Il Cile brucia ¡Que viva Chile!

La democrazia neoliberale cilena non può imporsi senza la violenza

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Il Cile brucia ¡Que viva Chile!



di Clara Statello
 

Il paese più occidentale dell'America Latina. Il paese più ricco. Il paese più democratico. Il paese con il Pil più alto dopo il Messico. Così i sostenitori della tesi "la dittatura di Pinochet è stato un passaggio necessario" per la democrazia dipingono il Paese andino.


Dimenticano di specificare che il Cile è il Paese con il maggior indice di diseguaglianza al mondo. Dimenticano la questione Mapuche, di un popolo deliberatamente vessato dal governo centrale. Dimenticano di raccontare che in Cile tutto è privato e tutto e caro. L'acqua, le strade, i parchi, le foreste e persino il mare, le montagne e i vulcani. Omettono di dire che a fronte di un costo della vita altissimo i lavoratori ricevono un salario che va da 500 a un tetto massimo di 1000 euro al mese per 45 ore a settimana sulla carta. Le ore effettive sono di più.


In Cile i bambini muoiono perché non possono permettersi un trapianto. Le donne devono firmare una cambiale per entrare in una clinica a partorire. Negli ospedali pubblici lavorano solo studenti di medicina, incapaci di realizzare una diagnosi e un buon numero di persone stenta a saper risolvere una semplice sottrazione matematica, perché le scuole pubbliche sono inefficienti e quelle private sono esclusive.


Le primizie cilene, esportate in tutto il mondo, non sono alla portata del suo popolo, che non può permettersi di mangiare avogado, chirimoia, ribes e mirtilli e comprare i pregiati vini importati in tutto il modo. Il popolo, alla sera, stipato in piccole casette dagli affitti altissimi o in baracche costruite con legno e compensato, senza fognatura, acqua calda e riscaldamenti, mangiano pane e burro con the, riso, uovo e prosciutto e formaggio di scarsa qualità.


I cantori della democrazia cilena non ci dicono che sul mercato della Vega di Santiago e persino di Sant'Antonio o Valparaiso, viene venduto il pesce marcio perché le acque sono date in concessione a sette famiglie che gestiscono l'intera pesca nazionale, e in una situazione di oligopolio non hanno interesse a portare sul mercato un prodotto di qualità.


Questa è la democrazia a cui ha portato la transizione cilena pinochettista. Una democrazia che ha bisogno di violentare e umiliare ogni giorno per potersi riprodurre. Che tratta il suo popolo come esseri umani di serie B. Perché non è nata sulle ceneri della dittatura, ma è il prolungamento stesso della dittatura pinochettista. Che adesso indossa un vestito migliore.


L'attuale Cile è fondato sulla stessa costituzione adottata dalla junta militare, ha gli stessi padroni, lo stesso modo di produzione e la stessa forma di sfruttamento e miseria. La ricchezza prodotta è ripartita fra le elite, che vivono nella zona est di Santiago, da Piazza Italia alla Cordillera, in quartieri esclusivi separati dal mondo plebeo con una robusta recinzione e vigilantes armati. Se non c'è più lo stesso livello di repressione, se non ci sono i desaparecidos e gli ejecutados è perché il livello di conflittualità sociale, o meglio l'opposizione sociale è stata completamente annientata e ciò che resta è disperso, frammentato e ancora sotto shock.


Chi osa protestare, e le proteste in Cile sono quasi quotidiane anche se la loro eco non travalica il confine, viene represso dai caranineros con la violenza di idranti e gas lacrimogeni. O a volte semplicemente viene ucciso o scompare.


Ma oggi qualcosa è cambiato. I militari per le strade, il coprifuoco e la dichiarazione dello stato d'emergenza, ci dicono che il Cile ha tolto il vestito buono della democrazia e ha indossato di nuovo la divisa. Perché la democrazia neoliberale cilena non può imporsi senza la violenza, senza la restrizione delle libertà e dei diritti individuali. Lo Stato, sorto dal golpe fascista dell'11 settembre e dai massacri al Estadio Nacional e al Quartel Terranova, non può riprodursi senza stuprare il suo popolo.


Gli studenti santiaghini, forse senza avere neanche troppa consapevolezza di quello che facevano bloccando le entrate delle stazioni metro e lasciando passare i viaggiatori senza biglietto, non si sono semplicemente ribellati contro il carovita della capitale, ma si sono collocati sulla stessa strada di chi sino agli anni '90 ha resistito al regime pagando con la vita.


Pinera e la Bachelet, anziché dare lezioni di diritti umani e democrazia a Maduro, avrebbero dovuto occuparsi della miseria e della perpetua ingiustizia a cui hanno costretto il popolo del Cile. Adesso l'incendio si è propagato per il paese. Brucia la metro di Santiago e brucia il palazzo dell'Enel. Brucia Maipù e l'Alameda. Bruceranno Valparaiso e Sant'Antonio e brucerà il sistema di oppressione che ha condannato un popolo orgoglioso a una vita miserabile. Il popolo ha alzato la testa e ha fame di dignità ¡Que viva Chile!

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