IL MARXISMO E L'ERA MULTIPOLARE - SESTA PARTE

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IL MARXISMO E L'ERA MULTIPOLARE - SESTA PARTE

 

Come ogni Venerdì, ecco il sesto dei 9 appuntamenti dove vi proporremo un importante lavoro di analisi e approfondimento di Leonardo Sinigaglia dal titolo "Marxismo e Multipolarismo".

PRIMA PARTE

SECONDA PARTE

TERZA PARTE

QUARTA PARTE

QUINTA PARTE

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di Leonardo Sinigaglia

 

6-Multipolarismo e comunità umana dal futuro condiviso, parte 1

 Nel suo “saggio popolare” sull’imperialismo, Vladimir Lenin descrive l'origine di quella nuova fase del capitalismo come diretta conseguenza dei processi di accumulazione e di concentrazione del capitale ad essa precedenti Negli ultimi decenni del XIX Secolo la simbiosi di capitale industriale e bancario portò alla formazione del capitale finanziario, mentre questo si “fuse” efficacemente con i governi nazionali, in un processo che venne a maturare nei paesi capitalisticamente più avanzati. L’attrito fra le varie potenze, di forza più o meno equivalente, portò alla divisione del mondo in varie sfere d’influenza, tra le quali il primato andava all’impero britannico, culla del capitalismo finanziario e padrone dei mari, una posizioni insidiata dal rapido sviluppo, economico e militare, del Reich guglielmino, contro il quale si trovavano schierati anche la Francia, a capo di uno sterminato impero coloniale, e la Russia zarista, “anello debole” della catena imperialista. Geograficamente lontani ma di crescente importanza, due altri imperi componevano lo scenario imperialista tra XIX e XX Secolo, ossia quello giapponese e quello americano.

Indubbiamente i vari paesi imperialisti avevano un peso diverso, ma nessuno di essi era tanto forte da poter esercitare un ruolo egemonico a livello globale. Da qui la necessità di alleanze e la progressiva costituzione di quei due schieramenti che si sarebbero reciprocamente annientati nella Grande Guerra. La capitalizzazione relativa dei vari mercati azionari possono rendere l’idea della magnitudo comparabile dei vari imperi: al 1899 il mercato azionario controllato dall’Inghilterra era il più grande, pari al 24.2% del totale, seguito da quello americano (14.5%), da quello tedesco (12.6%) e da quello francese (11.2%). Gli altri paesi occidentali si assestavano tra il 2% e il 5%. Un rapido confronto con il 2024 permette di notare una strabiliante differenza: al primo posto abbiamo gli Stati Uniti, con un mercato azionario pari al 60.5% del totale, seguito dai mercati di tutto il resto del pianeta che non riescono nemmeno ad avvicinarsi al 7%.

Anche solo da questi dati, senza chiamare quindi aspetti relativi al “soft power”, alla forza militare e alla pervasività delle reti clientelari e degli apparati segreti, emerge chiaramente una netta differenza tra la situazione attuale e quella che si trovò a descrivere: il capitale finanziario statunitense non è più “in competizione” con avversari dalle dimensioni paragonabili, ma svetta su di essi dominandoli e riducendoli in posizione subalterna, in una posizione di incomparabile forza.

Il ruolo egemonico degli Stati Uniti non è paragonabile a quello assunto dall’Inghilterra nella prima fase dell’epoca dell’imperialismo, ma rappresenta un elemento inedito capace di caratterizzare una fase altrettanto inedita nelle sue dinamiche. Per comprendere ciò serve tenere a mente il percorso storico che ha permesso agli Stati Uniti di passare da potenza regionale a unico egemone globale.

Isolati da due Oceani rispetto alla “world island”, gli Stati Uniti si fortificarono e svilupparono capitalisticamente grazie alla colonizzazione dell’America settentrionale, grazie alla quale una classe imprenditoriale propensa al rischio poté avviare lo sfruttamento su vasta scala delle risorse di un intero continente, sostenuta da un mercato interno in continua espansione e dall’attiva collaborazione delle autorità federali. La conquista del West fu il trampolino di lancio per l’espansione verso Sud, ai danni degli altri paesi americani, e verso Ovest, assicurandosi una stabile presenza nel Pacifico.

