Il bluff del “piano della vittoria” irrompe nelle elezioni Usa

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Il bluff del “piano della vittoria” irrompe nelle elezioni Usa


di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico

 

Dunque Vladimir Zelenskij, non pago della sceneggiata svizzera tenuta lo scorso giugno e dei suoi risultati a dir poco ridicoli, continua a parlare di un “secondo summit di pace”, da tenersi non oltre novembre; così, dice lui, da “mettere un punto alla guerra prima dell'autunno”, nonostante che, a oggi, non sia chiaro quale paese potrebbe ospitare l'evento e quali stati abbiano intenzione di parteciparvi.

Chiaro invece che, a dispetto dei toni ultimativi dell'ex presidente ucraino sulla “necessaria” partecipazione russa, «altrimenti continuiamo la guerra», Mosca ha da tempo dichiarato di non vedere le condizioni per prendervi parte. Questo, a differenza - stando alle parole di Zelenskij sulla partecipazione al “summit” di «qualsivoglia rappresentanti» russi - di altre figure, considerate “traditori” dal Cremlino e «controparti adatte a negoziati” da Kiev, soprattutto elementi del tipo del liberale pro-ucraino Il'ja Jašin, che Kiev spera siano in grado, con non si sa quali forze, di destabilizzare la società russa e costringere Vladimir Putin «alla pace».

Tuttavia, scrive Boris Džerelievskij su news-front.su, i reali obiettivi di Zelenskij sono quelli di rendere impossibile ogni trattativa con Mosca: il “congelamento del conflitto” - del resto categoricamente escluso da tutti i suoi consigliori – significherebbe la sua fine, quantomeno politica e ogni accenno di dialogo con “traditori” e “agenti stranieri” chiuderebbe ogni più stretto vicolo a trattative col Cremlino.

Pare ormai evidente che l'obiettivo principale del “piano della vittoria”, con cui presentarsi al “secondo summit di pace”, sia quello di avere in tasca il permesso occidentale a colpire in profondità la Russia: non tanto per farlo davvero, dice Zelenskij, quanto per lanciare l'ultimatum a Mosca affinché accetti le condizioni “di pace” della junta. Ma in pochi dubitano che, ottenuto tale via libera, lui o i suoi accoliti non esiterebbero a servirsene per davvero e mirerebbero in particolare a obiettivi civili, ancora una volta per cercare di mettere la società russa in contrapposizione al Cremlino.

Resta il dubbio sulle mosse di Washington: per Biden-Harris pare vantaggioso lasciare in disparte ogni discorso sull'Ucraina (magari mandando avanti gli ascari UE) almeno fino alle elezioni di novembre. Al contrario, una escalation darebbe ora a Trump ulteriori assi per accusare gli avversari elettorali di portare il mondo alla guerra, eventualità che solo lui sarebbe in grado di scongiurare.

D'altronde, sembra che a Washington giochino a mosca cieca: chi, come la rappresentante yankee all'ONU, Linda Thomas-Greenfield, afferma di aver preso conoscenza del “piano”, giudicandolo una «proposta praticabile»; chi invece, come il responsabile affari europei del NSC, Michael Carpenter, dice che Joe Biden vedrà il “piano” solo durante l'incontro con Zelenskij previsto per il 26 settembre, ma che, in ogni caso, Biden è assolutamente deciso a sostenere l'Ucraina.

Da parte sua, il candidato repubblicano alla vicepresidenza James David Vance ha già dichiarato che il conflitto può essere risolto solo attraverso concessioni territoriali alla Russia. In altre parole, l'Ucraina deve riconoscere l'ovvio: DNR, LNR, le regioni di Zaporož'e e Kherson quale parte integrante della Russia, ciò che è in linea con l'impostazione di Vladimir Putin, che già in giugno aveva dichiarato che Mosca parteciperà ai colloqui di pace solo se l'Ucraina riconoscerà le «realtà geopolitiche».

Ma, il “piano della vittoria” è un bluff, afferma Mikhail Pavliv su Ukraina.ru e a Washington lo sanno bene. Ciò che circola tra gli insider è che l'obiettivo della “performance” di Zelenskij sia addirittura un tentativo di interferire nelle presidenziali USA, per forzare i democratici a misure estreme sull'Ucraina prima del voto d'autunno. Un tentativo, insomma, come vanno ripetendo i media russi, mutuando per l'appunto dagli yankee, da parte di Kiev, di “wag the dog”; con la differenza, non di poco conto, che l'ex guitto (e dal 21 maggio ex presidente ucraino) sembra aver assorbito il famoso “spirito pratico americano” (Stalin) su cui gli yankee basano da sempre i propri passi: solo, lo ha assorbito al contrario, forse confondendosi, per l'appunto, tra il cane e la coda.

