IL MARXISMO E L'ERA MULTIPOLARE - QUINTA PARTE

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IL MARXISMO E L'ERA MULTIPOLARE - QUINTA PARTE

 

Come ogni Venerdì, ecco il quinto dei 9 appuntamenti dove vi proporremo un importante lavoro di analisi e approfondimento di Leonardo Sinigaglia dal titolo "Marxismo e Multipolarismo".

PRIMA PARTE

SECONDA PARTE

TERZA PARTE

QUARTA PARTE

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di Leonardo Sinigaglia

5-Socialismo e mercato.

L’abbattimento dell’egemonismo statunitense, assetto definitivo del sistema imperialista, sarebbe impossibile senza due fattori determinanti:

  • una “nuova globalizzazione” opposta a quella basata sul Washington Consensus;
  • lo straordinario sviluppo economico, scientifico e produttivo della Repubblica Popolare Cinese.

Entrambi questi fattori chiamano in causa la riflessione sul rapporto tra socialismo ed economia di mercato. Nel Manifesto del Partito Comunista, Karl Marx e Friedrich Engels affermano che il proletariato, una volta conquistato il potere politico, dovrà adoperarlo per “strappare a poco a poco alla borghesia tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, cioè del proletariato organizzato come classe dominante, e per moltiplicare al più presto possibile la massa delle forze produttive[1]. Il carattere progressivo di tale accentramento è ulteriormente specificato nelle righe successive, in cui si individuano come sommarie norme generali l’esproprio della proprietà fondiaria, ossia la cancellazione di quel rimasuglio feudale che è la proprietà sconnessa da un utilizzo produttivo, l’introduzione di un’imposta fortemente progressiva e l’accentramento del trasporto e del credito nelle mani dello Stato, oltre che l’aumento di numero delle “fabbriche nazionali”, ossia l’ingrandimento dell’economia pubblica. Per quanto queste indicazioni non possano ritenersi né esauriente né assolute, appare chiaro come già nel 1848 per i fondatori del socialismo scientifico la rivoluzione non socialista non avrebbe portato all’immediata e generale abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Questo perché, al contrario dei socialisti utopisti e di certi radicali piccolo-borghesi, essi correttamente comprendevano il capitalismo e i suoi rapporti di produzione come storicamente determinati, e non come una sorta di “difetto morale” da correggere per raggiungere l società perfetta.

Il capitalismo è stato immensamente rivoluzionario e ha grandemente contribuito al progresso umano. Similmente, la sua parentesi storica è stata caratterizzata da terrificanti brutalità ed abusi, da violenze di portata a volte sconosciuta nei secoli precedenti. Questi due aspetti convivono dialetticamente. Le contraddizioni interne al sistema capitalista, acuendosi nel tempo, portano allo sviluppo della rivoluzione socialista. Questa permette il superamento dello stallo in cui il sistema capitalista è incappato a causa della sua evoluzione in senso speculativo e parassitario. Ma come avviene questo superamento? Come si presenta materialmente questa trasformazione? Il materialismo dialettico ci insegna che le trasformazioni avvengono attraverso accumuli quantitativi e salti qualitativi. Ci insegna anche che nessun processo è “puro”, che ogni salto qualitativo non significa fare tabula rasa, e che è sulla base dell’esistente per come è, non per come si vorrebbe fosse, che viene costruito il futuro. Ciò riflette la reale evoluzione storica, che testimonia come in una data società non vi sia mai un unico modo di produzione, ma diversi, tra cui uno dominante.

I modi di produzione più arretrati progressivamente spariscono, quelli più avanzati percorrono il cammino inverso, imponendosi come dominati. Il capitalismo non ha potuto imporsi sul sistema feudale che dopo secoli di lotta e sviluppo, dovendo peraltro convivere fino ai nostri giorni con certi suoi lasciti materiali. Allo stesso modo il modo di produzione feudale non ha soppiantato da un giorno all’altra quello schiavile, ma si è progressivamente imposto come modo dominante in un processo storico millenario.

La statalizzazione del credito, dei trasporti e della produzione e delle opere strategiche[2] sono gli strumenti principali che la classe lavoratrice, espropriate politicamente le precedenti classi dominanti, dovrà utilizzare per portare avanti uno sviluppo più rapido possibile delle forze produttive e una coerente trasformazione dei rapporti di produzione. Il mercato, sotto regime socialista, sarà qualitativamente differente rispetto al mercato capitalistico, in quanto le condizioni in cui si trova ad esistere saranno radicalmente mutate. Marx, nel terzo libro del Capitale, evidenzia come il mutamento del contesto cambi profondamente la natura di una stessa cosa, facendo l’esempio della differenza tra il capitale produttivo d’interessi e il capitale usuraio: “Ciò che distingue il capitale produttivo d’interesse, in quanto elemento essenziale del modo di produzione capitalistico, dal capitale usurario, non è affatto la natura o il carattere di questo capitale stesso. Sono soltanto le mutate condizioni nelle quali esso opera e quindi anche la figura completamente mutata di chi prende a prestito nei confronti di chi dà il denaro a prestito[3]. Solo una piena maturazione del sistema socialista, data da uno straordinario sviluppo delle forze produttive, è capace di eliminare la necessità materiale dell’esistenza del mercato. Il raggiungimento della proprietà comune dei mezzi di produzione crea una società cooperativa in cui “i produttori non scambiano i propri prodotti[4], in cui “viene abolita la produzione delle merci e contemporaneamente il dominio del prodotto sul produttore” e” [l]'anarchia nella produzione sociale viene sostituita da un'organizzazione sistematica e definita[5]. Ma questo stato di cose è il prodotto di uno sviluppo progressivo che ha come primo atto cosciente la conquista del potere politico da parte della classe lavoratrice.

