IL MARXISMO E L'ERA MULTIPOLARE - OTTAVA PARTE

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IL MARXISMO E L'ERA MULTIPOLARE - OTTAVA PARTE

 

Come ogni Venerdì, ecco l'ottavo dei 9 appuntamenti dove vi proporremo un importante lavoro di analisi e approfondimento di Leonardo Sinigaglia dal titolo "Marxismo e Multipolarismo".

PRIMA PARTE

SECONDA PARTE

TERZA PARTE

QUARTA PARTE

QUINTA PARTE

SESTA PARTE

SETTIMA PARTE

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di Leonardo Sinigaglia

8-L’Italia: paese semicoloniale.

L’apparato di controllo e repressione (preventiva e non) costruito dagli Stati Uniti in Italia a partire dal 1943 è significativamente più grande e influente di quelli speculari costruiti in altri paesi subalterni a Washington. Per questo motivo l’Italia assume più le caratteristiche di una semi-colonia, di un protettorato rispetto a quelle di un paese sottomesso ma dotato ancora di certi spazi d’autonomia come, per esempio, la Francia. L’Italia non può essere considerata un paese imperialista: è chiaro che il nostro paese faccia parte del campo imperialista, ma come semi-colonia di Washington e della sua egemonia.

Nella sua storia contemporanea l’Italia ha attraversato una sua fase da imperialista, per quanto caratterizzata sempre da una (parziale) subordinazione al capitale straniero, prima a quello te tedesco[1], poi a quello anglo-francese. L’arretratezza relativa del sistema produttivo e la debolezza della grande borghesia portarono a un “imperialismo in miniatura”, capace unicamente di ottenere il controllo di zone residuali del continente africano, senza peraltro riuscire a trarre vantaggi significativi dallo sfruttamento di queste. Non è un caso che la grande borghesia nostrana, per mantenere il controllo del paese, sia stata tra le prime nel mondo occidentale a dover ricorrere agli strumenti del fascismo, testimoniando la particolare debolezza delle istituzioni liberali italiane e della classe capitalistica, che solo per gli errori soggettivi del movimento socialista italiano riuscì a rimanere al suo posto.

Nonostante ogni fattore di debolezza, agli inizi del secolo scorso l’Italia si poteva definire un paese imperialista, controllata da un capitale monopolistico dedito alla predazione internazionale. Come è possibile dunque parlare oggi di Italia “semi-coloniale”? Da una prospettiva marxista ciò non è solo possibile, ma fondamentalmente corretto, perché si fonda sull’analisi della realtà attuale e dei processi di trasformazione che hanno investito il nostro paese nell’ultimo secolo.

La Storia non è l’eterna ripetizione del medesimo, ma processo dialettico di trasformazione, caratterizzato da uno “stato di cambiamento e movimento perpetui, di rinnovamento e di sviluppo incessanti, dove sempre qualche cosa nasce e si sviluppa, qualche cosa si disgrega e scompare[2]. Può accadere che qualcosa muti nel suo opposto e che, a seguito dell'accumularsi di cambiamenti quantitativi, un grande sconvolgimento qualitativo trasformi in maniera radicale un soggetto, e quindi la relazione tra questo e gli altri. Ciò non rappresenta un evento eccezionale, ma anzi un fenomeno caratterizzante del processo dialettico, in quanto ogni contraddizione necessariamente prevede anche l’identità tra i due termini che la compongono, per quanto relativa e transitoria: “L’identità degli opposti  [...] è il riconoscimento (scoperta) delle tendenze contraddittorie, mutuamente esclusive, opposte in tutti i fenomeni e processi della natura (comprese la mente e la società). [...] L’unità (coincidenza, identità, equipollenza) degli opposti è condizionata, provvisoria, transitoria, relativa. La lotta degli opposti che si escludono reciprocamente è assoluta, come sono assoluti lo sviluppo, il movimento[3].

Ogni contraddizione, , permette che i due termini, a causa del loro rapporto particolare tra opposizione e identità, influenzandosi vicendevolmente e sviluppandosi, possano cambiare di posizione relativa e variare nella loro natura.