Nel 1823 il presidente Monroe espresse l’idea per la quale qualsiasi nuovo intervento europeo nel continente americano sarebbe stato interpretato come un atto potenzialmente ostile verso gli Stati Uniti. Questo messaggio rifletteva la volontà da parte degli Stati Uniti di combattere la penetrazione europea sul continente, contrapponendo l’autonomia di questo alla Pax Britannica in formazione. Erano infatti gli anni della lotta per l’indipendenza dei paesi sudamericani che si sarebbero trovati, da lì a pochi decenni, a fronteggiare proprio il “fratello maggiore” del Nord, dove il capitale finanziario era nel frattempo giunto a piena maturazione e posto saldamente alla guida del potere politico[1].

Si aprirono così gli anni dell’intervento per ottenere l’indipendenza di Panama dalla Gran Colombia, e il controllo statunitense del canale, delle Guerre delle Banane, della guerra contro la Spagna per Cuba e Portorico,  della penetrazione imperialista nell’Asia-Pacifico, dalle Hawaii alla Cina, passando per Guam, le Filippine e le Midway, oltre che della Diplomazia del Dollaro, attraverso la quale gli strumenti finanziari, sostenuti all’occasione da interventi armati, fornivano il mezzo attraverso cui legare a sé paesi stranieri tramite debiti inestinguibili, controllandoli politicamente.

L’impero statunitense ha potuto costruirsi in un relativo isolamento, foraggiato da misure protezionistiche e da consistenti flussi migratori, da un capitale aggressivo e spregiudicato, e senza la minaccia di invasioni straniere, in un contesto sgombro dall’influenza di classi aristocratiche o proprietà feudali.

Il capitalismo entrò nella sua fase imperialista negli ultimi decenni del XIX Secolo, quando le esigenze di competizione strategica, il bisogno di trovare nuovi sbocchi per i capitali accumulati in Occidente e la reazione alla crisi iniziata nel 1873 spinsero le potenze dell’epoca alla completa spartizione dell’Africa, ad una più aggressiva penetrazione nel continente asiatico e, come si è detto, a una politica espansionistica degli Stati Uniti verso Sud e verso Ovest.

Tale processo, caratterizzato dalla centralità del capite monopolistico e dei finanzieri, portò alla divisione del mondo tra un piccolo numero di Stati dominanti e una grande massa di paesi asserviti e debitori, legati ai primi da forme più o meno esplicite, più o meno profonde di colonialismo. La centralizzazione del potere economico in sempre meno mani, in pochi cartelli capaci di raggruppare quote significative dell’economia mondiale, si accompagnò ad un’ancor più marcata gerarchizzazione internazionale giustificata ideologicamente dal preteso “fardello dell’uomo bianco”, dalla missione civilizzatrice del liberalismo occidentale, moralmente legittimato  nella sua opera di sistematico annientamento di ogni opposizione esterna o interna e di sfruttamento dei territori sottomessi. Questo primo periodo della fase imperialista del capitalismo, caratterizzato da un “centro” industrializzato composto da una molteplicità di Stati avanzati sostanzialmente equivalenti in termini di potere economico e militare si interruppe brutalmente con la Prima Guerra Mondiale, esplosione delle contraddizioni accumulate negli anni tra quelli, impegnati in una sempre più serrata competizione per le risorse, i mercati e gli spazi utili agli investimenti nell’immensa “periferia” coloniale e semi-coloniale. Per questi motivi, come efficacemente illustrato da Lenin, ogni retorica “nazionale” volta a veicolare il supporto per uno dei due fronti non era altro che artifizio propagandistico: “[...] bisogna dimostrare che la guerra in corso non si combatte per emancipare le nazioni, ma per stabilire quale dei briganti debba opprimere più nazioni[2]. Nel caso in cui questa retorica fosse promossa da partiti socialista, ciò avrebbe costituito una “caricatura del marxismo”, un vero e proprio tradimento della classe operaia, che vedeva i propri interessi perfettamente distinti da quelli di ciascun gruppo imperialista. Molti partiti della Seconda Internazionale ciononostante decisero di appoggiare la guerra, richiamandosi alla categoria di “guerra nazionale” per spiegare lo scontro in corso, avendo la mente ferma ai conflitti del Secolo scorso. Ma la situazione era profondamente differente era in realtà profondamente differente.