Appare chiaro quindi che, almeno per i primi tempi, le fasi inferiori, della costruzione di una società socialista il mercato e l’economia privata coesistano in un contesto dominato dal modo di produzione socialista e dall’economia pubblica. La successiva esperienza storica ha confermato la correttezza questa prospettiva rispetto ai disegni millenaristici di chi predicava la subitanea abolizione del denaro, del mercato e di ogni forma di economia non-pubblica.

Fu la Rivoluzione d’Ottobre e la conseguente creazione di uno Stato socialista a zittire tramite la pratica le chiacchiere “massimaliste” di chi si aspettava la magica e immediata sparizione del mercato, della moneta e di ogni regime proprietario che non fosse quello collettivo. Dopo la parentesi del “comunismo di guerra”, riorientamento economico dettato dalle necessità belliche ma foriero di tensioni estreme con le campagne, Vladimir Lenin guidò l’affermazione della Nuova Politica Economica, la NEP, basata su una rinnovata libertà di commercio, sullo sfruttamento del personale tecnico e amministrativo borghese e del capitale tanto domestico quanto straniero, in poche parole di una notevole “restaurazione del capitalismo[6] resa necessaria dallo stato miserevole delle campagne, per colpa del quale qualsiasi politica d’espansione industriale centralizzata si trasformava in un velleitario miraggio. Una restaurazione del capitalismo, ma sotto il controllo dello Stato proletario, un capitalismo costruito attorno alla base dell’economia pubblica socialista, articolato in una molteplicità di forme proprietarie ibride, dalle concessioni alle cooperative, e sottoposto alla direzionalità politica del Partito Comunista Russo (Bolscevico).

Settori non indifferenti dell’estrema sinistra occidentale gridarono al tradimento, orientandosi contro i bolscevichi e verso la cosiddetta “opposizione di sinistra”, guidata da anarchici e Socialisti Rivoluzionari e concretamente alleata con le potenze imperialiste, la stessa area politica che organizzò l’attentato a Lenin del 30 agosto 1918. Ai loro occhi la permanenza del mercato, del denaro e dello Stato rappresentavano la prova tangibile del tradimento. Sfidando queste accuse “Lenin riesce a porre al centro dell’attenzione il problema dello sviluppo economico di un paese arretrato, che è uscito prostrato dalla guerra mondiale e da quella civile e che deve fronteggiare una situazione internazionale densa di pericoli[7].

Tutti questi “anticapitalisti ortodossi” deficitavano della diretta esperienza nella gestione del potere statale e, conseguentemente, di una piena comprensione della realtà. La linea leninista era stata rafforzata dall’ascesa dei comunisti al vertice dello Stato, e la pratica della gestione del potere non poteva che silenziare con i suoi risultati concreti le chiacchiere idealiste di chi confondeva la prospettiva rivoluzionaria con un messianesimo pre-moderno. Lenin riconobbe la necessità di superare questa concezione affermando come “trasportati dall’ondata di entusiasmo”, i bolscevichi avevano contato “di organizzare, con ordini diretti dello Stato proletario, la produzione statale e la ripartizione statale dei prodotti su base comunista in un paese di piccoli contadini”. Riconoscendo l’ingenuità di tale visione, Vladimir Il′i? sentenziò: “La vita ci ha rivelato il nostro errore. Occorreva una serie di fasi transitorie: il capitalismo di Stato e il socialismo, per preparare- con un lavoro di una lunga serie d’anni- il passaggio al comunismo[8]. Questo passaggio, da realizzarsi basandosi sullo stimolo dell’interesse personale e con l’appoggio dell’entusiasmo, sarebbe stata l’unica strada percorribile verso il comunismo. 

Il capitalismo di Stato avrebbe rappresentato in sé un progresso delle condizioni economiche rispetto alla piccola produzione disorganica[9]. Quello sovietico sarebbe però stato un capitalismo di Stato di tipo “particolare”, in quanto il potere proletario avrebbe avuto un ruolo determinante: “Ricopriamo tutte le posizioni chiave. Teniamo la terra; appartiene allo Stato. Questo è molto importante, anche se i nostri avversari cercano di far credere che non abbia alcuna importanza. Questo non è vero. Il fatto che la terra appartenga allo Stato è estremamente importante ed ha anche un grande significato pratico dal punto di vista economico[10]. L’apertura ai capitali occidentali, che si dimostrarono però meno interessati del previsto, avrebbe ottenuto “il rafforzamento della situazione del potere sovietico e il miglioramento delle condizioni [economiche]” dietro il pagamento di un “tributo al capitalismo mondiale”, al capitalismo “più colto, più progredito, quello dell’Europa occidentale[11] sotto forma di concessioni per lo sfruttamento temporaneo di miniere, foreste e pozzi petroliferi per averne in cambio attrezzature e macchinari moderni. Un capitalismo da cui era necessario imparare l’arte dell’amministrazione, della gestione economica, dell’esercizio del potere e dello sviluppo della tecnica per mettere ciò a beneficio dello Stato proletario e della causa socialista. I limiti di questa promiscuità con il capitalismo sarebbero stabiliti “dalla pratica, dall’esperienza”, in quanto “[n]on v’è nulla da temere per il potere proletario finché il proletariato tiene fermamente il potere nelle sue mani, tiene fermamente nelle sue mani i trasporti e la grande industria[12].

Una visione totalmente opposta rispetto a quella di chi vede nel capitalismo un “male morale” da sradicare, una “colpa” dal quale serve tenersi lontani. Il capitalismo di Stato sotto potere proletario avrebbe rappresentato al contrario l’inizio del percorso socialista, con il recupero in una situazione mutata di quello che era stato il punto culminante dello sviluppo capitalistico: “Perché il socialismo è semplicemente il prossimo passo avanti rispetto al monopolio capitalista di stato. O, in altre parole, il socialismo è semplicemente il monopolio del capitalismo di Stato, creato per servire gli interessi di tutto il popolo e in questa misura ha cessato di essere monopolio capitalista[13].