Ogni processo vede variazioni quantitative portare, accumulandosi, a profondi salti qualitativi. Questi due stati del movimento si possono dire di riposo relativo e di cambiamento evidente: “Ambedue sono dovuti alla lotta reciproca dei due elementi contraddittori, contenuti nella cosa stessa. Quando una cosa nel suo movimento si trova nel primo stato, subisce soltanto modificazioni quantitative e non qualitative e perciò si manifesta in stato di riposo apparente. Quando invece una cosa nel suo movimento si trova nel secondo stato, poiché le modificazioni quantitative che essa ha subito nel primo hanno raggiunto un punto massimo, si verifica la dissoluzione della cosa come entità, avviene un cambiamento qualitativo e di conseguenza la cosa appare in stato di cambiamento evidente. L’unità, la coesione, l’unione, l’armonia, l’equipollenza, la stabilità, la stagnazione, il riposo, la continuità l’equilibrio, la condensazione, l’attrazione, ecc., che noi osserviamo nella vita quotidiana, sono manifestazioni delle cose che si trovano nello stato di modificazioni quantitative, mentre la dissoluzione dell’unità, la distruzione dello stato di coesione, unione, armonia, equipollenza, stabilità, stagnazione, riposo, continuità, equilibrio, condensazione, attrazione, ecc. e il loro passaggio allo stato opposto sono le manifestazioni di cose che si trovano nello stato delle modificazioni qualitative, delle modificazioni che avvengono con il passaggio da un processo all’altro. Le cose mutano continuamente passando dal primo al secondo stato e la lotta degli opposti esiste in entrambi gli stati, ma la soluzione della contraddizione si compie durante il secondo stato. Ecco perché l’unità degli opposti è condizionata, temporanea, relativa, mentre la lotta degli opposti che si escludono reciprocamente è assoluta[4].

Una classe subalterna può divenire classe dominante,  un modo di produzione avanzato può trasformarsi in arretrato, un paese indipendente può trasformarsi in una colonia, in un protettorato, in una dipendenza straniera. Questa dialettica storica sta alla base del divenire ed è ciò che concretamente caratterizza lo stesso scorrere del tempo, che è inevitabile e oggettivo processo di trasformazione. Ciò ha profonde ricadute sul piano politico, poiché senza possibilità di trasformazione di qualcosa nel suo opposto sarebbe semplicemente impensabile qualsiasi forma di mutamento delle condizioni materiali, con il risultato di rendere vana qualsiasi speranza ed eterna qualsiasi gerarchia sociale, qualsiasi oppressione, con un'umanità ineluttabilmente inchiodata a un eterno presente in attesa, forse, dell'intervento salvifico di qualche ente esterno alla realtà materiale. Riconoscere la capacità dell’Umanità di intervenire in senso positivo sulle proprie condizioni, di risolvere i problemi che si pone significa riconoscere la possibilità che qualcosa si trasformi nel suo opposto. Comprendere i meccanismi per i quali ciò avviene significa arrivare al materialismo dialettico, che mostra come “l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perchè, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione[5].

La Storia offre infiniti esempi di ciò: il capitalismo, un tempo fonte di progresso e sviluppo, si è trasformato in un ostacolo decadente e avvizzito a qualsiasi nuovo avanzamento produttivo, sociale, politico e culturale; la classe borghese, prima una classe dinamica e progressiva, si è trasformata in una classe parassitaria e reazionaria; la Cina, da paese povero e conteso tra vari gruppi imperialisti, si è trasformato grazie al Partito Comunista Cinese in un paese avanzato e moderatamente prospero, avviato alla piena realizzazione di un sistema socialista moderno; l’Unione Sovietica, a causa del nichilismo storico e dell’arretramento ideologico, è passata da essere un grande paese socialista al dissolvimento e alle devastazioni degli Anni ‘90; gli Stati Uniti si sono trasformati da una lontana colonia d'oltreoceano alla potenza imperialista egemonica, mentre ora è in corso un'inevitabile ulteriore processo che li porterà o a essere un paese "normale" tra tanti, o a scomparire per come esistono oggi; i partiti politici della grande borghesia italiana, che per diversi decenni si erano ammantati di parole d'ordine “patriottiche” e di una retorica imperialista aggressiva, si sono trasformati nei fedeli servitori di interessi stranieri, aprendo le porte al pieno controllo del nostro paese da parte degli Stati Uniti e dei vari attori minori ad essi collegati, dall'Inghilterra alla Germania, da Israele alla Francia.