Nel nuovo contesto di scontro tra le potenze imperialiste, la parola d’ordine della “difesa della patria” non poteva essere riconosciuta come legittima, in quanto se contestualizzata storicamente nella situazione concreta non poteva che tradursi nel riconoscimento degli interessi della borghesia imperialista: “Il marxismo deduce il riconoscimento della difesa della patria nelle guerre come, ad esempio, quelle della grande rivoluzione francese e di Garibaldi in Europa, e la negazione della difesa della patria nella guerra imperialista del 1914-1916 dall’analisi dei particolari storici concreti di ogni singola guerra e in nessun modo da qualunque principio generale [...]”[3]. Solo la corretta comprensione del contesto portato dalla fase imperialista del capitalismo permise ai bolscevichi russi di portare avanti una prassi politica corretta e arrivare all’abbattimento del regime zarista e alla Rivoluzione d’Ottobre, con la creazione, una volta sconfitto l’intervento straniero, dell’Unione Sovietica.

La Prima Guerra Mondiale fu l’evento che permise agli Stati Uniti, già in sviluppo relativo più rapido dalla fine dell’800, di elevarsi complessivamente al di sopra delle potenze imperialiste europee. Al 1913, prima dell’inizio della guerra, gli Stati Uniti dovevano ai paesi europei circa 13 miliardi di dollari, mentre cinque anni dopo non solo i loro conti erano stati sanati, ma erano diventati creditori del Vecchio Continente per nove miliardi di dollari[4]. Come Lenin osservò nel 1918, “i miliardari americani erano più ricchi degli altri  si trovavano, geograficamente parlando, più al sicuro. Sono loro che hanno guadagnato di più. Essi hanno reso tributari tutti i paesi, anche i più ricchi. Hanno arraffato centinaia di miliardi di dollari[5]. Le grandi potenze europee uscirono dal conflitto distrutte economicamente e moralmente, con forti conflittualità sociali e devastazioni materiali. L’impero zarista e quello tedesco erano crollati per il conflitto, seguiti dall’impero ottomano e dall’Austria-Ungheria. I paesi dell’Intesa, formalmente vincitori, si trovavano fortemente indebitati con il nuovo belligerante che aveva fatto il suo ingresso nel conflitto nel 1917 e dal quale ne uscì non solo indenne, ma anche rafforzato nel suo peso internazionale. La proposta del presidente Wilson di riforma internazionale va letta anche come espressione della volontà, e della crescente capacità, degli Stati Uniti di ergersi a “giudici” del mondo, garanti del suo ordinamento.

Il dominio statunitense sul mondo non era però giunto ancora a maturazione. Francia e l’Inghilterra, per quanto drenate dal conflitto, erano riuscite a conservare il proprio impero, ma rimaneva per loro il fantasma di uno Stato tedesco ancora esistente, a discapito delle pressioni francesi, quello di un’Italia che dal ‘22 sarà impegnata in una politica estera di aggressivi tentativi d’affermazione, e soprattutto del nuovo confronto geopolitico con l’Unione Sovietica. Dopo aver sostenuto attivamente i tentativi secessionisti e le armate bianche, i paesi occidentali furono negli anni costretti al riconoscimento di questo paese che a lungo fu trattato alla stregua di un “appestato”. Ciò fu facilitato anche dalla repressione sanguinolenta dei tentativi di “fare come in Russia”, dall’Italia al Baltico, dall’Ungheria alla Finlandia, che avrebbe allontanato lo spettro della rivoluzione comunista, oltre che dalla postura internazionale dell’Unione Sovietica, che tra gli Anni ‘20 e ‘30 si dedicò intensamente alla ricostruzione interna e al rafforzamento economico, cercando finanche di attrarre capitali occidentali e normalizzare le relazioni diplomatiche.