Il successo di questo modello venne dimostrato dai fatti: la nascente Unione Sovietica poté resistere all’assedio internazionale e riportare la sua economia ai livelli pre-bellici attorno al 1925, garantendo un importante incremento delle condizioni di vita e della stabilità sociale nelle campagne. La successiva virata di Stalin verso la collettivizzazione e la riduzione degli spazi del mercato da un lato si rivelò essenziale al fine di quell’enorme sviluppo industriale che permise la vittoria nella Grande Guerra Patriottica, dall’altro pose le fondamenta per i difetti strutturali del sistema sovietico, che non poterono mai essere superati: un settore agricolo relativamente debole, uno sviluppo diseguale tra industria pesante e industria leggera, con conseguente carenza di prodotti di consumo, un’economia tendente al burocratismo e chiusa alle innovazioni straniere.

Dopo l’esperienza leninista, il più grande contributo alla riflessione sul rapporto tra socialismo e mercato fu dato da Deng Xiaoping, iniziatore della politica di Riforma e Apertura che portò in maniera straordinariamente rapida la Cina ai vertici dell’economia mondiale. Deng Xiaoping dovette opporsi a chi, da “sinistra”, confondeva il socialismo con l’esaltazione della povertà, rinnegando la stragrande maggioranza dell’attività politica di Mao Zedong. “La povertà non è socialismo. Per portare avanti il socialismo, un socialismo che sia superiore al capitalismo è imperativo prima di tutto eliminare la povertà[14]: il sistema socialista avrebbe dovuto dimostrare sul campo, e non nei dibattiti retorici, la propria superiorità, pena lo scomparire. Lo sviluppo delle forze produttive, e non la redistribuzione della miseria, è il compito essenziale del socialismo, con la superiorità di questo sistema che si manifesta proprio attraverso “una crescita delle forze produttive più rapida e vasta che sotto il sistema capitalista[15]. Solo uno sviluppo considerevole delle forze produttive poteva garantire il passaggio ad una società socialista avanzata, e da questa al comunismo. Ciò venne e tuttora è comunemente trascurato da numerosi “marxisti”, che si rifiutano di superare i limiti di “un’enfasi parziale a favore dei rapporti di produzione e dell’obiettivo finale del comunismo a detrimento dell’emancipazione delle forze produttive e dei mezzi pratici per raggiungere quegli obiettivi[16].

L’esperienza aveva dimostrato come il controllo totale e centralizzato degli apparati statali sulla produzione non rispondesse alle necessità del paese giunto a quel particolare livello di sviluppo, ossia la fase primaria del socialismo, segnata da una bassa produttività delle forze produttive e di un mercato debole e poco sviluppato. E’ a partire da questa situazione reale, e non da valutazioni immaginarie, che si sarebbe dovuto procedere per portare avanti il percorso di costruzione e rafforzamento del socialismo. Nel 1956, in occasione dell’VIII Congresso del Partito Comunista Cinese, l’allora vicepresidente del PCC Chen Yun propose per lo sviluppo dell’economia cinese un sistema fondato sul ruolo centrale del settore pubblico e uno ausiliario del privato[17]. Questa prospettiva, che rispondeva alle reali esigenze materiali e che si poneva in continuità col percorso di costruzione del socialismo cinese, venne abbandonata a favore di una svolta “a sinistra” che si rivelò largamente incapace di garantire un rapido sviluppo al paese, e che aprì le porte agli errori ideologici e pratici della Rivoluzione Culturale.

Solo a partire dal terzo plenum dell'XI Comitato Centrale la politica economica cinese tornò aderente alla realtà concreta del paese, grazie all’impegno per emancipare le menti e la corretta prassi della ricerca della verità tramite i fatti. L’interpretazione di “sinistra” del marxismo, forte anche degli errori sovietici, continuava a porre il sistema socialista e l’economia di mercato in una stretta antitesi. Il mercato era visto esclusivamente, ed erroneamente, come un connaturato al capitalismo, e incapace di servire altri scopi se non l’accumulazione di capitale per i possidenti. Deng Xiaoping, partendo dal marxismo-leninismo e dal pensiero di Mao Zedong, promosse una grande innovazione teorica sostenendo come, in realtà, “non sist[esse] una contraddizione fondamentale tra socialismo ed economia di mercato[18]: “Dobbiamo capire teoricamente che la differenza tra capitalismo e socialismo non è un’economia di mercato in contrapposizione a un’economia pianificata. Il socialismo ha una regolamentazione tramite le forze di mercato, e il capitalismo ha un controllo attraverso la pianificazione[19]. [...]. Non dovete pensare che se avremo una qualche economia di mercato prenderemo la strada del capitalismo. Semplicemente non è vero. Sono necessarie sia un’economia pianificata che un’economia di mercato. Se non avessimo un’economia di mercato, non avremmo accesso alle informazioni provenienti da altri paesi e dovremmo rassegnarci a restare indietro[20]. Il mercato non è altro che uno strumento, al pari della pianificazione, un qualcosa che è nato anteriormente al capitalismo e che sopravviverà ad esso. In quanto “pianificazione e regolazione tramite il mercato sono entrambi mezzi per controllare l’attività economica”, “il mercato può servire anche il socialismo[21]. La stessa evoluzione monopolistica del capitalismo può essere vista come una progressiva restrizione degli spazi d’azione delle forze del mercato, in cui centrale è l’associazione tra le autorità pubbliche e i vari trust o cartelli finanziari. Si deve quindi riconoscere la relazione tra mercato e capitalismo come non strettamente condizionata: il mercato può esistere anche al di fuori di una società dominata dal capitalismo, mentre il capitalismo non necessità di un mercato realmente libero o privo di condizionamenti, e non necessita nemmeno di un’estensione progressiva degli spazi d’azione di questo.