La trasformazione dell'Italia da paese imperialista in semi-colonia, un'evoluzione inedita, resa possibile solo dalla particolare configurazione dei rapporti di forza venutasi a creare dopo le due guerre mondiali e dalla debolezza relativa della borghesia italiana è difficilmente contestabile ed è verificabile quotidianamente  nelle molteplici manifestazioni della subordinazione del nostro paese, grande borghesia inclusa, al potere egemonico di Washington. Ciò su cui bisogna interrogarsi è come questa, per noi tra le più importanti da definire, sia stata possibile, e, soprattutto, quali siano i grandi cambiamenti qualitativi che ne ha portato la realizzazione. Già Lenin, descrivendo la fase dell’imperialismo a lui contemporanea, notava come esistessero diverse “forme transitorie della dipendenza statale[6] risultato dello scontro tra le potenze imperialistiche che, nonostante una formale indipendenza, segnavano un diverso grado di dipendenza politica, diplomatica e finanziaria, magari non ancora giunto all’estremo della diretta dipendenza coloniale, ma comunque abbastanza acuto da qualificare il paese in questione come un protettorato di una potenza, o una semi-colonia.

Un paese indipendente, penetrato da una borghesia più potente della propria, asservito economicamente a uno Stato imperialista straniero, costretto a sottostare a logiche parassitarie e predatorie, a divenire il “cortile di casa” di altri, retto da una “borghesia compradora” del tutto connivente e subalterna a quella imperialista straniera, perde fattivamente la propria indipendenza, e si trasforma progressivamente in una colonia, passando attraverso varie “forme transitorie” e collocandosi internazionalmente nella posizione permessa dalla forza relativa della borghesia compradora locale e dalle necessità della potenza imperialista. Ciò è successo numerose volte nel corso della Storia, per esempio nel caso degli antichi Stati d’Asia e Africa, progressivamente sottomessi all’imperialismo europeo, sia quelli occidentali o “costruiti” dagli occidentali nel resto del mondo, o in quello degli Stati del Sud America, a lungo economicamente controllati dalla Gran Bretagna e poi resi a tutti gli effetti il cortile di casa di Washington, o ancora in quello dei più piccoli paesi dell’Europa del primissimo novecento, dal Portogallo alla Romania, dalla Serbia alla Bulgaria, tutti estremamente limitati nelle proprie capacità d’azione autonoma e contesi dalle potenze imperialiste tanto da diventarne, a diverse gradazioni, dipendenze.

L’Italia rappresenta un caso particolare, proprio in virtù del suo inedito cammino. Il passaggio da paese imperialista a paese semicoloniale rappresenta un unicum, ed è stato reso possibile dalla sovrapposizione di condizioni esterne ed interne. Da un lato la debolezza relativa della grande borghesia italiana, interessata più alla rendita che all’investimento produttivo e gravemente sprovvista di quell’audacia che sta alla base di qualsiasi grande impresa militare, politica o economica; dall’altro il profondo mutamento portato dal passaggio dalla fase di decomposizione degli imperialismi europei a favore di quello statunitense e della sua egemonia.

Ciò ha portato alla creazione un nuovo tipo di configurazione statale, con il mantenimento di tratti tipici di un paese imperialista (la predominanza della finanza parassitaria, il mantenimento di legami di predazione e controllo su altri paesi, il controllo economico da parte del capitale finanziario) unito a legami di subordinazione internazionale a un centro imperialista egemonico, capace di imporre la propria volontà in materia economica, militare, culturale e sulla politica estera di quel paese. Paesi come Francia e Giappone rappresentano oggi giorno perfettamente questo tipo di configurazione. L’Inghilterra si distingue per la sua autonomia relativa, più che altro dovuta a una forma particolare d’integrazione nel potere imperialista egemonico statunitense e per la forza finanziaria della City di Londra. Al contrario, l’Italia si distingue per la sua assenza di autonomia.