L’Inghilterra era riuscita a frustrare il secondo tentativo, considerando quello napoleonico come il primo, di creare un’egemonia continentale europea, cosa che la Germania aveva collegato anche ad un vasto incremento della propria marina, protagonista della Flottenpolitik di Von Tirpitz finalizzato a mettere in discussione il dominio marittimo britannico. Il fallimento del tentativo guglielmino avrebbe però significato l’avvento di una nuova egemonia, che avrebbe vinto ogni resistenza britannica.

La crisi del 1929 si schiantò contro questo mondo colpendo soprattutto gli Stati Uniti d’America e, per i legami finanziari, la Germania di Weimar. I danni sociali furono ingenti, e se il New Deal roosveltiano fu sicuramente più proficuo delle misure austeritarie dei suoi predecessori, sarà solo con la Seconda Guerra Mondiale che l’economia americana riuscirà veramente a scrollarsi di dosso i resti del ‘29 ed ergersi su un mondo nuovamente  in macerie.

La Seconda Guerra Mondiale lasciò l’Europa in condizioni ancora peggiori rispetto al precedente. Al continente in ginocchio arrivò la mano “salvifica” del cosiddetto Piano Marshall, l’European Recovery Program, per cui lo spazio d’azione politico veniva scambiato con finanziamenti e forniture commerciali, legando gli “alleati” europei a un vincolo politico e debitorio. Ma un’altra arma permise agli Stati Uniti di torreggiare sugli alleati: nel 1944 a Bretton Wood vennero creato il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, che, assieme al GATT, avrebbero gettato le basi del sistema dollaro-centrico che avrebbe dominato l’Occidente per gli anni a venire. Qui venne imposta la convertibilità di tutte le valute col dollaro, e la convertibilità di questo a cambio fisso con l’oro: il dollaro divenne, soppiantando la sterlina, valuta di riserva internazionale, sorretta da una potenza relativa non più comparabile e da una fortissima attrattività per i capitali della borghesia europea.

La creazione della NATO nel 1949, del progetto federale europeo anche tramite l’American Committee for United Europe e la supervisione della disgregazione degli imperi coloniali del Vecchio Continente furono altri passaggi necessari per l’imposizione di questa egemonia, che riuscì a imporsi nonostante i tentativi dei nuovi alleati subalterni di mantenere spazi d’autonomia. Si pensi all'intervento olandese in Indonesia tra il 1945 e il 1949, a quello francese in Indocina o alla crisi di Suez del 1956, così come all'accantonamento dei piani franco-britannici per la disgregazione della Germania e l’annessione di parti del territorio tedesco.

Il più grande contrasto al nascente egemonismo americano venne dal campo socialista e dai paesi non allineati, espressione della stragrande maggioranza dell’Umanità  e di una tendenza storica irresistibile che da un lato abbatteva le dominazioni coloniale, dall’altro apriva spazi alle forze comuniste per poter esercitare un ruolo guida all’interno dei movimenti di liberazione nazionale. Dopo il 1949, con la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese, il campo socialista e i suoi alleati e stretti interlocutori arrivarono ad occupare una parte considerevole della superficie terrestre.

Nonostante il ripudio di qualsiasi politica conflittuale da parte sovietica negli ultimi anni della dirigenza di Stalin, e nonostante la volontà dei paesi di recente indipendenza di intrattenere un dialogo rispettoso sia con Mosca e Pechino che con Washington, gli Stati Uniti risposero a questa evoluzione incrementando la propria repressione internazionale, come testimoniato, tra gli altri fatti, dal supporto dato al regime di Syngman Rhee nella Corea occupata, dall’intervento in Guatemala del 1954, dal bombardamento dell’Indonesia di Sukarno nel 1958, dalla costituzione unilaterale della BRD e dalla creazione del marco tedesco in Germania, dal supporto alla repressione del movimento comunista greco, dall’opposizione al processo di unificazione vietnamita oltre che, internamente dal maccartismo e dalla Red Scare. La repressione interna agli Stati Uniti fu rivolta sia contro il movimento comunista, cresciuto notevolmente tra gli Anni ‘30 e ‘40, sia contro tutti quei funzionari o personaggi pubblici ritenuti non sufficientemente disposti ad assecondare la nuova crociata anticomunista. E’ noto come persino numerosi addetti del Dipartimento di Stato, e in particolare gli esperti dell’estremo Oriente, furono licenziati in quanto accusati di essere “filo-comunisti” dopo la sconfitta di Chiang Kai-Shek in Cina.

