Il Governo Meloni e l’Unione Europea: da odio ad amore?

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Il Governo Meloni e l’Unione Europea: da odio ad amore?

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di Emiliano Gentili e Federico Giusti

 

Quando parliamo del Piano strutturale di Bilancio del Governo Meloni e dei documenti ad esso allegati ci riferiamo in sostanza alle strutture portanti della prossima manovra di Bilancio.

Il piano strutturale di Bilancio

Leggiamo della necessità di compiere azioni comuni per rafforzare la resilienza economica e sociale, sostenere la crescita dei ritardi del sistema italico (ribattezzati inadeguatezza nell’adozione delle nuove tecnologie). Paradossalmente, vista la sanità al collasso, il Governo ammette che il nostro Paese risulta particolarmente esposto all’eventualità di nuove pandemie, rispetto alle quali le popolazioni più anziane sono mediamente più fragili.

Non mancano i riferimenti alla rivoluzione digitale e all’economia green. Si capisce fin da subito che i soldi a disposizione saranno comunque pochi e tali da  rinviare  il piano di salvaguardia delle aree a rischio ecologico,

L’Ue ha concesso all’Italia 7 anni per rientrare nei parametri europei del rapporto tra spesa e Pil e la contropartita richiesta si evince da numerosi passaggi del testo. Per esigenze di sintesi ne menzioniamo solo uno:

Una delle priorità per sostenere la crescita è incentivare e sostenere l’espansione delle aziende europee, soprattutto nel settore tecnologico. Favorire la crescita delle aziende permette di investire di più in ricerca, sviluppo e innovazione tecnologica, stimolando la creazione di posti di lavoro e riducendo il divario di innovazione con i partner internazionali. Le aziende più grandi hanno anche maggiore capacità di competere sui mercati internazionali, attrarre investimenti e influenzare gli standard globali, particolarmente cruciali nell’era digitale e dell’innovazione. Per raggiungere questi obiettivi, è fondamentale che l’UE e gli Stati membri adottino politiche mirate che facilitino l’accesso al capitale privato, promuovano partenariati pubblico-privati e creino un ambiente regolatorio favorevole alla crescita sostenibile delle imprese.

Mentre si continua a promettere tasse piatte sempre più estese per i lavoratori autonomi , il documento programmatico ammette la necessità e l’urgenza di innovazione  tecnologica delle imprese, stimolando le fusioni societarie (è immaginabile la perdita di posti di lavoro che seguirebbe una ristrutturazione industriale del genere), attivando politiche atte alla svendita del patrimonio pubblico e riducendo i requisiti normativi per gli investimenti, l’utilizzo delle nuove tecnologie, la concessione di licenze, la collaborazione pubblico-privato. Tutto ciò per armonizzare la legislazione italiana – tuttora relativamente attenta a stabilire clausole normative di vario tipo a salvaguardia del tessuto socio-economico e democratico – con quella del grosso degli altri Paesi europei e rendere l’ecosistema europeo più attrattivo per gli investimenti.

E non mancano gli obiettivi comunitari, quali completare la doppia transizione verde e digitale, garantire la sicurezza economica e militare e promuovere l’innovazione e la ricerca per mantenere o acquisire un vantaggio competitivo nel panorama tecnologico globale.

Il “vantaggio competitivo” a nostro parere è pura propaganda, ma indica comunque che Meloni si stia scoprendo più draghiana del precedente Presidente del Consiglio. E a conferma di quanto scritto rinviamo a un ulteriore passo assai esemplificativo:

L’Unione europea si trova, dunque, ad affrontare un periodo decisivo in cui la cooperazione e l’integrazione economica sono più cruciali che mai per il raggiungimento delle priorità comuni che sono state definite. In questo contesto, il recente rapporto presentato da Mario Draghi su ‘Il futuro della competitività europea’ ha messo in luce i gap in termini di innovazione e produttività dell’Unione europea rispetto a Stati Uniti e Cina, richiamando l’urgenza di interventi coordinati da parte degli Stati membri su tre aree prioritarie: innovazione (con focus sulle tecnologie avanzate e sul potenziamento del capitale umano), decarbonizzazione (energia e transizione climatica) e sicurezza (anche attraverso accordi commerciali preferenziali, investimenti in settori critici selezionati e partenariati industriali).

Queste sono alcune delle premesse con le quali si apre il confronto parlamentare.

L’obiettivo europeista e atlantico della Meloni

L’obiettivo della manovra economica di fine 2024 non è solo quello di rispettare alla lettera i nuovi vincoli Ue, con il ricorso a quasi 52 miliardi di deficit aggiuntivo in tre anni, ma anche perseguire la strategia di sviluppo economico-produttivo elaborata dalla Commissione.

Dunque, sotto la supervisione europea si sceglie non solo di accrescere il deficit ma anche di tagliare innumerevoli spese – non quelle militari, destinate probabilmente a superare anche i vincoli comunitari imposti ad altri capitoli di bilancio –, con ripercussioni negative sulla politica salariale e sul welfare.

La domanda (senza risposta) è se la popolazione italiana possa permettersi di subire ulteriori sacrifici in termini di riduzione della spesa pubblica e del potere di acquisto di salari e pensioni.  La foglia di fico del taglio al cuneo fiscale serve a nascondere politiche di austerità salariale, come si evince dalla proposta governativa di rinnovare i contratti del Pubblico impiego con aumenti inferiori di due terzi al reale aumento del costo della vita.

Se si considera infine la recente revisione al ribasso delle stime sul Pil, le speranze di vedere anche solo timidi accenni di politiche sociali da parte di questo Governo possono essere del tutto abbandonate, qualora qualcuno le avesse nutrite.

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