Tra i ras della junta sanno bene che c'è una crescente spaccatura tra USA e Europa sul coinvolgimento ucraino e che si fanno più forti le voci avverse (evitiamo qui di dilungarci sul “piano di pace” del polacco Radoslaw Sikorskij, cui abbiamo già accennato e su cui torneremo nei prossimi giorni) a una escalation del conflitto: se si arrivasse a un cessate il fuoco, per Kiev significherebbe dover tenere le presidenziali annullate a maggio da Zelenskij e le prospettive per lui e il suo consigliori Andrej Ermak non sarebbero rosee. Da qui le pretese ultimative della junta, lanciate a destra e a manca.

Perché, a dirla con The American Conservative, il “piano della vittoria” non ha nulla in comune né con la vittoria né con un piano di negoziazione e i suoi punti somigliano più a un elenco di richieste che a un piano d'azione. Tanto più, scrivono gli americani, che lo stesso Zelenskij, con l'attacco su Kursk, ha annullato ogni possibilità di negoziato con Mosca per por fine agli attacchi alle strutture energetiche di entrambi i paesi e ha reso improbabili i negoziati per una soluzione pacifica del conflitto.

Così che, stando all'americana Newsweek, che giudica addirittura fantasioso il “piano della vittoria”, negli ultimi mesi Kiev avrebbe intensificato i preparativi per possibili colloqui in vista di un previsto cambiamento della politica statunitense dopo le  presidenziali di novembre. Durante l'incontro con Biden, Zelenskij dovrebbe chiedere garanzie di sicurezza che impegnino  la Casa Bianca più di quanto questa non sia disposta a sbilanciarsi sul momento.

Non sarà forse il dormiente Joe a ricordare immediatamente al capo-golpista quale sia il suo vero posto sulla carta politica mondiale e quale quello degli interessi USA: se ne incaricheranno gli avvenimenti e i reali poteri che decretano le scelte delle amministrazioni statunitensi.

Perché, come scrive il politologo ucraino Rostislav Ishchenko su Ukraina.ru, Zelenskij è quello che si intende per «americano ideale. Quasi» e che si ispira a due soli principi: gli amici rimangono tali solo finché servono e, soprattutto, in ogni situazione, alzare sempre la posta in gioco, per far lievitare i costi dell'avversario a tal punto che questo decida che sia più conveniente cedere, che poi è tutt'oggi il principio ispiratore yankee fin dalla guerra d'indipendenza contro la Gran Bretagna. Se comporta poco dispendio massacrare i nativi d'America o battere i deboli vicini nel continente americano, ecco che nelle guerre con avversari forti, gli USA intervengono solo nel finale, quando il nemico è sufficientemente esaurito perché la vittoria arrivi a costo zero, per poi sostenere di aver dato un contributo decisivo alla vittoria: come nella Seconda guerra mondiale.

Ecco, dice Ishchenko: Zelenskij era sicuro che il principio di alzare la posta avrebbe funzionato anche nel caso ucraino, che Washington, forte della leggenda del 60% del PIL mondiale in mano all'Occidente, avrebbe alzato la posta fino a mettere in ginocchio la Russia e che, dunque, Kiev si stava così unendo ai futuri vincitori. Aveva trascurato solo qualche particolare: primo, che si stava mettendo in guerra contro una superpotenza nucleare e, secondo, che persino gli USA alzano al massimo la posta in gioco solo nei momenti cruciali, mentre escono malconci, in tutta tranquillità, da conflitti privi di influenza sugli equilibri strategici mondiali. La sconfitta in Viet Nam assestò un duro colpo al prestigio internazionale yankee, ma non aveva messo in discussione le basi del dominio americano e non era dunque più necessario sostenere ulteriori costi.

Oggi, il confronto con la Russia non è certo la guerra del Viet Nam; ma se oggi a Kiev si credeva (come forse lo credevano a Saigon) che gli yankee non li avrebbero abbandonati, significa che hanno dimenticato il principio base americano, sopravvalutando la propria importanza per i loro padroni. Ucraina o non Ucraina, la guerra USA contro la Russia non finisce qui: Washington ha interesse a far durare più a lungo l'agonia di Kiev, senza però aumentare i costi politici e militari di mantenimento dell'Ucraina.

Zelenskij ha “dimenticato” il punto principale: è l'Ucraina a dover sacrificarsi per gli USA, e non il contrario. Se al momento Washington decide che sia più vantaggioso congelare un conflitto che sta costando troppo, in attesa di trovare un nuovo vassallo da arruolare nella guerra contro gli avversari della potenza yankee, non saranno certo gli ultimatum di Kiev a commuovere il malvagio zio Sam.

Fabrizio Poggi

Fabrizio Poggi

Ha collaborato con “Novoe Vremja” (“Tempi nuovi”), Radio Mosca, “il manifesto”, “Avvenimenti”, “Liberazione”. Oggi scrive per L’Antidiplomatico, Contropiano e la rivista Nuova Unità.  Autore di "Falsi storici" (L.A.D Gruppo editoriale)

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