Al contrario, i processi di concentrazione del capitale e di socializzazione del lavoro che hanno dato origine ai moderni colossi multinazionali dimostrano come lo stesso capitalismo applichi in maniera crescente forme di pianificazione economica. Le più grandi aziende dispongono al proprio interno di dipartimenti frutto di integrazioni orizzontali e verticali dei processi produttivi, che, se in passato erano a tutti gli effetti diverse entità economiche legate da rapporti di mercato, ora agiscono in maniera coordinata e pianificata, al di fuori del mercato. L’estensione della pianificazione economica è ancora più evidente se si pensa al capitale finanziario monopolistico. Già l’economista liberale Schumpeter rilevava, nel secondo dopoguerra, come le banche agissero come una sorta di versione privata del Gosplan, l’agenzia di pianificazione sovietica, indirizzando il credito sulla base di proprie previsioni e interessi, facendo materializzare la “mano invisibile” del mercato a seguito di ciò. Come da lui precedentemente affermato, “il capitalismo sta venendo ucciso dai suoi risultati[22]: le crescenti concentrazione del capitale e socializzazione del lavoro stanno rendendo progressivamente obsolete le stesse strutture “classiche” del capitalismo nella sua fase di libero mercato, già ampiamente superata da più di un secolo.

All’atto pratico, la lotta per la costruzione di un sistema socialista nel mondo moderno non è tra “economia di mercato” ed “economia pianificata”, ma tra gruppi contrapposti che si contendono il controllo delle leve apicali dell’economia e la pianificazione ad esse associata. L’anarchia del mercato del capitalismo si esprime in uno uso irrazionale, mutevole e privatistico di questa pianificazione economica, che risponde unicamente all’interesse di particolari settori del capitale monopolistico, contrapposto a quello dei settori concorrenti e a quello della stragrande maggioranza dell’umanità. La distribuzione tramite il mercato delle risorse avviene unicamente “a valle” rispetto alle “alture dominanti” dell’economia mondiale, e riflette gli indirizzi pianificati dal capitale finanziario monopolistico, o, nei paesi socialisti, dai partiti comunisti.  Mai come oggi appare chiara l’abolizione della proprietà privata per la stragrande maggioranza delle persone prodotta dal sistema capitalista. Il passaggio al socialismo comporta una “negazione della negazione”, con il recupero della proprietà persa nel capitalismo tramite la sua trasformazione in senso collettivo e sociale. Il mercato e i suoi attori, così come concepiti astrattamente dall’economia borghese e anche da troppi marxisti amatoriali, semplicemente appartengono già al passato.

L’estrema sinistra occidentale ha ereditato ogni distorsione “massimalista” attorno alla questione del rapporto tra mercato e socialismo, confondendo quest’ultimo con miraggi basati sul mutualismo anarcoide più vicini a una comune hippie che a qualsiasi progettualità politica concreta. Non riuscendo a comprendere le reali aspirazioni delle masse per lo sviluppo economico e per condizioni di vita progressivamente migliori, l’estrema sinistra occidentale non  può che ignorare gli enormi risultati ottenuti da Stati socialisti come la Cina, il Vietnam o il Laos attraverso una corretta comprensione del rapporto tra sistema socialista ed economia di mercato. La lotta alla povertà, lo sviluppo tecnico e produttivo, la creazione di una ricchezza condivisa sempre maggiore per centinaia di milioni di persone sono fatti “poco interessanti” per loro, fatti che anzi suonano come campanelli d’allarme per il preteso “tradimento” degli ideali. La verità è che, mentre gli attuali paesi socialista provano giornalmente davanti a tutto il mondo la superiorità del loro sistema, l’estrema sinistra occidentale non è riuscita a ottenere nessun risultato concreto, conquistandosi l’indifferenza, se non l’astio, della quasi totalità degli abitanti di questo emisfero, in particolare di chi vive del proprio lavoro e che, tramite questo, deve provvedere alla propria famiglia.

Le moltitudini giudicano “el fine et non el mezo”[23], i risultati, e non i mezzi con cui questi vengono ottenuti. Tra la povertà mascherata da intransigenza ideologica e il benessere sceglieranno sempre la seconda. L’incapacità di sostenere la competizioni dei regimi liberal-capitalisti occidentali è stata tra le cause della caduta del blocco sovietico.

Le riforme della Repubblica Popolare Cinese sono invece state ciò che ha garantito a questo Stato socialista non solo di sopravvivere, ma di conquistare le “alture dominanti” dell’economia mondiale, imponendosi come uno dei principali attori a livello internazionale e contribuendo al progresso generale e all’emancipazione dell’Umanità. La Cina retta dal Partito Comunista Cinese è riuscita a dare l’innegabile e tangibile prova della superiorità del sistema socialista, mentre i resti dell’ordinamento unipolare sono costretti a ricorrere a forme sempre più spietate di guerra ibrida nel disperato tentativo di contenerne l’ascesa. La costruzione di un’economia di mercato da affiancare, con un ruolo di complemento, a quella pubblica, ha permesso la creazione di un'efficiente sinergia tra i due settori. I limiti della pianificazione (rischio di soggettività delle scelte, lentezza nel riorientamento, difficoltà di coordinazione tra i vari settori) sono così temperati dagli effetti positivi del mercato; allo stesso modo i limiti della regolazione economica sulla base del mercato (impossibilità nel perseguire obiettivi a lungo termine, reticenza ad investire in settori a bassa profittabilità, tendenza allo sperperio di risorse) sono superati grazie all’intervento statale[24].