Sprovvista di una rete di dipendenze coloniali come quelle della Francia nell’Africa occidentale e della capacità produttiva e finanziaria del Giappone, il nostro paese vive una condizione più assimilabile a quella semi-coloniale, con una totale subordinazione a Washington che priva la nostra attuale classe dirigente di qualsiasi margine d’azione autonomo, con la relativa condanna del paese a uno stato di minorità imposta. La Germania si trova ad oggi in una fase di transizione dalla condizione francese a quella italiana, come dimostrano le eclatanti vicende del Nord Stream e l’inscalfibile volontà di proseguire nella guerra alla Russia a priori dalle conseguenze socio-economiche di questa.

La “sinistra antagonista”, incapace di formulare un’analisi coerentemente marxista e fondata sulla concreta analisi dei tempi attuali, spesso si lancia all’attacco di un preteso “imperialismo italiano”, chiamando in causa magari qualche partecipazione dell’ENI alle attività estrattive nel continente africano. Ma si tratta veramente di imperialismo? Si tratta veramente dell’indizio di una natura “imperialista” del sistema italiano attuale, della sua capacità di creare legami di subordinazione e predazione a livello internazionale? O, piuttosto, di qualche briciola che, cadendo dal tavolo, si presta anche ad essere rosicchiata dai topi, topi che potrebbero essere scacciati in qualsiasi momento con ben poca fatica e considerazione da parte dei commensali? La verità va ricercata nei fatti.

La grande borghesia italiana contemporanea, fortemente legata a quelle di Francia, Germania e Stati Uniti, paesi in cui si concentrano gran parte degli IDE italiani in uscita e dai quali provengono buona parte di quelli in entrata in Italia[7], non dispone, al contrario rispetto agli inizi del Secolo scorso, di uno Stato nazionale indipendente e politicamente da essa controllato capace di tutelarla e di assecondarne le volontà espansive.

E’ per questo che è costretta a rifugiarsi sotto la tutela di istituzioni imperiali come la NATO e l’Unione Europea, separandosi sempre più marcatamente dal contesto nazionale e dai settori medio-inferiori della borghesia nazionale. In questo senso essa diviene una “borghesia compradora” di tipo nuovo, non legata esclusivamente a un ruolo commerciale, ma impegnata per assicurare le migliori condizioni possibili per lo sfruttamento semi-coloniale dell’Italia, fondato sull’esproprio della ricchezza pubblica e privata a vantaggio del capitale monopolistico finanziario, sull’eterodirezione politica, sulla servitù militare e la negazione di qualsiasi percorso di sviluppo alternativo.

Le recenti vicende connesse al “Piano Mattei” varato dal Governo Meloni permettono, tra i numerosi casi, di smentire la retorica che dipinge l’Italia come “paese imperialista”. Se così fosse, davanti al progressivo ripiegamento francese, uno Stato italiano imperialista avrebbe subito colto l’occasione per gettarsi a capofitto nel teatro africano per tentare di saccheggiare quanto possibile e, soprattutto, di stabilire con i paesi del continente relazioni di dipendenza e subordinazione. Ma non è andata proprio così. Una manciata appena di paesi africani si è dimostrata interessata alla cooperazione con l’Italia, che, al di là delle belle parole, ha visto la sua vocazione “imperialista” arrestarsi…alle coste del Mediterraneo.

Ogni accordo con la Tunisia, partner potenzialmente strategico dopo la rottura delle relazioni energetiche con la Russia, avvenuta per ordine di Washington, è saltato per il netto rifiuto da parte della Casa Bianca. Questa infatti pretende che il presidente tunisino Saied approvi il pacchetto di riforme strutturali a base di privatizzazione e tagli allo stato sociale ordinato dal Fondo Monetario Internazionale come condizione per l’apertura di qualsiasi linea di credito, e rifiuta di consentire qualsiasi alternativo intervento europeo. Il presunto “imperialismo italiano”, visione appannata di chi riesce a malapena a balbettare qualche frase risalente ad altre epoche e scritta in altri contesti, si dimostra per quello che è: un meschino tentativo da parte della grande borghesia italiana di afferrare per sé qualche briciola, del tutto dipendente dalla volontà della Casa Bianca e dalla sua approvazione. Ben strano questo “imperialismo”!