Negli Stati Uniti non erano comunque in pochi a credere in un futuro di pace e amicizia con l’Unione Sovietica, memori dell’appena trascorso periodo di cobelligeranza in funzione antifascista. Tra questi in primis i comunisti americani. A discapito di quanto sostenuto dalla propaganda maccartista, questi non erano “agenti di Mosca”, ma cittadini che sinceramente si facevano portatori della visione di degli Stati Uniti capaci di collaborare a livello internazionale con l’URSS per la causa del progresso e di superare le terrificanti discriminazioni e ineguaglianze ancora presenti al loro interno, ultimando il cammino emancipatorio iniziato con la guerra del 1861-65. Paul Robeson, attore e atleta afroamericano, che dopo aver sostenuto ardentemente le forze repubblicane in Spagna e l’intervento americano nella Seconda Guerra Mondiale venne portato davanti alla Commissione per le Attività Antiamericane per rispondere della sua vicinanza al Partito Comunista degli Stati Uniti d’America. In quell’occasione Robeson ebbe modo di attaccare chi si era eretto a suo giudice: “[...] voi signori siete i non patriottici, voi siete gli antiamericani, voi dovreste vergognarvi di voi stessi![6]. Anche in questa occasione il potere di classe della borghesia si ammantava della bandiera della “difesa della patria” per colpire i suoi nemici politici, rei di lottare per un paese e per un futuro diverso da quello preparato dai baroni di Wall Street.

 In risposta alla crescente popolarità del socialismo e alla sempre più rapida diffusione delle lotte anticoloniali, gli Stati Uniti si impegnarono a partire dalla Dottrina Truman in una lotta senza quartiere contro le forze progressive internazionali. In quest’ottica vennero preparati colpi di Stato, fomentate guerre civili, organizzati atti terroristici e condotte operazioni di destabilizzazione sociale ed economica: una guerra ibrida a tutto campo che non lasciava spazio alla neutralità, rivolgendosi minacciosamente contro chiunque non avesse accettato la totale subordinazione all'agenda geostrategica statunitense. Un elenco completo di tutti i paesi colpiti dagli Stati Uniti o soggetti a forti pressioni esterne per eterodirigerne l’agenda politica comprenderebbe la stragrande maggioranza di tutti i paesi della Terra.

La crescente aggressività di Washington era diretta a prevenire qualsiasi estensione del campo socialista, ma anche contro le lotte di liberazione che avrebbero affrancato paesi coloniali rendendoli indipendenti e autonomi nella loro politica, compromettendo così i regimi di sfruttamento imposti a vantaggio del capitale monopolistico occidentale. A dispetto di quanto attuato sino alla Seconda Guerra Mondiale, dal 1945 in poi gli USA e i loro alleati subalterni non perseguirono la strada dell’asservimento coloniale diretto, ma quella di instaurazione di regimi “neocoloniali”, come descritto dal presidente ghanese Kwame Nkrumah nel suo noto saggio: “L’essenza del neocolonialismo è che lo Stato ad esso soggetto è, in teoria, indipendente e possiede tutti i simboli esteriori della sovranità internazionale. In realtà il suo sistema economico e quindi le sue politiche sono diretti dall'esterno[7]”.

Il sistema della “Guerra Fredda” divenne progressivamente sempre più bipolare, un contesto che rese particolarmente difficile per i vari Stati avere una propria autonomia politica nel mezzo dello scontro tra le superpotenze. Gli Stati Uniti si assicurarono all’interno del proprio campo un controllo pressoché illimitato sugli “alleati” tramite propri agenti nelle istituzioni, reti paramilitari e politiche sotterranee oltre che una mastodontica opera culturale ed ideologica.