Questa struttura corrisponde alla fase primaria del socialismo, caratterizzata da “un sistema d’economia di mercato con un meccanismo di regolazione guidato dal piano”, che impone regolazioni economiche che sono “basate sulla regolazione tramite il mercato e dominate dalla regolazione statale[25]. L’accademico marxista cinese Chen Enfu vede nello sviluppo dell’economia socialista di mercato non solo “una sublazione dell’economia capitalista di mercato, ma anche una negazione dei modelli dell’economia naturale [della Cina] e della tradizionale rigida economia del prodotto[26][27]. Questo percorso storico porterà allo sviluppo di una forma economia di transizione al comunismo che egli definisce “economia pianificata della merce-prodotto[28], propria di uno stadio intermedio del socialismo che vede uno sviluppo delle forze produttive tale da garantire sempre di più la possibilità di una distribuzione secondo le necessità.

Attualmente la Repubblica Popolare Cinese si trova nella fase primaria del socialismo, caratterizzata da un sistema economico avente la regolazione tramite il mercato come elemento di base e la regolazione statale come elemento dominante. L’aver governato in maniera efficace questa fase di sviluppo ha permesso alla dirigenza comunista cinese di porre come obiettivo per il centenario dalla fondazione della RPC l’avvenuta costruzione di un paese socialista moderno. La “svolta” guidata da Deng Xiaoping non fu una “restaurazione del capitalismo” nel senso comunemente inteso dai critici, ma un necessario adeguamento del paese alle reali condizioni materiali, simile in ciò alla NEP di Lenin. Dalla Nuova Politica Economica si distingue però in quanto questa fu pensata come “ritirata strategica” dell’economia socialista, mentre le riforme cinesi sono guidate dall’innovazione teorica secondo cui il mercato può continuare ad esistere all’interno dello stesso sistema socialista. Solo lo sviluppo delle forze produttive permette alla progettualità socialista di avanzare. E’ grazie all’uscita dalla povertà e alla creazione di condizioni di vita dignitose per centinaia di milioni di persone che le autorità della RPC hanno potuto mantenere uno stretto controllo politico sulla produzione strategica e sulla ricerca, mettendo all’angolo le voci a favore di una degenerazione in senso neoliberista e della cessione di sovranità alle forze dell’imperialismo. La fase della Cina “fabbrica del mondo” interessata unicamente ad attirare capitali per esportare nei mercati europei merci a basso costo è già finita, superata dalla volontà di fondare lo sviluppo del paese sull’innovazione e sul mercato interno, un proposito già visibile sotto la dirigenza di Hu Jintao ma che ha raggiunto la più grande e coerente estensione sotto l’attuale dirigenza di Xi Jinping. Oggi giorno, dal 5G all’intelligenza artificiale, dalla ricerca nucleare ai computer quantistici, la Cina è all’avanguardia nello sviluppo tecnologico.

Il Presidente Xi Jinping ha potuto parlare a tal riguardo dello sviluppo di “nuove forze produttive di qualità” come risultato dell’applicazione delle ultime innovazioni tecnologiche ai diversi rami dell’industria.  Il processo di rapido sviluppo delle forze produttive tradizionali garantito dalla politica di Riforma e Apertura, unito allo sviluppo di una capacità d’innovazione nazionale capace di rendere la Cina in grado di affrontare il monopolio esercitato dagli Stati Uniti sulle tecnologie più dirompenti fino a qualche anno fa, ha portato alla nascita delle nuove forze produttive di qualità, gettando le basi per una sostanziale trasformazione del modello di sviluppo cinese. La produttività, come riconosciuto dall’analisi marxista, è il fattore più attivo e rivoluzionario nella promozione del progresso sociale.  Vladimir Lenin, com’è noto, disse che “il comunismo è il potere sovietico più l’elettrificazione di tutto il paese[29]. Con questa frase il rivoluzionario russo stava mettendo al centro lo sviluppo delle forze produttive, la crescita della produttività e l’ammodernamento dell’apparato produttivo come condizioni necessarie per la costruzione socialista al pari del controllo del potere politico da parte della classe lavoratrice. Lo sviluppo delle nuove forze produttive di qualità si inserisce come parte integrante del percorso per rendere la Cina un moderno paese socialista entro il 2049. Le nuove forze produttive di qualità hanno come base non “i lavoratori ordinari che si impegnano in semplici lavori ripetitivi”, ma lavoratori di nuovo tipo, personale “con competenze di importanza strategica che è in grado di creare effettivamente nuove forze produttive di qualità[30], in un percorso di progressiva risoluzione della contraddizione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. L’adeguamento dei rapporti di produzione alla nuova realtà sarà effetto dello sviluppo delle nuove forze produttive di qualità e condizione necessaria alla loro piena liberazione: “I rapporti di produzione sono determinati e reagiscono alle forze produttive. In quanto tale, l’emergere di nuove forze produttive di qualità porterà inevitabilmente a cambiamenti rivoluzionari nei rapporti di produzione e richiederà l’instaurazione di un nuovo insieme di relazioni ben adattate che serviranno a proteggere, liberare e sviluppare queste forze. Riformando e migliorando costantemente i rapporti di produzione e stabilendo nuovi modelli, sistemi e meccanismi di gestione, forniremo importanti garanzie per il continuo sviluppo di nuove forze produttive di qualità[31].

