succedendo come una sorta di “secessione dei ricchi”. Le regioni del Nord, o meglio i gruppi economici più influenti in seno a queste, senza dubbio ritengono più profittevole sganciarsi progressivamente dal resto d’Italia per un’integrazione più profonda verso la Germania o la Francia, in modo da migliorare e rendere più solide le proprie catene del valore, ma in ciò non può essere letto un “localismo” da contrapporsi alla “casa europea”, ma anzi la piena espressione di quelle tendenze insite negli indirizzi economici dell’UE che hanno portato intere parti del nostro paese a divenire il “cortile di casa” di Parigi e Berlino.
L’opposizione del Partito Democratico all’autonomia differenziata non tocca la sostanza politica del progetto, ma risponde a esigenze elettorali e a preoccupazioni, riscontrabili anche negli inviti alla prudenza della Von der Leyen, che i costi sociali possano innescare sommovimenti imprevisti. D’altronde, sia Bonaccini[1] che la Schlein[2], in numerose occasioni, hanno affermato il proprio supporto all’autonomia differenziata, ma non a “questa” autonomia differenziata.
Ciò non avviene per miopia politica. E’ perfettamente nota la traiettoria in cui si inserisce il ddl Calderoli, ma questa non può essere messa in discussione né dal centrodestra, né tantomeno dal centrosinistra. Essendo questi due raggruppamenti parimenti espressione del potere coloniale euro-atlantico nel nostro paese, è impossibile sperare che da loro, o dalle loro collaterali galassie movimentiste, possa venir fuori una qualche opposizione strutturata e sincera all’autonomia differenziata e, più in generale, all’operazione di balcanizzazione dell’Italia. Questa è possibile unicamente se individua correttamente le spinte al regionalismo italiano come parte delle più grandi spinte al federalismo europeo, rivolte all’inquietante orizzonte di un’unione che vada “da Los Angeles a Lvov”, come lascia intravedere il ruolo preparatorio di istituzioni come l’Atlantic Council e la stessa natura socio-economica del Trattato dell’Atlantico del Nord.
Il riconoscimento del ruolo prioritario della lotta all’egemonia imperialista statunitense, e quindi il sostegno alla costruzione di un mondo multipolare e di una comunità umana dal futuro condiviso, è ancora una volta la cartina tornasole che permette di separare chi sinceramente lotta per la giustizia sociale e l’indipendenza nazionale e chi, furbescamente, sventola una bandiera col preciso scopo di colpirla.
[1] https://www.ansa.it/trentino/notizie/2023/01/31/bonaccini-pd-si-allautonomia-ma-non-quella-di-calderoli_99b8e2c0-b09e-445f-9405-92ce885f8f7d.html
[2] https://www.ansa.it/campania/notizie/2023/07/15/schlein-a-napoli-pd-con-una-voce-sola-dice-no-allautonomia_40dba1f0-0f7b-4898-ae0d-e6426aa15184.html