Al contrario il campo socialista vide scatenarsi tensioni sempre più marcate, culminate non solo in feroci lotte ideologiche ma anche in scontri armati diretti, come quelli avvenuti tra Cina ed Unione Sovietica nel 1969, causati sia da errori ed eccessi cinesi sia dall’instaurazione sotto la dirigenza di Krusciov di relazioni squilibrate e impari tra i vari partiti comunisti e Stati socialisti. L’accentuarsi di queste tendenze errate nella prassi internazionale sovietica porterà il Partito Comunista Cinese all’elaborazione della “teoria dei tre mondi”: “A giudicare dai cambiamenti nella situazione internazionale, il mondo oggi è diviso in tre parti, o tre mondi, che sono sia interconnessi che in contraddizione l’uno con l’altro. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica compongono il Primo Mondo. I paesi in via di sviluppo in Asia, Africa e America Latina compongono il Terzo Mondo. I paesi sviluppati tra questi due compongono il Secondo Mondo”. Il Terzo Mondo rappresentava nella visione proposta dalla RPC la principale forza di resistenza ai tentativi egemonici, in quanto i paesi di quello costituivano le principali vittime dello scontro internazionale in termini di sovranità negata e di sicurezza compromessa.

Allo stesso tempo anche i paesi del Secondo Mondo rappresentavano un potenziale alleato, poiché, per quanto legati a una superpotenza o, addirittura, mantenenti vincoli coloniali con i paesi del Terzo Mondo, “[a]llo stesso tempo, tutti questi paesi sviluppati sono a vario grado controllati, minacciati o bullizzati da una superpotenza o dall’altra. Alcuni di questi sono stati ridotti da una superpotenza in una posizione di dipendenza sotto l’insegna di una cosiddetta “famiglia”. In vario grado, tutti questi paesi hanno il desiderio di staccarsi di dosso la schiavitù o il controllo di una superpotenza e salvaguardare la propria indipendenza nazionale e l’integrità della propria sovranità[8].

Si può dire che questa analisi rispecchiasse in maniera sufficientemente accurata la situazione creatasi nel campo socialista e le contraddizioni aperte anche dalla degenerazione para-egemonica dell’Unione Sovietica. Questa contraddizioni furono sfruttata dagli Stati Uniti nel quadro della loro violenta controffensiva innescata nella seconda metà degli Anni ‘70 in risposta alla crescente mobilitazione delle classi subalterne in Occidente, alla diffusione delle lotte per l’indipendenza, all’ulteriore espansione del campo socialista e alla crisi generale del capitalismo associata alla decadenza del modello keynesiano e allo shock petrolifero del 1973.

