Il Fattore "I"

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Il Fattore "I"


di Francesco Erspamer

Nel 1979, sul Corriere (allora giornale conservatore ma affidabile, non l’ennesimo strumento propagandistico delle multinazionali), il grande giornalista Alberto Ronchey (allora i grandi giornalisti erano parecchi, non uno o due) inventò il termine “fattore K” (da Kommunizm) per spiegare la situazione della politica italiana, bloccata a suo dire dalla presenza di un forte partito antisistema come il PCI, legato all’URSS. 

Era un’interpretazione scaltra, da vero liberale e atlantista che mirava a importare in Italia il bipolarismo all’americana, per cui agli elettori sarebbe stata offerta solo la scelta fra un capitalismo selvaggio e un capitalismo dal volto umano, quest’ultimo utile per far pagare i danni del primo ai cittadini, in attesa delle condizioni per ricominciare il saccheggio; con l’ulteriore vantaggio di allontanare la gente dalla politica e alimentare il qualunquismo. È ciò che accadde con la seconda repubblica: una situazione a cui i miliardari italiani e le multinazionali straniere vogliono assolutamente tornare dopo l’arretramento provocato dall’ingresso in campo del terzo incomodo, il M5S.

In ogni caso Ronchey aveva torto: il fattore K era semplicemente la conseguenza di un ben più duraturo fattore che chiamerei “fattore I”, in cui la “I” sta per “individualismo”. In Italia, come peraltro negli Stati Uniti, un reale ricambio è difficile perché il 40% almeno della popolazione resta sempre e comunque, qualunque cosa accada, chiuso nel suo egoismo (nel suo “particulare” diceva già Guicciardini nel 500): per interesse o per superficialità o per grettezza. E purtroppo non si tratta di tradizionalismo, conservatorismo o nazionalismo, il che sarebbe comprensibile o addirittura auspicabile: a questi italiani importa soltanto la possibilità di fare quello che gli pare e sentirsi così superiori agli altri, senza alcun vincolo di solidarietà e senza alcun obbligo di informarsi, ragionare. “Noi le mascherine non ce le metteremo mai!”, urlano i giovani libertari in questi giorni, imitando la destra texana. Se fossero più colti citerebbero il motto degli squadristi, “me ne frego”; che allora però era una provocazione mentre oggi fregarsene è un diritto fondamentale, naturale, ovvia conseguenza di una visione della vita appiattita sull’immediato presente e basata sul culto del sé, del denaro, del successo, del divertimento. 

Così si spiega il ribaltone di Salvini di un anno fa, folgorato dal trumpismo sulla via del Papeete: basta con populismo e patriottismo, che non piacciono alla finanza globalista e ai loro media; la strategia vincente, si è accorto il leghista, è lo sdoganamento delle peggiori pulsioni egoistiche, edonistiche e consumistiche. Disgraziatamente la fascista immaginaria Meloni lo ha seguito su quella strada, a contendergli il 40% bloccato dal fattore I.

Bisogna stare attenti: basta che un 10% si sposti in quella direzione, per disattenzione, stanchezza o disinformazione, e l’americanizzazione dell’Italia verrà completata.

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