Lo sviluppo economico cinese ha beneficiato della globalizzazione a guida statunitense. Gli investimenti stranieri nella Repubblica Popolare Cinese sono infatti da inserirsi nel contesto complessivo dato dall’imposizione globale del neoliberismo e del Washington Consensus. Beijing, al contrario di molti altri Stati, ha saputo però sfruttare quest’occasione per trasformare dialetticamente la situazione: gli investimenti stranieri non hanno minato la sovranità del paese, ma hanno contribuito a creare le basi per quello sviluppo che avrebbe, in ultima battuta, portato la RPC a sfidare efficacemente lo stesso modello della globalizzazione neoliberale.

Il processo di multipolarizzazione del mondo, che ha le sue radici negli ultimi decenni del XX Secolo, si è costituito in risposta al consolidarsi del progetto egemonico statunitense, di cui il Washington Consensus e la globalizzazione sono stati parte integrante. Il ruolo fondamentale del Dollaro all’interno dell’economia mondiale, il monopolio tecnologico, del credito e dell’informazione sono stati tanto importanti per la costruzione del sistema unipolare quanto le capacità belliche di Washington.

La globalizzazione a guida statunitense ha catalizzato tutto ciò, ma ha allo stesso tempo ha gettato le basi per il suo superamento. Per decenni i paesi del mondo, dagli alleati subalterni degli USA fino ai paesi socialisti, sono stati costretti a dipendere da tecnologie sviluppate negli Stati Uniti, a utilizzare i Dollari nelle loro transazioni internazionali, a consumare passivamente la cultura e la narrazione statunitense e a rivolgersi a istituzioni come quelle connesse alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale per il credito. Gli effetti di ciò non si devono calcolare in termini di condizionamento e “soft power”, ma anche tenendo presente le vere e proprie operazioni di rapina e saccheggio che sono state attuate ai danni dei paesi più deboli, investiti da crisi debitorie e attacchi speculativi, e che, in cambio dei prestiti, hanno dovuto accettare la privatizzazione di ampi settori dell’economia pubblica e delle risorse naazionali. Ciò è accaduto non solo nel Terzo Mondo, ma finanche in Europa. Di ciò non si può addossare completa responsabilità alle varie classi dirigenti: per molti versi il mantra neoliberista del “There is no alternative” era divenuto realtà. O l’integrazione economica internazionale sotto l’indiscutibile potestà americana, o l’isolamento e l’assedio.

In entrambi i casi lo spettro della povertà e del sottosviluppo avrebbe accompagnato il percorso scelto. Il processo di multipolarizzazione del mondo e l’ascesa economica della Repubblica Popolare Cinese hanno profondamente e irreversibilmente mutato questa situazione. Catalizzata dalle stesse pratiche arroganti e prive di riguardi per il diritto internazionale, la de-dollarizzazione avanza, con sempre più paesi che scelgono di commerciare nelle rispettive valute internazionali e di diversificare le proprie riserve. Allo stesso tempo, grazie alla New Development Bank del gruppo BRICS e a istituti come la Asian Infrastructure Investment Bank connessa alla Nuova Via della Seta, i paesi in via di sviluppo e bisognosi di credito possono ora ottenerlo senza dover sottoscrivere onerose condizionalità politico-economiche.

La consapevolezza della natura intrinsecamente predatoria della globalizzazione a guida statunitense è progressivamente aumentata non solo a livello governativo, ma anche tra le popolazioni dei vari paesi, che sono state portate a osteggiare istintivamente ogni accordo di libero scambio e a vedere con sospetto le varie organizzazioni internazionali. Ciò sta venendo ora sfruttato dalle stesse forze dell’egemonia che, profondamente in crisi, tentano di rallentare la crescita delle economie emergenti, Cina in testa, attraverso guerre economiche e misure protezionistiche. Queste, propagandate come volte alla tutela della produzione nazionale da "competizioni sleali”, non sono indirizzate al benessere delle popolazioni occidentali, ma unicamente alla difesa dell’egemonia statunitense. Per i paesi europei il rapporto con gli USA si configura come una dipendenza fortemente dannosa, come dimostrano misure aggressive come l’attentato al Nord Stream 2 e l'Inflation Reduction Act varato da Biden. Al contrario, lo sviluppo di un mondo multipolare rappresenterebbe un’opportunità anche per l’Europa tramite una più stretta integrazione con le economie mediterranee ed eurasiatiche e la partecipazione a uno sviluppo condiviso.

Come più volte riconosciuto dal Presidente Xi Jinping, la globalizzazione, intesa come progressiva integrazione economica dell’Umanità, rappresenta una tendenza oggettiva dei tempi, un processo irreversibile la cui attuale configurazione richiede non già una irrealistica messa in discussione integrale, ma un nuovo orientamento, una trasformazione radicale che ponga al centro gli interessi materiali dei diversi paesi e lo sviluppo comune dell’Umanità. Parlare in questi termini di “trasformazione” della globalizzazione non significa altro che riconoscere le conseguenze economiche della multipolarizzazione del mondo. Il mercato non può più essere visto come un feticcio da adorare in maniera fondamentalistica, ma ricondotto al suo ruolo di strumento a cui ricorrere in maniera controllata e secondo norme chiare e univoche. Allo stesso tempo non si può pensare a una futura economia mondiale come a un insieme di “isole” fondamentalmente separate le une dalle altre.