Anticipata in un celebre rapporto della Commissione Trilaterale[9], questa prese forma con il neoliberismo incarnato da Reagan e dalla Thatcher, e si caratterizzò per una rinnovata aggressività tanto negli spazi periferici -colpi di Stato, guerre civili, pratiche terroristiche, supporto a organizzazioni terroristiche…- quanto nel centro del sistema capitalista, con la sistematica aggressione contro le conquiste democratiche della classe lavoratrice. Il centro capitalista mutò la sua natura da industriale a finanziario-speculativo, entrando per questo in rapporto di ancor più stretta dipendenza, e sfruttamento, con la periferia neocoloniale e semi-coloniale. A ciò contribuì la fine della convertibilità del dollaro in oro decisa da Nixon e la conseguente crescita esponenziale del debito pubblico americano, con un dollaro dal valore sempre più garantito unicamente dalla possibilità della sua imposizione coatta. Il grande cambiamento introdotto da Nixon, reso necessario dalle crescenti necessità di spesa da destinare agli armamenti, ebbe tra le sue conseguenze quella di creare una per gli Stati Uniti una posizione inedita di “padrone/debitore”. Il crescente deficit nelle bilance commerciali e dei pagamenti degli USA non divenne sinonimo di diminuzione della propria influenza egemonica, ma, grazie alle specificità del dollaro, divenne uno strumento per legare a sé i paesi creditori, obbligandoli a finanziare la spesa pubblica statunitense attraverso l’acquisto di titoli di Stato, in un meccanismo di “redistribuzione verso l’alto” della ricchezza, capace di condizionare in negativo tutte le economie mondiali con la sua capacità di offerta pressoché illimitata. Come è stato rilevato dall’economista statunitense Michael Hudson, questa forma di “servitù creditoria” ha permesso agli Stati Uniti di finanziare il proprio crescente deficit del bilancio grazie al debito contratto con gli altri paesi: “Poiché le banche centrali straniere ricevevano dollari dai loro esportatori e dalle banche commerciali che preferivano la valuta nazionale, non avevano altra scelta che di prestare questi dollari al governo degli Stati Uniti. La gestione di un'eccedenza di dollari nella bilancia dei pagamenti divenne sinonimo di prestito di tale eccedenza al Tesoro americano. La nazione più ricca del mondo era in grado di ottenere automaticamente prestiti dalle banche centrali straniere semplicemente gestendo un deficit nei pagamenti. Più cresceva il deficit dei pagamenti degli Stati Uniti, più dollari finivano nelle banche centrali straniere, che poi li prestavano al governo degli Stati Uniti investendoli in obbligazioni del Tesoro di vario grado di liquidità e commerciabilità. Il bilancio federale degli Stati Uniti è andato sempre più in deficit in risposta all'economia delle armi e del burro, gonfiando un flusso di spesa interna che si è riversato su altre spese. Il bilancio federale degli Stati Uniti è andato sempre più in deficit in risposta all'economia “guns-and-butter”, gonfiando un flusso di spesa interna che si è riversato su altre importazioni e investimenti esteri e su ulteriori spese militari all'estero per mantenere il sistema egemonico. Ma invece di tassare i cittadini e le imprese statunitensi o di obbligare i mercati dei capitali americani a finanziare il crescente deficit federale, le economie straniere erano obbligate ad acquistare i nuovi titoli del Tesoro emessi. La spesa americana per la Guerra Fredda divenne così una tassa sugli stranieri”[10].

 

[1] A tal proposito sarà centrale la creazione nel 1913 della Federal Reserve, che, anche se frutto di un atto governativo, avrebbe sempre goduto di quell’autonomia necessaria a vincolare le scelte degli Stati Uniti verso un crescente interventismo e al cammino imperiale, di cui i principali beneficiari e promotori erano proprio i finanziari di Wall Street. I Rockefeller e i Morgan furono centrali nella sua costruzione, che avvenne in risposta alla crisi finanziaria del 1907 e al rialzo dei tassi d’interessi della banca d’Inghilterra, con il conseguente restringimento del credito concesso dalla banche inglesi ai capitalisti americani e il deflusso di oro verso il Vecchio Continente. Tutt’ora Morgan e Rockfeller controllano la FED di New York, vero centro dell’istituzione.

[2] V. Lenin, Attorno ad una caricatura del marxismo, in C. Basile, I bolscevichi e la questione nazionale, Genova, Altergraf, p. 265.

[3] V. Lenin, La rivoluzione socialista e il riconoscimento delle nazioni all’autodecisione, in C. Basile, I bolscevichi e la questione nazionale, Genova, Altergraf, 2017, p. 142.

[4] S. Nearing, J. Freeman, Dollardiplomatie, Berlino, Grunewald, 1927, p. 25.

[5] V. Lenin, Lettera agli operai americani, in Pravda, 22 agosto 1918.

[6] P. Robeson, Testimony of Paul Robeson before the House Committee on Un-American Activities, 12 giugno 1956.

[7] K. Nkrumah, Neocolonialism, the Last Stage of Imperialism, Londra, Thomas Nelson & Sons, Ltd, 1965, p. 4.

[8] Deng Xiaoping, Speech By Chairman of the Delegation of the People’s Republic of China, Deng Xiaoping, At the Special Session of the U.N. General Assembly, 10 aprile 1974.

[9] Si tratta del documento The Crisis of Democracy, in cui si metteva in chiaro il pericolo rappresentato per l’apparato bellico statunitense dalla crescita del potere contrattuale delle classi subalterne e dalla conseguente estensione dello stato sociale.

[10] M. Hudson, Super Imperialism, Londra-Sterling, Pluto Press, 2002,  p. 17.

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