La realtà semicoloniale del nostro paese emerge però in maniera altrettanto imponente se si tiene conto delle condizioni interne di questo. Negli ultimi dieci anni 1,3 milioni di persone hanno lasciato l’Italia. Di queste, la stragrande maggioranza è composta da giovani, spesso laureati, in “fuga” verso i paesi dell’Europa settentrionale o gli Stati Uniti dove hanno migliori occasioni di ottenere un’occupazione in linea con la propria formazione, tendenzialmente d’ambito tecnico e scientifico. Un vero e proprio salasso in cui sono attivamente impegnate università e multinazionali occidentali, che vedono l’Italia come una carcassa da spolpare, privandola di un capitale umano per cui il sistema è strutturalmente impossibilitato a creare sbocchi produttivi. Se questa cifra è quantificabile con una certa precisione, nonostante l’ambiguo stato di molti italiani espatriati ma non ancora registrati all’apposita anagrafe, è più difficile tenere conto dei pluri-miliardari investimenti predatori che negli ultimi decenni hanno permesso a fondi speculativi e squali vari dell’alta finanza di banchettare con i resti privatizzati del sistema pubblico italiano e con numerose eccellenze privati medio-grandi.

Dalla TIM, la cui infrastruttura digitale è stata svenduta alla KKR, fondo speculativo statunitense in odor di CIA, alla Magneti Marelli, passata in proprietà a un gruppo giapponese anch’esso controllato dalla KKR, passando per le numerose vicende simili a quelle della FIAT-Chrysler, con un’internazionalizzazione sinonimo di divorzio da qualsiasi investimento produttivo nel paese d’origine, o anche degli interventi volti unicamente a ridimensionare, se non eliminare, concorrenti, dalla Perugina all’Ercole Marelli. Per tacere, ovviamente, delle infinite privatizzazioni intercorse dagli Anni ’90 ad oggi, azioni alle quali tutti i governi, a prescindere dal colore, hanno sempre dato il proprio assenso, e che anche esecutivo guidato da Giorgia Meloni ha ritenuto necessarie, come lasciano intendere le parole di Tajani, che, commentando la cessione del 4% dell’ENI e la possibile privatizzazione di Poste Italiane e Ferrovie dello Stato, ha parlato di una “grande stagione di privatizzazioni” per rimpinguare le casse dello Stato.

L’Italia, materialmente in un marcato declino economico sin dal biennio 2007-2008, ben lontana dall’esistenza di “paese imperialista” che prospera sulla subordinazione di altri paesi, è condannata ormai in virtù delle imposizioni di Bruxelles ad avere come unico orizzonte la “vocazione turistica”, il convertirsi integralmente ad attrazione per i ricchi borghesi dell’Occidente, che, dalla Germania agli Stati Uniti, non aspettano altro che la bella stagione per fotografare le nostre splendide rovine e gustare i prodotti tipici, accompagnati da qualche guida sottopagata e serviti da personale precario, alloggiando in quartieri ridotti a residence per gli ospiti economicamente incompatibili con le possibilità dell’italiano medio. Uno scenario che ricorda, al limite, quello della Cuba pre-rivoluzionaria o della Shanghai in cui sui i negozi erano esposti cartelli con scritto “vietato l’ingresso ai cani e ai cinesi”. Altro che “potenza imperialista”!

La crisi pluridecennale attraversata dal nostro paese ha dato la perfetta occasione al capitale finanziario monopolistico per rafforzare la sua presa sull’economia italiana, sfruttando il venir meno delle barriere e dei controlli verificatosi a partire dagli Anni’ 80. A seguito della crisi del 2011 il settore bancario è stato particolarmente vulnerabile agli assalti internazionali. Il primo azionista di UniCredit è il fondo americano Blackrock, che ne controlla il 6,8%, mentre la banca Goldman Sachs ha una partecipazione aggregata nel capitale pari al 5,34%; gli investitori istituzionali, che compongono il 77% degli azionisti della banca, sono principalmente statunitensi (38%) e inglesi (27%)[8].