La dialettica tra indipendenza e interdipendenza si manifesterà pienamente nell’economia del mondo multipolare, portando a una maggiore integrazione senza però che ciò comprometta la sovranità dei vari paesi o gruppi di paesi. Ciò è impossibile fintanto che l'imperialismo statunitense conserverà la sua posizione egemonica, ma diverrà immediatamente possibile una volta che questo sarà abbattuto, garantito dal sistema di governance globale a cui la Repubblica Popolare Cinese e le altre forze impegnate nello sviluppo della multipolarizzazione del mondo stanno lavorando, fondato tanto sulle Nazioni Unite quanto sulle nuove forme organizzative multilaterali sviluppate negli ultimi decenni. Il progressivo scollamento degli Stati Uniti e dei loro satelliti dal diritto internazionale e dalla stesso ONU come istituzione mostra come questa, debitamente riformata nel suo funzionamento per garantire una maggiore rappresentanza ai paesi in via di sviluppo,  abbia ancora un carattere progressivo, non sfruttato debitamente nei decenni trascorsi dalla sua fondazione proprio a causa dell’egemonismo statunitense e dello sbilanciamento a favore dei paesi occidentali. Il Presidente Xi Jinping ha sottolineato questa valenza delle Nazioni Unite, collegandola strettamente al processo di multipolarizzazione ora in corso:

Il mondo sta attraversando un processo storico di accelerazione e cambiamento. Sono fiducioso che la luce della pace, dello sviluppo e del progresso sarà sufficiente per fugare le tenebre della guerra, della povertà e dell’arretratezza. L’ulteriore evoluzione nella direzione di un mondo multipolare e l’ascesa dei mercati emergenti e dei paesi in via di sviluppo sono ormai una tendenza storica inarrestabile. La globalizzazione economica e l’informatizzazione hanno agito da volano nel liberare le forze produttive della società, creando opportunità di sviluppo senza precedenti, ma al contempo portando nuove sfide e minacce che dobbiamo affrontare con il dovuto impegno. [...] Bisogna portare avanti e valorizzare la missione e i principi dell’ONU, creare un nuovo modello di relazioni internazionali incentrato sulla cooperazione reciprocamente vantaggiosa e porre le basi di una comunità umana dal futuro condiviso[32].

La globalizzazione a guida statunitense ha approfondito il divario tra i paesi e rafforzato le gerarchie internazionali. Interi continenti sono stati condannati al sottosviluppo e sistematicamente saccheggiati, mentre un pungo sempre più ristretto di oligarchi della finanza ha potuto godere di potere e ricchezza mai visti prima. Il monopolio del credito e tecnologico, sostenuti dalla forza bruta, applicata sia in maniera diretta che ibrida, hanno fatto in modo che qualsiasi paese non potesse che diventare un succube fornitore dell’egemone e dei suoi più stretti alleati subalterni. In questo contesto la lotta di classe si è acuita tanto a livello internazionale quanto all’interno dei singoli paesi, gettando le condizioni soggettive per il superamento del sistema esistente.

La nuova globalizzazione che si sta imponendo a livello mondiale si differenzia fondamentalmente da questo modello, basandosi su un sistema di governance multilaterale e democratico in costruzione, sul ripudio dell’egemonismo e sul ruolo centrale attribuito agli scopi sociali e progressivi dello sviluppo: uno sviluppo che è incentrato sulle persone, che mira alla loro emancipazione tramite la lotta alla dipendenza, alla povertà e al sottosviluppo. Si potrebbe obiettare che ciò non costituisce che una visione idealizzata simile a quelle già proposte ai tempi della Società delle Nazioni o della fondazione dell’ONU. La realtà è differente: il periodo storico che stiamo vivendo è completamente inedito, e un nuovo assetto pacifico dell’Umanità è reso possibile dalla natura politica e storica del processo di multipolarizzazione del mondo.

Questo non rappresenta un ritorno a blocchi di potenze contrapposte, ma comporta la costruzione di una comunità umana dal futuro condiviso, ossia il concreto superamento del capitalismo giunto alla sua fase imperialista. A guidare questo processo non ci sono infatti borghesia finanziarie concorrenti rispetto agli USA, ma le forze progressive di tutto il Pianeta.

 

[1] K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, in Opere Scelte, Roma, Editori Riuniti, 1966, p. 312.

[2] Gli ateliers nationaux francesi sorti dopo la rivoluzione del febbraio 1848 si caratterizzarono per la produzione a favore della Guardia Nazionale, di cui gli operai erano membri, e le opere edili d’interesse pubblico. Il termine “fabbriche nazionali” usato da Marx deve essere ricondotto ai settori fondamentali e strategici, quali quello metallurgico, la cantieristica, la produzione di armi e di materiale bellico di vario tipo. Questi settori erano anche quelli più sviluppati anche nei paesi dalla più tarda industrializzazione

[3] K. Marx, Il Capitale, Vol. III/2, Roma, Editori Riuniti, 1980, pp. 698-699.

[4] K. Marx, Critique of Gotha Program, Parigi, Foreign Languages Press, 2021, p. 14.

[5] F. Engels, Anti-Dühring, Mosca, Progress, 1947, p. 178.

[6] Vladimir Lenin, Rapporto al II Congresso dei Centri di educazione politica di tutta la Russia, in Economia della Rivoluzione, Milano, ilSaggiatore, 2017, p. 402.

[7] D. Losurdo, Il marxismo occidentale, Bari-Roma, Editori Laterza, 2017, p. 15.

[8] V. Lenin, Per il quarto anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, in Opere Scelte, Mosca, Progress, 1978, p. 672.

[9]Noi spesso facciamo ancora oggi il seguente ragionamento: “Il capitalismo è un male, il socialismo è un bene”. Ma questo ragionamento è sbagliato, poiché non tiene conto della somma di tutte le forme economiche e sociali esistenti, e ne considera soltanto due. Il capitalismo è un male in confronto al socialismo. Il capitalismo è un bene in confronto al periodo medievale, in confronto alla piccola produzione, in confronto al burocratismo che è connesso alla dispersione dei piccoli produttori”. V. Lenin, Sull’imposta in natura, in Economia della Rivoluzione, Milano, ilSaggiatore, 2017, p. 362.

