Il loro grido è la mia voce

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Il loro grido è la mia voce

 

di Patrizia Cecconi - Pressenza

E come potevamo noi cantare, con il piede straniero sopra il cuore”, scriveva Salvatore Quasimodo durante l’occupazione nazista di Milano nella sua poesia “Alle fronde dei salici”.

E invece, con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle strade o schiacciati dalle macerie dei bombardamenti o sotto i cingoli dei carrarmati con dichiarata goduria degli assassini,  poeti e poetesse palestinesi  non hanno smesso di scrivere, di “cantare” il dolore, l’ingiustizia, l’indifferenza e il sostegno dei potenti verso i carnefici.

Il lamento d’agnello dei fanciulli” o “l’urlo nero della madre che andava incontro al figlio“ assassinato, che nei versi di Quasimodo fermavano la penna ai poeti, non hanno fermato le tastiere che, compatibilmente con i tagli di energia elettrica, hanno permesso a queste voci di uscire dalla gabbia di Gaza  per raggiungere quel pezzo di mondo che non ha perso umanità e che rilancia il loro grido.

L’editore Fazi ha raccolto quel grido e ha pubblicato un’antologia di scritti di dieci autori e autrici nel libro “Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza” curato da A. Bocchinfuso, M. Soldaini e L. Tosti in uscita in questi giorni in tutte le librerie. Il volume è arricchito dalla prefazione di Ilan Pappé e da due importanti e toccanti interventi di Susan Abulhawa e di Chris Hedges. Anche l’introduzione e la nota dei curatori e del traduttore arabo aggiungono elementi importanti  e coinvolgenti a questa raccolta che rappresenta la forza della poesia resistenziale, la forza della parola che Israele non è mai riuscito a spegnere nonostante l’orrore dei suoi crimini. Quella parola di cui Israele ha sempre avuto timore tanto che in  passato il generale  Moshé Dayan  convocò la poetessa Fadwa Tuqan per dirle che i suoi versi erano più pericolose di dieci fedayyin, come ricordato in una pagina del libro. 

Quei versi erano  pericolosi perché esponevano Israele, col suo mantello di colpe, in bella vista di fronte a un mondo istituzionale che, sebbene filoisraeliano, era meno complice, meno colluso, meno finanziatore di raccapriccianti  e impuniti crimini di quanto non lo sia il mondo istituzionale attuale supportato, ça va sans dire, dal mainstream mediatico che protegge il carnefice garantendo “immunità ai responsabili del genocidio di Gaza” come affermato da Ilan Pappé.

Questa raccolta comprende testi prevalentemente scritti dopo il 7 ottobre 2023. Non tutti gli autori potranno vederne la pubblicazione perché alcuni di loro sono  finiti nella macchina stritolatrice del genocidio israeliano, come Heba Abu Nada o Refaat Alareer. Gli altri, al momento della pubblicazione sono ancora vivi e ancora affidano come possono, al web, i loro pensieri.

Fare poesia sapendo che forse non finirai di scrivere perché un cecchino si divertirà a spararti in faccia o un drone ti farà bruciare vivo nella tua tenda “significa  abitare nel cuore di un bambino dilaniato da una bomba” leggiamo nell’introduzione dei curatori. Gli stessi aggiungono che per comprendere questi testi “occorre scegliere da che parte stare” e allora riconoscerli come testimonianza estrema di chi, tra la fame che uccide se non l’hanno già fatto le bombe o i carrarmati, tra continue deportazioni da una tendopoli all’altra, in mezzo alla morte di persone amate e di persone sconosciute, trova ancora la forza di usare la parola per comunicare col mondo il diritto alla vita.

Non hanno appeso ai salici le loro cetre, i poeti gazawi, e anche nella poesia di  Hend Joudah che apre la raccolta, troviamo uno struggente susseguirsi di versi che chiedono scusa per essere ancora viva. “Cosa significa essere al sicuro in tempo di guerra? Significa vergognarsi … del caso che ti ha lasciato ancora in vita!”

“Una madre a Gaza non dorme… non è come tutte le madri, fa il pane con il sale fresco dei suoi occhi… e nutre la patria con i suoi figli” scrive invece Ni’ma Hassan. E ancora, a celebrare il senso della parola poetica nonostante la morte in agguato, Yousef Elqedra scrive “Posso scrivere una poesia/ con il sangue che sgorga/ con le lacrime, la polvere del mio petto…. “ e la poetessa  Dareen Tatour , imprigionata, in isolamento, senza carta né inchiostro, dirà “Il cuore scrive, memorizza  i versi/La poesia in prigione è luce e fuoco…. È nutrimento/è acqua e aria”, mentre Marwan Makhoul in “Versi senza casa” scrive “e anche tu, poesia mia, morirai sicuramente/eppure scriverò/e possa tu vivere anche solo un po’/dopo di me.”

Quest’antologia, scrivono i curatori, forse troppo fiduciosi circa il comune sentire della maggioranza degli ebrei della diaspora, è rivolta anche a loro, invitandoli a resistere insieme ai palestinesi “anche con la poesia, finché il mondo non saprà leggere la tragedia immane di Gaza”.  È fantastico cogliere la fede dei curatori in un miracolo, ma fino ad oggi la poesia resistenziale palestinese, di cui questo libro è prova, mentre ha dato forza al popolo sotto oppressione, è stata ignorata o dileggiata da chi sostiene gli oppressori, nella fattispecie la maggioranza – per fortuna non la totalità – degli ebrei sparsi nel mondo. 

Un piccolo volume (141 pagine) già prezioso ma ulteriormente impreziosito dalle parole che Chris Hedges rivolge idealmente a Reefat Alareer, assassinato insieme alla sua famiglia non perché fosse un combattente, non lo era, anzi predicava la non violenza, ma perché usava la scrittura, “l’ultima resistenza che abbiamo contro le pratiche disumane e le ingiustizie che sfigurano la storia dell’umanità” come scriveva E. Said e come ricorda nella sua lettera C. Hedges. E, ancora, le pagine di Susan Abulhawa che penetrano come un coltello nella sensibilità del lettore elencando le infamie, le torture, le violenze commesse dall’Idf  e che si chiudono con una sintesi che è un magistrale atto d’accusa contro la depravazione del colonialismo sionista. “…perché il sionismo è una piaga del giudaismo, e in effetti dell’umanità”.

“Leggete queste poesie con l’anima”, scrive il traduttore arabo Nabil Bey Salameh, “Che siano per voi un ponte verso la comprensione, un inno alla dignità e un ricordo che la bellezza, anche nelle situazioni più difficili, può ancora fiorire”.
Per ogni copia venduta l’editore Fazi verserà 5 euro ad Emergency per le attività di assistenza medica che fornisce ancora  nella Striscia di Gaza nonostante i continui omicidi di medici e paramedici che IMPUNEMENTE Israele seguita a  commettere.

Patrizia  Cecconi

Patrizia Cecconi

Patrizia Cecconi. Laureata in Sociologia presso la Sapienza di Roma, tiene per alcuni anni seminari sulla comunicazione deviante. Successivamente insegna negli Istituti superiori per 25 anni. Interessata
all'ambiente e ai diritti umani ha pubblicato e curato diversi libri su tali argomenti e uno in particolare sulla Palestina esaminata sia dal punto di vista ambientale che storico-politico. Ha presieduto per due mandati
l'associazione Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese di cui ora è presidente onoraria. Per circa 12 anni ha trascorso diversi mesi l'anno in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, occupandosi di progetti e testimonianze dirette della situazione. Collabora con alcune testate on line e un paio di riviste cartacee.

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