Banca Intesa Sanpaolo, la prima banca italiana per capitalizzazione, vede anch'essa una forte presenza di BlackRock, arrivato ad essere il secondo azionista nel 2020 con il controllo del 5,048% delle azioni, mentre la Goldman Sachs, che in precedenza aveva una partecipazione aggregata superiore al 6%, l’ha recentemente ridotta all’1,54%. Quote azionarie importanti, anche superiori al 5%, sono detenute da BlackRock anche in altri istituti di credito italiani, come UBI Banca e Monte dei Paschi di Siena. Ma non solo banche: BlackRock controlla, direttamente o indirettamente, quote azionarie importanti della Telecom, di Italo, della holding Azimut, della Prysmian, della Leonardo e di numerose altre aziende, anche di rilevanza strategica. L’altro grande gestore di fondi statunitense, Vanguard Group, gode anch’esso di importanti partecipazioni azionarie nelle principali banche italiane, comprese Banca Intesa, MPS, UBI Banca, Banco Popolare e BPM. Il controllo di quote azionarie significative permette a questi colossi, tra i simboli della nuova concentrazione del capitale finanziario di monopolistico, di controllare le “alture dominanti” dell’economia italiana, e influenzare le scelte politiche a favore delle privatizzazioni e di un progressivo rilassamento delle misure atte a contenere la loro prassi monopolistica.

Non è un caso che Larry Fink, co-fondatore e presidente di BlackRock, sia intervenuto al G7 in Puglia del giugno 2024. Questa penetrazione del capitale statunitense in Italia, di cui si sono dati appena una manciata di dettagli, ha influenzato l’enorme trasferimento di ricchezza verificatosi negli ultimi decenni a vantaggio degli USA, esploso in particolare dopo il 2008 con il progressivo saccheggio della ricchezza privata e pubblica degli italiani. Quella che in realtà è stata una tendenza europea diventa ben visibile se si confrontano i dati sulla ricchezza dei vari paesi. Al 2008 l’Italia possedeva il 5,6% dell’economia mondiale, circa un sesto della quota americana. Dodici anni dopo, nel 2022, l’Italia era scesa al 2.4%, una quota dodici volte e mezzo più piccola di quella americana[9].

Questo imponente collasso relativo si deve al vero e proprio saccheggio della ricchezza delle famiglie italiane, diminuita del 7,7% al netto dell’inflazione tra 2011 e 2022 a causa del progressivo venir meno delle coperture pubbliche per servizi essenziali e all’aumento delle spese. I processi di privatizzazione hanno visto in prima fila il capitale finanziario monopolistico statunitense, e l’orientamento delle politiche di ogni governo italiano hanno favorito questi sia in maniera diretta che indiretta, ossia sia svendendo quote dell’economia pubblica o imponendo vincoli e norme che renderanno inevitabili future privatizzazioni, come nel caso della recente riforma fiscale del governo Meloni o del progetto dell’autonomia differenziata, portato avanti soprattutto dalla Lega ma fondato sull’operato del centrosinistra, dalla riforma del titolo V della Costituzione del 2001 agli accordi tra Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia e il governo Gentiloni. La penetrazione del capitale statunitense è resa possibile dalla subordinazione politica del nostro paese a Washington.

Non si tratta di una semplice “influenza” che compete con altre uguali e contrarie, ma di un catalizzatore dei processi d’sservimento iniziati fin dall’European Recovery Program e dal viaggio negli USA di De Gasperi.

La totale subordinazione economica all’imperialismo statunitense non può che sposarsi a quella politica. E, dopo il Cermis, Ustica, Moro, l’Operazione Blue Moon, la pregiudiziale anticomunista imposta fin dal 1947, la Gladio, l’assassinio di Gheddafi, il ritiro dalla Via della Seta, le sanzioni alla Russia, l’invio di navi militari nel Mar Rosso e nel Mar Cinese Meridionale, le decine di bombe atomiche accatastate sotto i nostri piedi, le intercettazioni dell’NSA e l’aumento delle spese militari, prontamente sganciato dal calcolo del rapporto debito/PIL grazie alla “vittoria” del nuovo patto di stabilità e infiniti altri esempi, sarebbe insultante anche nei confronti del più imbecille degli italiani dover argomentare al fine di dimostrare ciò.