[10] V. Lenin, Report to the Fourth Congress of the Communist International, in Collected Works, Vol. XXXIII, Mosca, Progress, 1977, p. 428.

[11] V. Lenin, Sull’imposta in natura, in Economia della Rivoluzione, Milano, ilSaggiatore, 2017, p. 358.

[12] V. Lenin, Sull’imposta in natura, in Economia della Rivoluzione, Milano, ilSaggiatore, 2017, p. 369.

[13] V. Lenin, The Impending Catastrophe and How to Combat It, in Collected Works, Mosca, Progress, 1977, p. 362.

[14] Deng Xiaoping, To Uphold Socialism We Must Eliminate Poverty, in Selected Works, Vol. III, Beijing, Foreign Languages Press, 1994, p. 223.

[15] Deng Xiaoping, Building a Socialism With a Specifically Chinese Character, in Selected Works, Vol. III, Beijing, Foreign Languages Press, 1994, p. 73.

[16] Yang Chungui, Deng Xiaoping Theory and the Historical Destiny of Socialism, in The Marxist, Vol. XVII, n. 2 (aprile-giugno 2001).

[17]Dovremmo consentire a un gran numero di piccole fabbriche di continuare a operare in modo indipendente. Molte cooperative artigiane dovrebbero essere suddivise in cooperative più piccole gestite da squadre o famiglie. I membri delle cooperative agricole dovrebbero essere autorizzati a svolgere in proprio diversi tipi di attività secondarie. Il controllo del mercato sui prodotti locali minori dovrebbe essere allentato. Non dobbiamo temere un aumento dei prezzi di alcune merci entro certi limiti e per brevi periodi di tempo. La gestione pianificata di alcuni rami dell'economia dovrebbe essere modificata. [...]. La configurazione complessiva della nostra economia socialista sarà la seguente. Nella gestione dell'industria e del commercio, il cardine sarà la gestione statale e collettiva, da integrare in misura minore con la gestione individuale. Per quanto riguarda la pianificazione della produzione, la maggior parte dei prodotti manifatturieri e agricoli del paese sarà prodotta secondo il piano; e, allo stesso tempo, una certa quantità di prodotti dovrebbe essere prodotta in base alle mutevoli condizioni di mercato nell'ambito prescritto dal piano statale. Per l'industria e l'agricoltura, la produzione pianificata sarà il pilastro, da integrare con la produzione non regolamentata nell'ambito prescritto dal piano statale e in conformità con le fluttuazioni del mercato. Pertanto, il mercato nel nostro paese non sarà mai un libero mercato capitalista, ma un mercato socialista unificato”. Chen Yun, Problem Arisen Following Socialist Transformation, in Selected Works, Vol. III, Beijing, Foreign Languages Press, 1999, p. 25.

[18] Deng Xiaoping, There is No Fundamental Contradiction Between Socialism and a Market Economy, in Selected Works, Vol. III, Foreign Languages Press, Beijing, 1994, p. 151.

[19] La contraddizione fondamentale del capitalismo tra l’anarchia della produzione sociale e organizzazione della produzione all’interno della singola fabbrica  si acutizza progressivamente con un’aumento dell’irrazionalità complessiva e uno sviluppo di strumenti di pianificazione che si estendono ad interi settori, prima con oligopoli e monopoli privati, poi col capitalismo di Stato, gettando così concretamente le basi per il passaggio al socialismo, facendo sì che “la produzione, priva di un piano, della società capitalista capitol[i] davanti alla produzione, secondo un piano, dell’irrompente società socialista”, F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 109. Nel rapporto dialettico tra l’anarchia sociale e la produzione organizzata il termine prevalente diviene sempre di più il secondo, prima attraverso accumuli qualitativi che portano allo sviluppo del capitalismo di Stato in una società borghese, poi al salto qualitativo della rivoluzione socialista. Nuovi accumuli quantitativi permettono il passaggio tra le fasi iniziali del socialismo sino al salto qualitativo dell’instaurazione della società comunista.

[20] Deng Xiaoping, Seize the Opportunity and Develop the Economy, in Selected Works, Vol. III, Foreign Languages Press, Beijing, 1994, p. 350.

[21] Deng Xiaoping, Remarks During an Inspection Tour, in Selected Works, Vol. III, Beijing, Foreign Languages Press, 1994, p. 354.

[22] J. Schumpeter, Capitalism, Socialism, Democracy, Londra-New York, Routledge, 2003, p. 410.

[23] N. Machiavelli, Niccolò Machiavelli a Giovan Battista Soderini Perugia, 13-21 settembre 1506, in Tutte le opere, Firenze, Bompiani, 2018, p. 2699.

[24] Cheng Enfu, China’s Economic Dialectic, New York, International Publisher, 2019, pp. 295-300.

[25] Cheng Enfu, Op. cit., p. 309.

[26] Ossia un tipo d’economia in cui i prodotti del lavoro non sono trasformati in merci, si riferisce alle politiche economiche del periodo tra 1959 e 1978.

[27] Chen Enfu, Op. cit., pp. 307-308.

[28] Ibidem.

[29] V. Lenin, Rapporto del Comitato esecutivo centrale e del Consiglio dei commissari del popolo sulla politica estera e interna, 22 dicembre 1920, in Economia della Rivoluzione, Milano, ilSaggiatore, 2017, p. 317.

[30] Qiu Ping, Understanding the Essence of New Quality Productive Forces, in Qiushi, Vol. XVI, n. LXVII, 2024.

[31] Ibidem.

[32] Xi Jinping, Creiamo insieme un nuovo partenariato di cooperazione reciprocamente vantaggioso, in Governare la Cina, Vol. II, Beijing, Foreign Languages Press, 2017,  pp. 670-671.

 

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