Il pilota automatico imposto al nostro paese dal 1948 è evidente a chiunque osservi la realtà italiana per quella che è, ed è anche apertamente rivendicato persino dai media e da ex-presidenti del consiglio, come Romano Prodi, che a dicembre 2023, ridendo, spiegò a Lilli Gruber come scegliere “ministri degli esteri americani e ministri dell’economia bruxellesi” fosse un qualcosa di obbligato, facendo riferimento alla “normalizzazione” del governo Meloni.

La dipendenza politica ed economica dagli Stati Uniti prova il rapporto semicoloniale con il regime di Washington, un rapporto unico anche nell’ambito dello scenario europeo, che vede comunque la totale subordinazione dei paesi del continente agli USA. Questa situazione impone ai comunisti la comprensione della natura prioritaria della lotta per l’indipendenza nazionale e permette di vedere sotto la corretta angolazione le questioni della collaborazione sociale e politica con altre forze e classi. La contraddizione tra l’imperialismo egemonico statunitense e la nazione italiana è la contraddizione principale che abbiamo di fronte, espressione particolare di quella che è la contraddizione principale a livello internazionale, quella tra l’imperialismo statunitense e la tendenza inarrestabile alla multipolarizzazione del mondo e alla democratizzazione delle relazioni internazionali. Ogni altra contraddizione è, in confronto a questa, secondaria.

Il regime internazionale di Washington è in piena decadenza e si avvia alla sua scomparsa, in un modo o nell’altro. Non c’è da aspettarsi realisticamente né dalla grande borghesia italiana, né da quella di altri paesi europei, un “sussulto” volto ad approfittare del collasso del padrone per imporre nuovamente un proprio particolare imperialismo al mondo. La Storia non è il ripetersi del medesimo, e quella stagione si è conclusa. Davanti abbiamo un nuovo scenario, inedito, segnato dalla costruzione di un mondo multipolare e di una comunità umana dal futuro condiviso, un processo guidato politicamente dal più grande partito comunista del pianeta, il Partito Comunista Cinese, e da Stati che rappresentano per ogni popolo in lotta un interlocutore affidabile e una speranza, come la Federazione Russa, l’Iran, la Corea Popolare…L’Italia non è condannata a morire con il vecchio mondo: può partecipare alla costruzione di quello nascente. Per farlo è necessaria una nuova liberazione nazionale che cacci via gli imperialisti statunitensi e le cricche di speculatori e compradores loro alleati.

E’ necessario riconquistare la nostra indipendenza, ma per muoversi politicamente in questo senso serve prima riconoscere la natura semicoloniale dell’Italia contemporanea, abbandonando qualsiasi confusione in merito e rifondando sui fatti e sul materialismo dialettico la propria visione del mondo.

[1] Basti pensare a tal riguardo al ruolo centrale che ebbe il capitale tedesco per la fondazione e la crescita di due tra le più importanti banche miste italiane, la Banca Commerciale Italiana e la Credito Italiano, passate progressivamente sotto l’orbita anglo-americana durante gli Anni ‘40 e ‘50.

[2] J. Stalin, Materialismo storico e materialismo dialettico, in Principi del Leninismo, Editori Riuniti, Roma, 1952, p. 647.

[3] V. Lenin, On the Question of Dialectics, in Collected Works, Vol. XXXVIII, Mosca, Progress, 1976, p. 358.

[4] Mao Zedong, Sulla contraddizione, in Opere-teoria della rivoluzione e costruzione del socialismo, Roma, Newton Compton, 1977, p. 241.

[5] K. Marx, Per la critica dell’economia politica, in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1966, p. 747.

[6] V. Lenin, L’imperialismo: fase suprema del capitalismo, in Opere Scelte, Progress, Mosca, 1976, p. 231.

[7] Per i dati in questione si rimanda all’elaborazione della Banca d’Italia sugli investimenti diretti esteri per paese controparte, rinvenibili sul sito dell’istituto.

[8] Dati elaborati dalla UniCredit attraverso l’analisi di numerose fonti, tra cui il libro soci, Consob "Modello 120A", dati pubblici, S&P Global shareholders analysis di Marzo/Aprile 2024, riscontrabili sul sito della banca stessa.

[9] UBS, Global Wealth Report 2023.

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